L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Introduzione

“Se l’irradiazione muove dalla rima val quanto dire che il punto di partenza dell’ispirazione è l’ostacolo (quella che fu chiamata, più o meno propriamente, la “resistenza del mezzo”); e l’ostacolo è il nemico da vincere tutt’i giorni, lo stato permanente di guerra, la coscienza dell’eros pericoloso a cui cede, e in cui trova perfezione e gloria, il poeta”.

Gianfranco Contini, Introduzione alle Rime di Dante

Nella Vita Nuova l’Alighieri, riprendendo e riconducendo ad unità i motivi principali della poesia giovanile, fonda la propria finzione autobiografica. Il libello è un’antologia di quell’esperienza, e il risultato di scelte ben precise, cui l’autore fu indotto dalla necessità di portare ordine nel tumultuoso mondo della giovinezza. A questo consuntivo l’Alighieri si dedicò all’incirca negli anni 1294-1295, seguendo i modelli proposti dalla letteratura provenzale dell’epoca precedente. Come nelle vidas e nelle razos, egli incorniciò la sua poesia d’amore in una prosa che ha la funzione di dare corpo alla vicenda drammatica del libello, e di consentire il commento alle poesie antologizzate[1]. Tuttavia non è ancora questa la vera novità del “libello”. Scrive L. Rossi: “l’aspetto originale e nuovo del libello è che Dante stesso sia l’autore delle razos e della “biografia” intessuta sulle proprie liriche: che il romanzo, l’esempio, siano costruiti dal medesimo poeta”[2], il che non avveniva nei poeti provenzali. Appare pertanto inevitabile considerare, in via preliminare, l’originalità di questa scelta, poiché l’Alighieri assume un modello letterario tradizionale, quello delle vidas e razos, e attribuisce ad esso una funzione speciale, tutta inerente e intrinseca alla sua opera. Si apre qui il campo d’indagine di questo lavoro: la rilettura dei testi danteschi dovrà chiarire il significato di questa scelta, e quale importanza essa abbia avuto nell’evolvere dell’opera dantesca.

Che l’Alighieri abbia inteso antologizzare, commentare e drammatizzare alcune poesie, che questa operazione sia avvenuta post factum, cioè dopo la composizione delle sue poesie giovanili (sia sa, per esempio, che il primo sonetto della Vita Nuova, A ciascun alma presa, risale addirittura al 1283), questa volontà dell’autore di far dipendere la prosa dalla poesia deve rendere avvertito il critico che voglia considerare il significato della Vita Nuova nell’evolvere dell’opera dantesca. La stessa cosa accadde dieci anni dopo col Convivio, allorché Dante decise di commentare (secondo i quattro sensi della poesia teorizzati in Conv. II, I 3-7) le canzoni allegoriche (alla primavera del 1294 o agli ultimi mesi del 1293, cioè al tempo della Vita Nuova, risale la canzone del II trattato del Convivio, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete[3]); neppure un terzo del lavoro programmato, come si sa, fu portato a termine, per l’insorgere di altre esigenze, certamente legate all’elaborazione della Commedia. Anche nella Commedia noi troviamo un siffatto modo di lavorare facendo i conti con il passato. Si pensi, per esempio, al XXIV canto del Purgatorio, dove il poeta per bocca di Bonagiunta da Lucca dà la definizione dell’esperienza giovanile del dolce stil novo. In realtà il poeta qui interpreta la sua opera passata, dandole un taglio ben preciso, afferma che d’ora innanzi sarà bene seguire il precetto di Bonagiunta, secondo cui Dante è “…colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ‘ Donne ch’ avete intelletto d’ amore ‘ “; e che pertanto il lettore dovrà considerare questa canzone della Vita Nuova (scritta già prima del 1292[4], cioè circa vent’anni prima rispetto al Purgatorio) come il cominciamento della nuova poesia di Dante. Il fare i conti con il passato, allora, non è solo un modo di lavorare, bensì è il risultato della ferma volontà dell’autore di selezionare una parte della poesia giovanile (in quest’ultimo caso quella che gli appare compatibile col nuovo corso della poesia all’altezza del Purgatorio), piegandone il senso alle esigenze di un'”opera in perenne progress”, secondo la definizione di Maria Corti[5]. A distanza di molti anni, Dante si volta indietro, rivede il suo lavoro, lo reinterpreta, ne riutilizza i materiali, cambiandone il più delle volte l’originario significato; pertanto, giusta appare la definizione di F. Tateo secondo cui “l’opera dantesca è, sia nella Vita Nuova sia nel Convivio sia nella Commedia, una interpretazione e reinterpretazione ideologica della propria esperienza”[6]; paragonabile in questo a quei terreni le cui stratificazioni gli archeologi sono capaci di individuare, dicendone l’età e molto altro ancora. Il filologo a braccetto con lo storico qui trovano pane per i loro denti, molto pane, e d’una durezza insolita.

