Forme della bellezza

Nell’estendere il proprio dominio, la matematica può essere ambito di esperienza estetica

di Paolo Maria Mariano

Nel partecipare a una raccolta di saggi in memoria di Alexander Grothendieck – nato il 28 marzo 1928 a Berlino da padre ebreo russo, Alexander Shapiro (1890-1942), un anarchico avverso al leninismo, e da madre amburghese, Hanka Grothendieck (1900- 1957), anch’essa impegnata nei movimenti anarchici, e scomparso il 13 novembre 2014 a Saint-Girons, in Francia – ho sostenuto che Grothendieck può essere considerato a ragione un artista in aggiunta al fatto, più specifico, che era un matematico, e un matematico creativo, anzi proprio per questa ragione (si veda P.M. Mariano, Un artista tra gli alberi di Bures-sur-Yvette, in Matematica ribelle. Le due vite di Alexander Grothendieck, a cura di A. Carioti, Corriere della Sera Grandi Saggi, Milano 2014, pp. 81-102). E come matematico Grothendieck ha indicato nuovi punti di vista nella geometria algebrica, soprattutto dal 1955 al 1977, con pervicacia e indubbia profondità, dopo aver ottenuto risultati essenziali in analisi matematica.

Così, per fare qualche altro esempio, Leonhard Euler (1707-1783), Carl Friedrich Gauss (1777-1855), Augustin Louis Cauchy (1789-1857), Niels Henrik Abel (1802-1829), Bernhard Riemann (1826-1866), David Hilbert (1862-1943), Srinivasa Ramanujan (1887-1920), Ennio De Giorgi (1928-1996) possono essere considerati pienamente artisti in gradi diversi, ciascuno con sfumature e peculiarità proprie, molto di più di chi è dipinto in questi termini dagli interessi della macchina pubblicitaria. Intendo, quindi, quanto ho espresso per il caso specifico di Grothendieck come un fatto generale connesso al fare matematica, a estenderne il dominio proponendo nuove strutture e collegamenti tra di esse e con quelle preesistenti, al farla quindi in maniera creativa.

Non desidero sollevare il problema se i risultati della matematica siano scoperte o creazioni. Qualunque sia la soluzione ontologicamente corretta, per chi fa matematica non in maniera burocratica, per così dire, ma cercando di introdurre concetti, scoprirne le relazioni, quindi dimostrare nuovi teoremi, la questione non riveste un particolare interesse, perché, nei modi in cui si manifesta, quel fare è un atto creativo. Nessuno si chiede se l’Inno alla Gioia sia una scoperta, e così tutta la Nona Sinfonia, o se lo siano le Variazioni Goldberg, le Suites per violoncello solo o la sinfonia Jupiter, per fare qualche esempio, eppure quelle composizioni musicali sono implicite nelle molteplici possibili combinazioni delle note sul pentagramma. La loro scrittura è un atto creativo ed esse sono arte, anzi implicitamente ne indicano quasi la natura costitutiva: com’è la materia a definire lo spazio fisico, percepito dall’essere umano intorno a sé, così le opere sono quelle che indicano – pur non evitando ambiguità nella definizione – la natura dell’esperienza estetica.