Il punto di partenza di un’indagine che si proponga di ricostruire l’evolvere della finzione autobiografica dantesca, è proprio nell’accertamento del modo in cui l’Alighieri operò, ovvero nella ricostruzione delle fasi del suo lavoro. E’ da considerare indispensabile la fatica di quanti hanno indagato, soprattutto nell’ultimo secolo, l’opera dell’Alighieri, alla ricerca d’un indizio, d’un dato, d’un riferimento biografico, che portasse luce nel laboratorio dantesco. L’opera dell’Alighieri ora ci appare come un macchina smontata, con tutti i pezzi e i meccanismi ben in vista, ma, ahimè, ormai defraudata della sua funzionalità. L’eccesso di specialismo di pochi non solo ha allontanato i molti dalla lettura dell’opera (della quale i commentatori antichi celebrano la popolarità), ma ha provocato un guasto più grave col distogliere l’attenzione del lettore dalla finzione autobiografica dantesca, che è la vera struttura portante dell’intera opera dell’esule fiorentino.

Il nostro lavoro ha inizio, come s’è detto, con la constatazione che l’Alighieri, in un certo momento della sua vita (tra la fine del 1293 e il 1295), ha incorniciato alcune sue poesie scritte negli anni Ottanta in una prosa drammatica; questa constatazione è preliminare rispetto all’accertamento delle ragioni che indussero l’Alighieri ad agire in tal modo. In effetti, la grandezza, l’originalità dell’autore a confronto degli altri stilnovisti, è proprio nell’aver ordito intorno alla sua poesia giovanile una trama narrativa che del significato di quella poesia si avvale, portandone i risultati alla piena maturità. La prosa a un certo punto soccorre la poesia, le dà una mano nel momento in cui questa avrebbe potuto insterilirsi in un raffinato, ripetuto gioco linguistico; il patrimonio della più matura stagione stilnovistica si sarebbe alla lunga  inaridito e dissolto, se la prosa del libello non lo avesse dotato d’una potente vitalità e dinamicità, valorizzandolo con un racconto in cui situazioni topiche e personaggi ricorrenti dello stilnovismo (l’amore, il saluto, la donna, i fedeli e quant’altro) venivano organizzati in una fabula che ne rappresentava la soluzione, foriera a sua volta di nuovi sviluppi. L’Alighieri è l’unico poeta del suo tempo che abbia avuto la capacità di fare ciò, non Guinizzelli che precorse la stagione, non Cavalcanti che ne sentì e interpretò il dramma più tragicamente, non Cino i cui toni malanconici annunziano la fine di un’epoca. Probabilmente questo basta a spiegare perché e come la poesia dantesca abbia superato (con l’aiuto della prosa) lo stilnovismo, e quindi la sua grandezza; e dunque non sembra fuori luogo l’impressione che gli altri stilnovisti, rispetto a Dante, vivano perennemente in uno stato di minorità, come eterni fanciulli che non riescano a diventare adulti.

Benedetto Croce per primo, nel 1921, con la pubblicazione de La poesia di Dante, portò aria fresca nelle stanze chiuse e buie della critica dantesca. Sentenziò col suo consueto vigore, che occorreva liberare l’opera di Dante da tutto quello ch’egli definiva allotrio, e ancora, che bisognava considerarla come l’opera d’un poeta, non d’un filosofo, teologo, politico, eccetera. Mai come in questo caso la distinzione tra poesia e non poesia, per altri versi insana e dannosa, si rivelava proficua. Difatti, tolto via il superfluo, rimaneva l’essenziale. Ma in Croce l’essenziale rimaneva purtroppo vago, il riferimento allo “spirito poetico di Dante” in cui risiederebbe “l’unità vera della poesia dantesca”[7] generico e inadeguato a comprenderne l’opera.

B. Croce ebbe anche il grande merito di rivelare la vera natura dell’allegoria, definita procedimento criptografico segnato dall’arbitrarietà del significato[8], con ciò dando un fondamento stabile e sicuro, difficilmente confutabile dal punto di vista teorico, all’annosa discussione del problema allegorico. Questo giudizio è oggi in parte rivedibile, sulla base delle nuove acquisizioni della critica dantesca, ma, soprattutto se utilizzato per comprendere l’uso dell’allegoria nel Convivio, conserva – come vedremo –  tutta la sua validità.

Meno perentorio era stato G. Gentile sin dal 1908 quando si dichiarava convinto che “l’allegoria in Dante è il linguaggio della sua anima” e che pertanto “la sua allegoria, tutto il suo simbolismo va inteso e quindi valutato, filologicamente, come espressione dello stesso spirito del poeta (…)”[9]; e però, tornando sull’argomento nel 1921 (dunque, contemporaneamente al Croce) invitava a “distinguere” “con ogni cura” “l’allegoria posticcia e meccanica e l’allegoria costitutiva, organica e vivente, la quale non cade sotto la condanna a cui è fatto segno la prima”[10]. Il giudizio del Gentile, meno generico certamente rispetto a quello del Croce, ha il merito di non abbandonare il solido terreno storico in cui trova il suo fondamento ogni canone interpretativo dell’opera letteraria.

Nel 1967 Antonino Pagliaro in Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia riprendeva la questione, rimanendo sulla traccia di Croce e di Gentile, e dando al problema allegorico una soluzione relativamente differente; egli infatti distingue in questo modo simbolo da allegoria:

“Nel simbolo e nell’allegoria si ha un significato, che viene assunto a significante di un altro significato; ma i due rapporti semantici si attuano in modi totalmente diversi. Il simbolo è di natura propriamente metaforica, poiché il segno si crea nell’ambito di un rapporto tra il sensibile e il concettuale; data la diversità dei piani, non si ha un immediato attuarsi di esso, ma si rende necessario la sua acquisizione in una progressiva rappresentazione. A differenza del simbolo, l’allegoria non è di natura metaforica, perché il significato non nasce da un legame di necessità naturale tra il dato sensitivo e l’ idea (cioè l’ idea non si sviluppa da una connotazione reale dell’oggetto), ma è imposto da un’intenzione, sottintende, cioè, un riferimento a qualcosa che medi in un certo senso il rapporto. Mentre nel simbolo si ha una unità del sensibile e del non sensibile (come del significante e del significato nella parola, nel suo momento genetico), nell’allegoria il rapporto è naturalmente arbitrario, come lo è il segno nella sua stretta funzionalità; il rapporto viene legittimato solo dall’intenzione di intendere in un certo modo, anziché in un altro, così come nella prima individuazione funzionale del segno il significante è reso legittimo (ciò qui avviene con maggiore pienezza e regolarità) dall’intenzione di distinguere un sapere, un significato”[11].

Queste acquisizioni della critica dantesca, aventi un valore estetico generale, devono essere integrate col contributo di Charles S. Singleton, che distingue l'”allegoria dei poeti” dall'”allegoria dei teologi”, la prima propria del Convivio, la seconda della Commedia; egli insiste non solo sulla loro diversità, ma anche sul diritto dell’Alighieri di usarle entrambe nelle due opere[12]. Egli scrive:

“La allegoria dei poeti, come Dante la presenta nel Convivio, è essenzialmente un’allegoria che consiste in “questa cosa per quella”, “questa rappresentazione al fine di dare (ma anche nascondere) quel significato”. (…)

Ma la specie di allegoria a cui ci rinvia l’esempio scritturale fornito nell’Epistola a Can Grande è un’allegoria consistente non in “questa cosa per quella”, bensì in “questa cosa e quella”, questo senso più quello. Il versetto della Scrittura che dice “In exitu Israel de Aegypto” ha il suo primo significato in quanto denota un evento storico reale e ha il suo secondo significato perché quello stesso evento storico, essendone Dio l’Autore, può significare un altro evento ancora: la nostra Redenzione per Cristo. Il primo è un significato in verbis; il secondo è un significato in facto, contenuto nell’evento stesso”.[13]

Ora, ferma restando la fondatezza della distinzione tra allegoria dei poeti (Convivio) e allegoria dei teologi (Commedia), a contrastare il rischio di astrattezza presente nel Singleton, valgono le critiche al Singleton di Harold Bloom:

“Tutto ciò che in Dante c’è di vitale e originale, è arbitrario e personale, eppure è presentato quale la verità, consonante con tradizione, fede e razionalità. Quasi ineluttabilmente, lo si fraintende al punto da farlo sfumare nel normativo, e alla fine ci troviamo di fronte a un successo che Dante non poteva certo accettare. Il Dante teologico della moderna erudizione americana è una mistura di sant’Agostino, Tommaso D’Aquino e compagnia bella. E’ un Dante dottrinale, a tal punto astrusamente dotto e sorprendentemente pio da poter essere afferrato a pieno solo dai professori americani”[14].