Intendere la creatività in matematica – e, ripeto, si tratta di questo per chi la fa – come il luogo di una possibile esperienza estetica, implica che si abbia un’idea di cosa sia arte e di ciò che voglia dire costruire strutture matematiche, piuttosto che farne uso a vari gradi di complessità. Questi due aspetti assumono una chiarezza diversa per chi non è coinvolto con attività proprie nell’impresa e, in realtà, possono essere percepiti in maniera differente anche da chi lo è. Un osservatore esterno che non sia un matematico creativo, può rendersi conto agevolmente di cosa significhi estendere il dominio della matematica scorrendo le note che talvolta chi ha lasciato tracce permanenti nella disciplina scrive a margine del suo lavoro: i ricordi, le riflessioni sul senso del ricercare. Con “estensione del dominio” intendo l’ampliarsi delle conoscenze per addizione, non tanto un progresso che renda stantio quanto è stato fatto in precedenza. E questa interpretazione prescinde dal fatto che esista un territorio di matematica potenziale che venga di volta in volta disvelato o, al contrario, come ho già ricordato, che si tratti di una costruzione di chi opera. Per l’ampliamento del dominio si tratta di porsi domande che riguardano la possibilità di estendere la validità di concetti e/o di costrutti ad ambiti più generali di quelli in cui essi sono conosciuti; di domandarsi se alcuni problemi ammettono soluzione, anche se non si è in grado di esprimerla in maniera esplicita, e inoltre di chiedersi quali siano le proprietà di regolarità delle soluzioni stesse, una volta che di esse sia stata provata l’esistenza. Si può anche cercare di capire se e in che senso campi diversi della matematica siano tra loro correlati, secondo certi aspetti della loro intima struttura e se l’individuazione di tali relazioni possa (e in che modo) aprire nuove prospettive concettuali. Questa è l’essenza del programma di Langlands, ad esempio, un campo di ricerca particolarmente arduo, che però ha generato risultati profondi.

Di enorme complessità, invece, è dire cosa s’intenda per arte. Tentativi di definizione accompagnano l’intera storia del pensiero speculativo umano. Le varie interpretazioni del concetto di arte non riescono a essere decisive in toto, ma contribuiscono tutte a mostrare il tentativo di un ritratto. Si può quindi agire per comparazione di aspetti differenti di ciò che possiamo intendere come esperienza estetica e il fare creativo in matematica.

Prima di procedere, si potrebbe anche convenire, con il filosofo Luigi Pareyson (1918-1991), che vi è la possibilità di “artisticità” nell’intera operosità umana, nel senso della “formatività” del fare. Questa possibilità si esprime nella capacità di formare un’opera “in modo singolarissimo e personalissimo, inconfondibile eppure onniriconoscibile, inimitabile eppure esemplare, irripetibile eppure paradigmatico, e dove si può parlare di stile si deve parlare di arte” (L. Pareyson, Estetica, Bompiani, Milano 1988, p. 65). La questione, in matematica come nelle altre attività umane, è quindi relativa al livello del contenuto estetico, alla sua densità in un’opera e al permanere di quest’ultima nel tempo. Non si tratta semplicemente di fare a regola d’arte, quindi solo di applicare in maniera rigorosa e inappuntabile tecniche note; semmai si tratta di adottare alcune tecniche o di inventarne di nuove per creare qualcosa d’inimitabile perché unico e d’imitabile perché esemplare. Si possono elencare molteplici esempi di questa duplicità, anzi si può dire che la ricerca in matematica si nutre di essa e da essa è indirizzata.

Il cosiddetto “teorema di Nöther” è uno tra i tanti possibili esempi. Nöther era Amalie Emmy (1882-1935), una figlia d’arte: il padre, Max Nöther (1844-1921), professore a Erlangen dove la figlia aveva studiato matematica, era stato uno dei fondatori della geometria algebrica ed era co-direttore dei “Mathematische Annalen”, una rivista tuttora importante.

Immaginate un corpo puntiforme, dotato di massa, e presumete che esso possa variare il suo stato di quiete o di moto rispetto a un qualche osservatore senza provocare dissipazione. Per gli sviluppi successivi, si richiede di concordare sulla nozione di osservatore, qui inteso come un sistema di riferimento o un atlante di sistemi di riferimento, e sull’associare all’assenza di dissipazione la presenza di un potenziale, cioè di una funzione che caratterizzi la variazione di stato del punto materiale tra due istanti attraverso la differenza dei valori che la funzione stessa prende nei due istanti e nelle corrispondenti posizioni nello spazio ambiente del punto materiale stesso. In queste condizioni il moto è regolato dalla differenza tra l’energia cinetica e il potenziale del punto materiale, una differenza che si chiama lagrangiana in memoria di Giuseppe Luigi Lagrange (1736-1813).