Non basta difatti affermare che il poeta ha dietro di sé numerosi secoli  – da Agostino in poi, per rimanere in ambito medievale – nei quali l’interpretazione allegorica è stata considerata l’unico valido metodo euristico[15]; bisogna andare oltre, e scoprire in che modo e per quale fine inerente alle sue opere, l’Alighieri usi quel metodo di accertamento della verità ch’egli trovava bell’ e pronto nella realtà culturale della sua epoca, e perché lo usi in modo differente da opera a opera. Per l’allegoria converrebbe ripetere quanto si è detto per i modelli provenzali delle razos e vidas, e cioè che l’Alighieri assume l’interpretazione allegorica come un dato culturale e tradizionale, e la interpreta a suo modo, assegnandole una precisa funzione, piegandola alla necessità della propria finzione autobiografica, così come viene evolvendo dal Convivio alla Commedia. Ebbene, io credo che il rinvenimento delle ragioni di questo modus operandi, in cui bisogna riconoscere la grande originalità del poeta che mal tollera d’essere chiusa negli schemi ideologici del mondo medievale fabbricati a posteriori (in realtà “Dante ha impersonato il primo intellettuale dell’età moderna”[16]), sia consentito soltanto da una lettura interna dell’opera, finalizzata ad individuare le sue funzioni narrative.

Nel 1958 G. Contini pubblica Dante come personaggio-poeta della Commedia, un breve scritto col quale, se Croce aveva portato aria fresca nelle stanze della critica dantesca, il critico di Domodossola vi portava un po’ di luce. Egli dice che nella Commedia non è protagonista l’uomo Dante, bensì, come recita il titolo dello scritto citato, un personaggio-poeta, da considerare come “criterio esegetico e insieme scandaglio euristico”[17]. E’ quanto basta ad indicare la direzione della ricerca. Difatti, quel breve scritto ha il merito di trasportare la critica dantesca da un piano dove ancora ci si accaniva nel tentativo di stabilire se Dante avesse veramente fatto o pensato di fare il viaggio oltremondano, e altre siffatte questioni, a un piano in cui vale la pena indagare e capire qual sia stata la formazione e l’evoluzione del personaggio autobiografico dantesco, dove e perché sia nato e come sia cresciuto sotto la penna dell’Alighieri; un personaggio che, se all’altezza della Vita Nuova e del Convivio è individuabile come poeta, amante, commentatore (con grandi differenze, come vedremo, da un’opera all’altra), nella Divina Commedia sarà volta a volta umile pellegrino, poeta (“sesto tra cotanto senno”), filosofo, teologo, politico ecc.. Tutto quello che a Croce sembrava allotrio potrà ora essere recuperato in sede critica per lo studio del personaggio-Dante, come materiale che lo rende ricco di risvolti psicologici, culturali e filosofici. Ora, al centro della scena è, in via definitiva, il personaggio-Dante, che lo scrittore ha dotato d’un tratto fondamentale e direi fondante in tutte le opere volgari, quello d’essere narratore d’una vicenda di cui è il protagonista, agens ed auctor, come voleva appunto Contini[18]. Scrive a rincalzo A. Vallone: “Il fondo autobiografico è uno specchio perenne, cui il tempo dona riflessi ora cupi ora soavi, ma sempre vivissimi”.[19] Il personaggio-Dante, infatti, parla sempre di sé, ed elabora e rielabora (in quanto voce narrante) un’immagine di sé, diversa da opera ad opera (eppure così contigua), che il critico deve di volta in volta individuare, circoscrivere, definire, al fine di capire l’intenzione che animava l’Alighieri, cioè il significato delle sue scelte. Il biografo insegue l’uomo, noi giungiamo a capire lo scrittore attraverso il personaggio, nel quadro di una finzione costruita dal poeta col lavoro di tutta la vita che, com’egli dice, “m’ha fatto per più anni macro” (Par. XXV 3). Dalla biografia all’autobiografia: su questo piano estremamente mobile, ma l’unico propriamente letterario, noi intendiamo muoverci. Dante è il protagonista della propria vicenda, il centro della propria finzione, come è opportuno definirla per distinguerla dalla vita, i cui eventi lasciamo -sia detto col rispetto dovuto a chi vi si dedica- alla sagacia del biografo. Col termine finzione intendiamo definire in modo metaletterario la storia (o fabula) raccontata dal narratore che parla di sé. C’è una notevole differenza tra storia (o fabula) e finzione, poiché il termine finzione comporta il riconoscimento critico del carattere fittizio, ovvero letterario, della fabula, laddove, invece, col termine storia (o fabula) si presuppone la piena fiducia del lettore nelle vicende che il narratore dice di avere vissuto in prima persona. Inoltre, l’autore è il responsabile della finzione, mentre della fabula è responsadbile il narratore. Il critico letterario, ponendosi dal punto di vista della finzione dantesca, e cioè considerando la letterarietà[20] dell’opera, senza mai perdere di vista il significato della fabula, anzi correlando i due piani del discorso, saprà evitare di rimanerne irretito. Infine, se sarà stato in grado di procedere nell’analisi, ricercando le funzioni narrative, e ricostruendo il sistema delle relazioni che intercorrono tra di esse, e il modo in cui, nel passaggio da un’opera all’altra, l’Alighieri ha riannodato i fili della propria finzione, avrà saputo anche illuminare il significato delle scelte dantesche che sono di natura letteraria ed estetica in primo luogo, e solo in secondo luogo morali, filosofiche, religiose, eccetera.

In questo studio mi propongo di ricostruire la formazione del personaggio autobiografico dantesco dalla Vita Nuova al Convivio e alla Commedia. Dante stesso all’inizio del Convivio (I, I 16-18) ci avverte che le prime due opere, autonome una rispetto all’altra, raccontano una medesima storia. Che rapporto, dunque, v’è tra l’una e l’altra? In che modo evolve il personaggio autobiografico dantesco dall’una all’altra? Certamente le differenze col “personaggio-poeta” della Commedia sono molte, ma rimane indiscutibilmente acquisito che dalle opere giovanili occorre partire se si vuol comprendere il graduale maturare, e direi rinnovarsi del “personaggio-Dante” del quale la Commedia ci offre l’immagine ultima e definitiva[21]. Nel personaggio autobiografico, protagonista della Vita Nuova e del Convivio, abbiamo individuato tre funzioni narrative: egli è amante, poeta e commentatore; amante di Beatrice, poeta della propria esperienza amorosa, e commentatore ovvero interprete delle proprie poesie. Si indagherà, dunque,  la ragione di una simile complessa finzione narrativa, e  si cercherà di capirne il senso.

L’indagine ha preso il via dal Convivio in cui Dante ha elaborato una precisa immagine del proprio personaggio autobiografico: questi è l’intellettuale-poeta perseguitato ingiustamente (esiliato), che gioverà con la dottrina a quanti vorranno leggere la sua opera e al contempo gioverà a se stesso, poiché, grazie alla sua nuova opera (il Convivio), avrà modo di ristabilire la verità circa la poesia giovanile che non era stata compresa a fondo, ma soltanto nel suo significato “litterale”; e questo fraintendimento, prim’ancora dell'”essilio”, aveva compromesso la reputazione del poeta. A partire da questa premessa, ho riletto l’opera che, secondo il narratore del Convivio, gli ha arrecato tanto danno; di qui all’agone della Vita Nuova, il passo è stato obbligato. Infine, ho ripreso il cammino per capire la particolare struttura del Convivio e infine l’organizzazione testuale e la relativa finzione escatologica della Commedia che rappresenta l’esito ultimo del percorso dell’Alighieri.

Da questa sommaria esposizione della struttura del lavoro, si può comprendere come metto sullo stesso piano tre opere che senza dubbio appartengono a generi letterari diversi, il che non dovrebbe dare adito ad alcuna obiezione, stante l’acquisizione critica  d’origine crociana, per cui “(…) l’opera di un artista, (…) ha sempre unità di svolgimento qualsiasi forma essa prenda (…)”[22]. Col Convivio l’Alighieri ha abbandonato il genere narrativo della Vita Nuova, a favore della forma trattatistica, che infine tralascerà per il poema didascalico della piena maturità. In realtà queste distinzioni non eliminano il segnale indiscutibile di continuità tra l’esperienza giovanile e quella della prima maturità dantesca, consistente nel fatto che le due prime opere sono strutturate secondo la forma del prosimetron, con la variante che, mentre nella Vita Nuova v’è un alternarsi della prosa ai versi, nel Convivio la prosa è destinata al commento della canzone che apre ogni trattato (con l’eccezione del I). Vedremo poi come la scissione tra poesia e prosa sarà ricomposta in unità nella poesia della Commedia.