Lagrange era un torinese con genitori d’origine francese. Euler, vedendo lontano, lo fece accogliere nell’Accademia di Berlino dopo aver ricevuto un suo scritto, sebbene Lagrange fosse ancora ventenne. Lagrange ha contribuito in maniera decisiva alla nascita del calcolo delle variazioni e ci ha lasciato, tra le altre cose, la fondamentale Mécanique analytique nel 1794. Tornando alla lagrangiana, le traiettorie che il punto materiale effettivamente compie, una volta che sia stato assegnato il suo stato iniziale e siano note le eventuali azioni esterne, soddisfano proprio le condizioni che rendono estremale (cioè massimo o minimo) l’integrale della lagrangiana nell’intervallo temporale in cui si valuta il moto (quindi il valore cumulato nel tempo della lagrangiana stessa). In quest’ambiente, a un dato istante, il valore numerico della lagrangiana dipende dalla posizione del punto materiale nello spazio, ed essa è individuata da numeri che ne esprimono le coordinate in un qualche sistema di riferimento scelto, quindi secondo un qualche osservatore. Può essere ritenuto naturale, allora, chiedersi cosa succede quando si cambia osservatore in qualche modo, quando, cioè, si osserva il moto del punto materiale da un altro sistema di riferimento. Come risposta, non appare irragionevole imporre l’invarianza delle leggi che regolano il moto del punto materiale rispetto all’osservatore, un aspetto che è a fondamento della maniera in cui descriviamo il mondo fisico, uno stato di principio in cui si crede nel cominciare il cammino. A queste leggi si riferisce il teorema di Nöther. Quello che mostra, infatti, è che ad ogni classe di trasformazioni delle coordinate nello spazio ambiente (quindi di osservatore), rispetto alle quali la lagrangiana rimane invariata, corrisponde una quantità che si conserva durante il moto, sempre che siano verificate le condizioni di stazionarietà per la lagrangiana stessa, quelle che sono dette equazioni di Eulero-Lagrange. Le leggi di bilancio delle forze, quelle dei momenti, e non solo, sono quindi associate a proprietà d’invarianza della lagrangiana, le sue simmetrie. La dimostrazione del teorema non è particolarmente difficile (per tutti gli aspetti formali di quanto ho illustrato per sommi capi si può vedere V.I. Arnold, Metodi matematici della meccanica classica, Editori Riuniti, Roma 2010, un testo di squisita eleganza); l’idea ad esso sottesa, però, è profonda, perché getta luce sull’origine delle leggi di conservazione in meccanica ed è elegante nel far emergere quelle leggi da un unico principio d’invarianza. Appare l’esistenza di un’unica “tessitura” profonda che sottende le leggi che governano il moto del punto materiale considerato, almeno nelle condizioni di conservatività in cui vale il teorema di Nöther. La possibilità di trovare una comune origine a concetti diversi, in breve la reductio ad unum, è sempre istintivamente intesa come forma di eleganza, una stilla di bellezza.

Una volta che il teorema di Nöther è noto nella forma descritta sommariamente nelle righe precedenti, può essere spontaneo chiedersi se e in che senso esso possa valere per un corpo esteso nello spazio, quindi non solo per un punto materiale. Si tratta di trovare una versione del teorema nel caso in cui la lagrangiana dipenda da campi e dalle loro variazioni spaziali e temporali. Per campi qui s’intendono funzioni che sono definite su un intervallo temporale e su un dominio spaziale, che assumono valori in un qualche spazio appropriato e che hanno una regolarità tale da soddisfare le condizioni di stazionarietà della lagrangiana. In quest’ambito più generale la dimostrazione di una versione appropriata del teorema è possibile e richiede sostanzialmente di ripercorrere le fasi proprie della versione riguardante il punto materiale.

Ho incontrato più volte il teorema di Nöther, sia quando ero studente e cercavo di apprenderne la natura, almeno nella forma più elementare, sia più tardi nel tentativo di pensare a qualche possibile estensione di esso. Avevo due domande per la testa: mi chiedevo, infatti, se (1) si poteva pensare una versione del teorema stesso per un corpo esteso che avesse una qualche superficie di discontinuità dotata di energia propria, e se (2) le idee che il teorema di Nöther implica potessero avere una controparte per i processi dissipativi. Nel primo caso si trattava essenzialmente di considerare una certa entità che appare nel teorema di Nöther e che è definita punto per punto nel volume del corpo, e di determinare quella analoga che possa essere attribuita a superfici di discontinuità dotate di energia propria. Per visualizzare la circostanza, si pensi a un corpo formato da due pezzi attaccati tra loro da uno strato di colla; la giunzione può essere schematizzata come una superficie di discontinuità, l’energia superficiale è quella della colla. Non è comunque l’unico caso, ma solo quello più semplice da raccontare in un paio di righe. Una volta “inventato” l’ente adatto – e la via è quella dell’immaginazione indirizzata dal riflettere sulla natura essenziale di ciò che è presente nella versione primaria del teorema – la dimostrazione non si discosta poi molto da quella originale. La difficoltà era soltanto nell’“invenzione” iniziale (per i dettagli tecnici si veda P.M. Mariano, Cracks in complex bodies: covariance of tip balances, “Journal of Nonlinear Science”, 18, 2008, pp. 99-141).

Nel secondo caso, la questione è più delicata, perché non vi è più una funzione lagrangiana a regolare il moto del corpo in questione: il sistema non è conservativo e ciò che gioca un ruolo essenziale è invece la seconda legge della termodinamica. Servivano due concetti: un ente che ho pensato di chiamare potenza relativa, la cui natura non è necessario approfondire ai fini di quanto stiamo discutendo, e un principio di “invarianza” della struttura della seconda legge della termodinamica rispetto a cambiamenti di osservatore piuttosto generali. Mi sembrava, infatti, di poter presumere che se per un osservatore un processo meccanico è dissipativo, lo è per qualsiasi altro osservatore – formalmente è un assioma che ritengo si possa chiamare principio di covarianza in ambiente dissipativo. Non si trattava, quindi, di costruire enti formali ad hoc; piuttosto si doveva indovinare ciò che era strettamente necessario considerare e che poteva avere un chiaro significato fisico per le implicazioni sulla costruzione di modelli di fenomeni empirici che aveva l’intera ricerca. E non era neppure sufficiente: era necessario immaginare anche come due diversi osservatori, che si deformano uno rispetto all’altro, valutano il tasso di variazione nel tempo dell’energia libera del sistema. Non si doveva tanto ricontestualizzare il teorema di Nöther nella sua struttura formale, come si farebbe se si trovasse una dimostrazione alternativa a quella che emerge dalla strategia originale, quanto piuttosto esplorare la possibilità che le idee che lo animano potessero essere “trasferite” in ambienti più vasti. Il risultato, infatti, ha analogie con il teorema stesso, ma anche diversità. Per i corpi estesi nello spazio, che possano essere considerati continui ad una qualche scala di rappresentazione spaziale (cioè usando una certa risoluzione spaziale nell’osservazione), si riesce a mostrare non solo che da una certa richiesta d’invarianza della struttura del secondo principio della termodinamica emergono come conseguenze derivate sia le leggi che regolano il moto del corpo esteso in questione, sia quelle che descrivono l’evoluzione o l’equilibrio di eventuali difetti in esso, ma anche il principio di azione e reazione e la rappresentazione delle azioni interne, quelle che si sviluppano all’interno del corpo a seguito della sua deformazione (per i dettagli tecnici si veda P.M. Mariano, Mechanics of material mutations, “Advances in Applied Mechanics”, 47, 2014, pp. 1-91).