Inoltre, in tutte e tre le opere è presente, sia pure nella forma che sarà precisata nel corso della trattazione, la duplice funzione del narratore che parla di sé e dell’attore, il che conferisce la dimensione autobiografica all’intera opera volgare  dell’Alighieri.

Assumiamo il termine autobiografia, presente nel sottotitolo del nostro lavoro, nei limiti in cui il nostro autore ci autorizza a farlo in Convivio, I II, dove, illustrando i motivi del parlare di sé,  fonda la sua stessa finzione autobiografica.

Naturalmente non sono questi i soli dati comuni (ma non trascureremo le grandi differenze) alle tre opere. In generale, per ora, diremo solo che nel Convivio si assiste ad un approfondimento delle funzioni narrative e di tutta l’organizzazione testuale presente nella Vita Nuova, delle stesse funzioni che, previa trasformazione radicale della fabula in senso escatologico, troveranno la loro conferma nella poesia della Commedia. Da questo punto di vista ed entro questi limiti, crediamo che sia legittimo mettere sullo stesso piano l’intera opera volgare dell’Alighieri.

Infine, qualche parola sulla selezione delle opere qui analizzate. Nel limite entro il quale le esigenze del nostro lavoro lo ha consentito, non si è estesa l’indagine alle opere latine dell’Alighieri, perché in esse l’impegno teorico e dottrinario dell’autore ha la meglio sulla contemporanea e parallela costruzione della finzione autobiografica, a tal punto che l’autore sembra ignorarla del tutto. Nelle opere latine è assente la struttura portante delle opere volgari, fondata, come si è già detto, sul rapporto narratore-attore, e dunque esse sono anche prive di drammaticità. Si direbbe, inoltre, che in esse abbia assunto valore pressoché assoluto una importante funzione narrativa nata con la Vita Nuova e presente in modo sistematico nel Convivio, su cui molto insisteremo nel corso del nostro studio, quella del dotto commentatore, del filosofo, dell’amatore di sapienza, che, in una lingua conveniente a un pubblico di dotti, il latino, dibatte questioni di grande interesse teorico. A partire all’incirca dal 1303, ovvero dal periodo in cui cominciava a scrivere il Convivio ed il De vulgari eloquentia (le due opere sono all’incirca coeve)[23], l’Alighieri operò, per così dire, su due tavoli diversi, l’uno volgare e l’altro latino. Nella Commedia, in volgare (vedremo come il volgare si configuri come lingua autobiografica, secondo quanto teorizzato nel Convivo), l’Alighieri proseguì e completò l’elaborazione della sua finzione autobiografica, iniziata già nella Vita Nuova e approfondita nel Convivio; contemporaneamente, nel De vulgari eloquentia, nel Monarchia, nella Quaestio, nelle Epistole, chiarì a se stesso e agli altri le ragioni linguistiche, politiche, geografiche; in latino, cioè nella lingua dei dotti, che evidentemente lo avrebbero escluso da ogni considerazione se egli avesse usato soltanto la lingua volgare (significativo in proposito è lo scambio di egloghe col del Virgilio bolognese; questi in Egloge, I, 15 afferma appunto: “clerus vulgaria tempnit”). Tuttavia questo duplice lavoro di Dante ha una sua organicità, dal momento che le opere latine rispetto a quelle volgari costituiscono importanti momenti di riflessione, di chiarimento interiore, sono veri e propri consuntivi dell’esperienza speculativa, e servono anche come materiali dell’opera poetica; esse contribuiscono al progressivo arricchimento e consolidamento del personaggio-Dante, delle sue ragioni, del suo mondo poetico, della finzione autobiografica dantesca, che rimane la struttura portante dell’intera opera del grande fiorentino.  Se in questo studio, dunque, non si indagheranno le opere latine dell’Alighieri, è perché altro è lo scopo, che consiste, ripeto, nel porre in piena luce la nascita e l’evoluzione della finzione autobiografica dantesca nella Vita Nuova, nel Convivio e nella Commedia.