Nel primo caso, invece, quello che contempla in ambito conservativo la presenza di superfici di discontinuità con energia propria, il risultato si ottiene per imitazione del teorema di Nöther nella sua forma originale. Ed è l’imitazione di un fatto esemplare che allo stesso tempo si discosta da esso. Il contenuto estetico è pertinente all’originale; l’estensione al caso considerato può forse averne un po’, ma si tratta di una lieve addizione. Eppure, ripeto, è proprio quel dualismo inimitabilità/imitazione uno dei fattori che danno impulso alla ricerca. Diverso è il caso dissipativo: la distanza dal teorema di Nöther, sia per ambiente sia per risultato, richiede una possibile valutazione estetica autonoma, ma quella non è di mia pertinenza proprio per l’origine dell’esempio, scelto solo per la facilità di riportare i dettagli alla mente di chi scrive.

In tutti i casi appena descritti, la percezione del mondo fisico e/o l’idea che si ha di esso spingono all’astrazione concettuale dei meccanismi che si ritiene emergano. E non sono i soli. Altre volte la ricerca in matematica è suggerita da un’immagine per così dire “fantastica”, che chi opera riesce a visualizzare anche solo per vaghe porzioni. L’esperienza sensibile, lo stato psicologico, l’espressione critica della ragione pertinente a chi opera e la stessa cultura personale alimentano l’immaginazione.

Così si esprime l’opera d’arte per il filosofo Nicolai Hartmann (1882-1950): manifesta la possibilità di “innalzare l’empirico” facendolo penetrare “nell’ideale e nel simbolico”. Nella visione di Hartmann, l’artista “perfora” il dato sensibile: da esso parte e va al di là di esso. Per suo conto, un risultato creativo in matematica delimita “nell’ideale e nel simbolico” una porzione che, quando è utilizzata nella costruzione di modelli matematici di fenomeni naturali, permette di riscoprire nell’empirico la sua necessità e la sua funzione. D’altra parte, i modelli matematici di fenomeni naturali sono rappresentazioni suggerite dai dati empirici e al contempo tendono ad andare al di là di essi. Nel costruire un modello matematico di una classe di fenomeni empirici, chi opera cerca di formalizzare la descrizione di quello che ritiene siano gli aspetti essenziali (qui il punto) di quei fenomeni. Per questo il ritratto che emerge è incrinato, per usare il termine che Theodor W. Adorno (1903-1968) attribuisce alla raffigurazione che l’arte fa della realtà, mostrando ciò che la trascende.

Nell’esperienza matematica si trascende la suggestione del dato empirico e si costruiscono le strutture astratte che esso (spesso indirettamente) implica. In quest’ambito non è immediata la connessione con il pensiero di Adorno, precisamente quando sostiene che l’arte estrinseca ciò che è nella cosa ma anche nella negazione della cosa, riferendosi alla disomogeneità tra arte e storia che permette espressione e negazione dei contenuti ideologici negli aspetti formali dell’arte.

Nel fare matematica, invece, non vi è connessione con il dibattito sociale, anche quando la matematica è utilizzata per le scienze sociali, soprattutto per l’economia. Sebbene le previsioni di modelli di sistemi economici, della dinamica delle popolazioni, della diffusione di epidemie possano essere utilizzate per “giustificare” decisioni politiche, o la formulazione dei modelli stessi possa essere indirizzata (non di rado lo è) da una qualche visione ideologica di chi tale formulazione propone, ciò riguarda le applicazioni della matematica, non il fare matematica, lo sviluppo del suo dominio. La circostanza potrebbe portare a distinguere l’esperienza artistica da quella matematica se si seguisse la posizione di György Lukács (1885-1971): la scienza riguarda i fatti e le loro connessioni, l’arte invece “ci offre anime e destini”; è ontologicamente correlata alla “verità del mito”, cioè alle ragioni ultime della natura delle cose. Il fare matematica non è associato, infatti, a motivi esistenziali e/o sentimentali; certo, è influenzato dallo stato d’animo di chi opera, ma la sua natura ne è lontana. È però associato all’essenza delle cose, dalla cui osservazione è spesso motivato, e comunque da lì sempre muove. È un linguaggio che è allo stesso tempo quantitativo e qualitativo, così come linguaggio è l’arte per il filosofo Charles W. Morris (1901-1979), anche se è per lui “il linguaggio per la comunicazione dei valori”, per come essi stessi sono diventati linguaggio. L’arte ha per questo natura valutativa, informativa e costruttiva nel senso del termine anglosassone di “performance”.  E per questo suo legame con i valori dev’essere “senza rappresentazione di un fine”, per usare le parole di Immanuel Kant, che sia etico o utilitaristico – una richiesta che gli operatori del mercato dell’arte intendono come corollario decorativo. Valori etici, quali essi siano, non sono associati ai risultati della matematica (come anche l’utilità non è in genere immediatamente pertinente al risultato matematico, con le debite eccezioni), semmai essi sono espressi dal modo in cui quei risultati sono applicati e dal modo con cui quegli stessi risultati sono stati raggiunti. I vari modi di proseguire nella ricerca e di diffondere ciò che da essa emerge sono influenzati dalla struttura etica di chi opera, naturalmente non negli aspetti tecnici, ma nelle decisioni e negli atti che sono pertinenti all’interazione con l’ambiente.