A monte del percorso dantesco poi, si è trascurata l’analisi delle Rime nel loro stadio precedente la Vita Nuova ed oltre. E’ inutile dire che anche in questo caso il taglio del nostro lavoro ha diretto la scelta. Anche le Rime volgari difatti risultano inaccessibili ad un’analisi narratologica poichè mancano della struttura narrativa presente nelle altre opere volgari. Di esse si è fatta questione solo dove l’Alighieri, includendole nel nuovo gioco della Vita Nuova o del Convivio (le poesie allegoriche), le ha dotate di una valenza drammatica (dove cioè esse cooperano all’azione, sono parte dell’azione testuale, depositarie d’una funzione precisa, quella poetica) che prima, stando a sé, non possedevano. Dal Convivio alla Vita Nuova, e poi di nuovo al Convivio: alla fine, una volta portato a termine il percorso circolare tanto caro al nostro autore, da lui stesso suggerito in più occasioni col suo modo di lavorare sempre pronto ad acquisire il nuovo, eppure sempre teso al passato, ci siamo dati ragione della finzione autobiografica dantesca del I trattato del Convivio; e abbiamo reso ragione alla scelta dantesca di proseguire il suo viaggio nell’oltremondo con la Commedia. Ma sbagliamo a considerare i risultati conseguiti, perché è meglio lasciarli al giudizio del lettore.


[Dossena, febbraio 1998 ]

Note


[1] C. Di Girolamo, I trovatori, Torino 1989, pp. 219-220, ha individuato bene la linea di continuità tradizione trobadorica-Vita NuovaRerum vulgarium fragmenta, soprattutto dove afferma: “(…) tra le antologie ragionate e farcite di biografie e i Rerum vulgarium fragmenta non manca nemmeno l’anello di congiunzione, rappresentato da un altro testo capitale della tradizione romanza, vale a dire la Vita Nuova, in cui l’autore si fa autoglossatore e autobiografo e in cui i singoli individui poetici si compongono in un’unità data dalla biografia del poeta-amante e dalle razos ai testi (…)”.

[2] L. Rossi, Il cuore, mistico pasto d’ amore: dal “Lai Guirun” al Decameron, in Studi Provenzali e Francesi 82, 6 (1983), p. 120.

[3] Cfr. D. De Robertis, Avvertenza al commento alle canzoni, Milano-Napoli 1995, p. XC (n. 3), ed inoltre Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983, p. 88. Incerta la datazione delle altre due canzoni che, tuttavia, non dovrebbe porsi oltre l’ultimo decennio del Duecento.

[4] Cfr. G. Favati, Inchiesta sul Dolce stil nuovo, Firenze 1975, pp. 124-125 e n. 5.

[5] in La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 53.

[6] F. Tateo, Il primo canto dell’Inferno e la sua funzione introduttiva, in AA.VV., Lectura Dantis (Potenza 1984-1985),  Galatina 1987, p. 17.

[7] B. Croce, La poesia di Dante, Bari, 1921, p. 70.

[8] Per la definizione crociana dell’allegoria cfr. B. Croce, La poesia di Dante, cit., p. 13, da noi citata nel I capitolo del nostro studio, p. 17. Sul problema il critico Croce tornerà, senza apportare variazioni di rilievo alla sua precedente definizione dell’allegoria, nel 1922, col saggio Sulla natura dell’allegoria, in Nuovi saggi di Estetica, Bari, 1926, II ediz. accresciuta. Croce andava fiero (a ragione) del progresso impresso agli studi danteschi, come dimostra uno scritto del 1925, Il problema estetico della Divina Commedia, ora in Pagine Sparse, II, Bari 1960, p. 214: “(…) io, progredendo sulla critica dantesca del De Sanctis, ho distinto la questione dell’allegoria da quella della struttura teologica e morale, e dell’allegoria ho dato un più preciso concetto, togliendola dal novero delle forme espressive e trasportandola in quello dei procedimenti criptografici, e ho ammonito circa l’intrinseca vanità degli sforzi onde si procura d’indovinare le allegorie e colmare le lacune e conciliare le contraddizioni delle parti strutturali”.

[9] G. Gentile, Il pensiero e la poesia nella “Divina Commedia”, in Studi su Dante, Firenze, 1965, vol. XIII delle Opere.