Anche il processo di valutazione del valore tecnico che emerge nei risultati della matematica e del loro possibile valore estetico esprime il contenuto etico di chi lo esercita. Non è infrequente rilevare con una certa mestizia la quantità di casi in cui il giudizio è indirizzato dalla pochezza culturale del giudicante o dal suo abdicare alla dignità intellettuale, piegandosi alla convenienza. Comunque sia, vi sono aspetti critici generali nel processo che porta a dare un giudizio di valore scientifico e/o estetico su un risultato della ricerca matematica. Il più ovvio è la qualità del giudicante, senza considerare la sua onestà intellettuale. Più sottile è la richiesta che il giudicante abbia capacità di visione prospettica, di collocare cioè un risultato in una sfera più ampia del suo ambito specifico e di intravedere la sua potenziale fertilità, o solo d’intuirne vagamente la possibilità. Quest’aspetto è contrastato dalla tendenza all’estrema specializzazione dei temi di ricerca e alla presentazione di risultati specifici, spesso senza tracciare in maniera ampia il sistema in cui essi si collocano. Si tende a sfuggire alla vena trattatistica che ebbero Isaac Newton, Euler o, per guardare solo al Novecento, il gruppo Bourbaki per quasi tutta la matematica, la scuola truesdelliana nel suo primo periodo per la meccanica dei corpi deformabili, e altri singoli studiosi nei loro settori, una vena che ha contribuito in maniera essenziale a rappresentare interi scenari. La prevalenza dello specifico ha invece determinato in taluni uno stile di corto respiro nella scrittura e quella tendenza diffusa, o moda che dir si voglia, a considerare la difficoltà tecnica dasola come metro unico di valutazione, senza tener conto, o facendolo solo marginalmente, dell’ambiente in cui un risultato si pone e della prospettiva che esso reca. Eppure, inventare strumenti concettuali che permettano di ottenere risultati non banali e nuovi in maniera che sia “naturale” e che “illumini” nuove prospettive di ricerca, o di ricontestualizzare risultati già noti, è spesso all’origine di profondità concettuale e soprattutto di eleganza. In questo e per questo, la matematica è formativa: nell’ampliare il suo dominio si costruiscono spesso gli strumenti necessari a quell’estensione e, propriamente, quegli strumenti diventano parte costitutiva della teoria stessa. Nel fare ricerca, il fare deve avere natura inventiva oltre che produttiva.

Formativa è per Luigi Pareyson l’arte che “mentre fa inventa il modo di fare”. “La formazione dell’opera d’arte è un puro tentare” (Estetica, cit., p. 69), e la riuscita, la forma raggiunta, “è criterio a se stessa” (p. 65). Certo, il matematico non ha nell’operare la libertà del pittore o dello scultore o del poeta. Deve dar conto della sua immaginazione attraverso la logica della dimostrazione. Un teorema, infatti, è tale quando è vero nella struttura concettuale in cui si colloca, e la questione non è in discussione, altrimenti non è un teorema: è una congettura, un’ipotesi, perfino una proposizione indecidibile, ma non un teorema, o un lemma, o un corollario. La libertà per chi opera nella matematica si esprime nell’invenzione dell’ambiente e degli strumenti d’attacco al problema concettuale che di volta in volta si pone. Gli estremi della dimostrazione e il suo sviluppo devono invece subire una rigorosa verifica a ogni passo, devono soddisfare un criterio di necessità e soprattutto non devono essere equivoci. Nonostante la chiarezza logica che il processo invoca, vi è un problema di “godimento” dei risultati della matematica perché è necessaria la relativa educazione. C’è bisogno di educazione anche per il “godimento” di un quadro, ma in quel caso all’educazione può talvolta sopperire l’intuizione del singolo, grazie a una sensibilità personale adeguata. È molto più difficile che ciò accada quando si è di fronte ad un risultato non banale della matematica, perché è richiesta la conoscenza del linguaggio formale pertinente per poterne comprendere non solo la superficie ma anche l’intima natura. La divulgazione, infatti, aiuta solo per la superficie dei risultati e per certi versi può perfino essere pericolosa, perché devia il senso, banalizzandolo, per il suo essere il teatro d’ombre di un teatro d’ombre. In un certo qual modo è stata, infatti, la divulgazione acritica ed enfatica a promuovere lo scientismo. Così, spesso, in mancanza della conoscenza del linguaggio formale necessario s’impone un principio di autorità nella valutazione. Questo, però, accade anche in tanti ambiti dell’arte intesa in senso tradizionale, e ne influenza la fruizione, la produzione, il mercato (si vedano in merito le ampie critiche in M. Fumaroli, Parigi-New York e ritorno, Adelphi, Milano 2011).

C’è poi il problema dell’unicità, quella natura che tendiamo ad attribuire istintivamente all’opera d’arte, quasi indipendentemente dall’idea che di essa possiamo avere. In contrasto si può sostenere che la possibilità che un teorema possa essere dimostrato seguendo percorsi diversi non gli attribuisce l’intrinseca unicità dell’opera d’arte. Ho già sostenuto nelle righe precedenti e anche altrove, che una diversa dimostrazione ricontestualizza un teorema, donandogli una differente prospettiva che può essere talora vaga, talora un’indicazione chiara di nuovi sviluppi; in ogni caso l’enunciato di un teorema e una sua qualche dimostrazione manifestano insieme caratteristiche di unicità. Cambiando la dimostrazione si realizza una differente unicità.

Non tutto si esaurisce nell’enunciato di un risultato e nella tecnica di dimostrazione: il modo in cui è presentato il lavoro fatto – lo stile di scrittura, quindi – può diventare, esso stesso, sostanza e indirettamente aumentare il valore del risultato quando indica, anche in maniera implicita, nuove prospettive di analisi. La forma della presentazione può infine essere anch’essa luogo di esperienza estetica. Di questo era consapevole Benedetto Croce, quando scriveva che “anche il pensiero logico, anche la scienza, in quanto si esprime si fa sentimento e fantasia: che è la ragione per la quale un libro di filosofia, di storia, di scienza può essere non solo vero ma bello, e a ogni modo vien giudicato non solo secondo logica ma anche secondo estetica, e si dice talvolta che un libro è sbagliato come teoria o come critica o come verità storica, ma rimane, per l’affetto che l’anima e che in esso si esprime, in qualità di opera d’arte” (Aestetica in nuce, Laterza, Bari 1962, p. 40). Qui la discussione s’indirizza verso la questione del rapporto tra verità e bellezza, che nella matematica è risolto nei limiti indicati dai lavori di Kurt Gödel (1906-1978), mentre per quanto riguarda i modelli dei fenomeni fisici che la matematica esprime, la questione richiederebbe almeno un saggio autonomo.

[in “Prometeo”, anno 2015, n. 129, pp. 94-101]

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