[10] La filosofia di Dante, in Studi su Dante, cit., p. 190. E a p. 191 insisteva: “Intendere il pensiero o intendere la poesia di Dante rifiutandone ogni elemento simbolico o allegorico è impossibile, poiché a Dante tante cose di quelle che più lo appassionarono e gli stettero innanzi, anzi gli riempirono l’anima e la vita, raffigurate così come a lui veniva naturalmente fatto di vederle in conseguenza delle sue abitudini mentali e dei consueti modi di esprimersi e però di raffigurare a sé medesimo gli obbietti del suo pensiero, gli si presentarono in forma allegorica”.

[11] A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, II, Messina-Firenze 1967, p. 489; ma cfr. anche le pp. 111, 509-510 e 524-526. Il corsivo è nostro.

[12] Charles S. Singleton, La poesia della Divina commedia, Bologna 1978. Comprende Commedia. Elements of Structure, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1957; Journey to Beatrice, Cambridge, Mass., Harvard Huniversity Press, 1958. Traduzione di Gaetano Prampolini. A p. 125 leggiamo che Dante non è “tenuto a usare sempre la stessa specie di allegoria” e gli è “consentito di sperimentare una specie in un’opera e un’altra in un’altra opera”. Si rinvia all’Appendice della prima parte dell’opera (Elementi di struttura) dal titolo Le due specie d’allegoria (pp. 115-129).

[13] Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina commedia, cit., pp. 120-121.

[14] Harold Bloom, Il canone occidentale. I Libri e le Scuole delle Età, Milano, 1996 [1994], p. 70.

[15]Cfr. C. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 47: “Ogni qual volta accade che le cose della natura siano viste soltanto come cose, che l’occhio si posi su esse come su un punto limite, la coscienza religiosa dei secoli che vanno da S. Agostino a Dante insorgerà a condannare ciò come qualcosa di molto grave. Perché le cose non sono soltanto cose. Le cose dell’universo creato sono cose e segni al tempo stesso.”. A tal proposito, si rinvia pure allo studio di A. Vallone, La personificazione, il simbolo e l’allegoria, in Studi su Dante medievale, Firenze 1965, p. 23 e seg., e A. Vallone, Dante, Milano 1981, cit., pp. 258-271. Cfr P. Giannantonio, Dante e l’allegorismo, Firenze 1969 che ricostruisce il problema allegorico a partire dall’antichità classica.

[16] Lo scrive S. Battaglia, Mitografia del personaggio, Milano 19682, p. 514.

[17] G. Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, p. 348, poi in Un’idea di Dante, Torino 1976, p. 48. Il saggio fu pubblicato per la prima volta in “L’approdo letterario” IV, (1958), pp. 19-46.

[18] G. Contini, Dante come personaggio-poeta della “Commedia”, in Varianti e altra linguistica, cit., p. 341, poi in Un’ idea di Dante, cit., p. 40.

[19] A. Vallone, Dante, Vallardi, Milano 1981 (2). La prima edizione è del 1971. La cit. è a p. 451.

[20] Cfr. A. Tartaro, La prosa narrativa antica, in Letteratura Italiana (a cura di A. Asor Rosa), III. Le forme del testo. II. La prosa, Torino 1984, p. 642: “(…) il racconto della Vita Nuova, denso di motivazioni etico-religiose, trova in realtà nella letteratura e nella cultura letteraria la sua dimensione specifica (…)”. Naturalmente noi consideriamo questo giudizio valevole per tutta l’ opera dantesca.

[21] Il riferimento è a A. Vallone, Dante, cit., pp. 335-336, che insiste sulla mutevolezza del personaggio-Dante: il “personaggio-Dante (…) non letterario, inventato e astratto: (…) Dante personaggio si rinnova sempre e continuamente, non solo in virtù del suo diverso atteggiarsi dinanzi alle circostanze, per cui quasi naturalisticamente se queste mutano muta anche quello (…); ma perché assume via via sensi e fermenti, idee e prospettive di Dante, che, maturate nella vita e negli studi, si realizzano poi nella Commedia (…)”.

[22] B. Croce, Breviario di Estetica (1912) in Nuovi saggi di Estetica, Bari, 19262, p. 45. La prima ediz. è del 1919.

[23] Per la cronologia di queste due opere cfr. Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., pp. 142-144. Riassumendo, la Corti afferma: “I primi tre trattati del Convivio abbraccerebbero il periodo forlivese e veronese dal 1303 e forse anche prima a metà del 1304 circa, il De vulgari eloquentia quello intermedio sino al lunigiano-toscano, in cui sarebbe stato composto il IV trattato.”(pp. 143-144).

Questa voce è stata pubblicata in Scritti giovanili danteschi di Gianluca Virgilio e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *