Parole, parole, parole 18. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca

di Rosario Coluccia

I dizionari italiani vantano una tradizione plurisecolare che ha il suo fondamento illustre nell’attività lessicografica dell’Accademia della Crusca, fondata a Firenze nel 1583. Obiettivo primario di quel gruppo di intellettuali, che sapevano unire lungimiranti iniziative culturali a piacevoli serate di bisboccia condite da esibizioni poetiche (gli «stravizzi» e le «cicalate»), fu la compilazione  di un vero e organico dizionario della nostra lingua. Quell’opera collettiva fu realizzata da un gruppo  composito, non tutti erano specialisti forniti di specifiche competenze linguistiche. Ma «il lavoro fu condotto con una coerenza metodologica e un rigore che andavano al di là di tutti i precedenti» (sono parole di Claudio Marazzini, presidente onorario dell’Accademia, che alla storia del vocabolari italiani ha dedicato un libro molto informato e puntualissimo).

Fin dagli inizi, con la sua attività lessicografica l’Accademia si assumeva lo scopo fondamentale di separare il fior di farina (la buona lingua) dalla crusca, dando quindi un significato preciso alla propria denominazione. Il frullone, lo strumento che si adoperava per separare il fior di farina dalla crusca, simboleggiava  questa scelta, ricordata anche dal motto adottato, il verso del Petrarca «il più bel fior ne coglie». Tutti gli oggetti e la mobilia dell’Accademia ebbero nomi attinenti al grano, alla crusca, al pane, compresi gli stemmi personali degli accademici, le pale di legno in cui è dipinta un’immagine accompagnata dal nome accademico e dal motto scelto.  Se ne sono conservate 152, realizzate dalla fondazione fino alla metà del secolo XVIII, che si si possono ammirare nella cosiddetta “Sala delle pale” (anche al sito www.accademiadellacrusca.it/it/contenuti/la-sala-delle-pale/6943); alle antiche di aggiungono ora le moderne, conservate in una diversa sala della splendida Villa Medicea di Castello, a Firenze, sede attuale dell’Accademia. Elementi esterni fortemente simbolici e significativi.

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Manco p’a capa 199. Genova: che storia!


di Ferdinando Boero

Sono nato a Genova nel 1951, e ci sono rimasto fino al 1987. Ero bambino quando la città insorse, su stimolo del ligure Sandro Pertini, contro il ritorno del fascismo col governo Tambroni. La città, Medaglia d’Oro per la Resistenza, percepì come un oltraggio il congresso del Movimento Sociale, con tanto di fiamma tricolore. In Piazza De Ferrari, negli scontri con la Celere di Scelba, c’erano mio nonno Nando, mio padre Luigi e suo fratello, lo zio Carletto, con le magliette a righe, tipiche dei portuali. Era il 30 giugno 1960. Il governo Tambroni cadde. Genova era uno dei vertici del triangolo industriale, e ancora lo è, anche se in tono minore, ma non tantissimo. Con la corsa al riarmo almeno due aziende genovesi si fregano le mani, altre aspettano la diga foranea.
Nel 1983 uno scandalo portò all’arresto del presidente della regione, il socialista Alberto Teardo. Condannato a 12 anni per associazione a delinquere, concussione, peculato ed estorsione. Ma prima ancora Genova fu teatro, nel 1974, dello scandalo dei petroli: i “pretori d’assalto” scoperchiarono un calderone di politica e affari di stampo petrolifero. Il governo cadde, ma poi tutto fu messo a tacere in parlamento. Vent’anni prima di Mani Pulite già si sapeva tutto.

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Presentazione di Paolo Vincenti, I segreti di Oppido Tralignano – Casarano, 14 maggio 2024

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Citazioni 16. Come venne eretto il primo ponte del mondo

Racconta l’imano Alihodža : “Il mio defunto padre sentì una volta da seh-Dedija e raccontò poi a me quand’ero bambino, da che cosa deriva il ponte e come venne eretto il primo ponte del mondo. Quando Allah il potente ebbe creato questo mondo, la terra era piana e liscia come una bellissima padella di smalto. Ciò dispiaceva al demonio, che invidiava all’uomo quel dono di Dio. E mentre essa era ancora quale era uscita dalle mani divine, umida e molle come una scodella non cotta, egli si avvicinò di soppiatto e con le unghie graffiò il volto della terra di Dio quanto più profondamente poté. Così, come narra la storia, nacquero profondi fiumi e abissi che separano una regione dall’altra, e dividono gli abitanti di una dalle altre, e disturbano coloro che viaggiano per la terra che Dio ha dato loro come giardino per il loro cibo e il loro sostentamento. Si dispiacque Allah quando vide che cosa aveva fatto quel maledetto; ma poiché non poteva tornare all’opera che il demonio con le sue mani aveva contaminato, inviò i suoi angeli affinché aiutassero e confortassero gli uomini. Quando gli angeli si accorsero che gli sfortunati uomini non potevano superare i burroni e gli abissi per svolgere le loro attività, e si tormentavano, si guardavano e si chiamavano invano vicendevolmente da una sponda all’altra, al di sopra di quei punti spiegarono le loro ali e la gente cominciò a passare su di esse. Per questo, dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte, così come il peggiore peccato consiste nel metterci addosso le mani, dato che ogni ponte, dalla trave gettata su un torrente montano fino a questa costruzione di Mehmed Pascià, ha il suo angelo che lo guarda e lo sostiene,  finché gli è destinato da Dio di sussistere.”

Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina XVI.

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Unamuno in Italia: S. Teresa e Aldonzo di Luigi Corvaglia (Prima parte)

di Antonio Lucio Giannone

Luigi Corvaglia

S. Teresa e Aldonzo è una commedia in quattro atti di Luigi Corvaglia pubblicata a Bologna presso l’editore Cappelli nel 1931. La vicenda è ambientata nella Spagna del Cinquecento ed è basata su quattro momenti della vita di Teresa d’Avila, dalla giovinezza all’anno della morte. Accanto a lei l’altro protagonista è Aldonzo Chisciano, il vero nome di Don Chisciotte (con la variante “Aldonzo” invece di “Alonzo”), che l’autore immagina cugino della santa e innamorato di lei. Cioè egli diventa qui una figura autonoma con un’entità indipendente e reale, svincolata dal suo autore, secondo l’interpretazione che ne aveva dato Miguel de Unamuno nella sua famosa Vita di Don Chisciotte e Sancio Panza, apparsa nel 1905. Non a caso, Corvaglia inviò una copia dell’opera a Unamuno che figura nella sua biblioteca (González Martín, 1978: 263). Il libro portava la seguente dedica nella quale l’autore riconosceva il suo debito nei confronti del grande pensatore basco parlando di “figliolanza spirituale”: “A Miguel de Unamuno, l’omaggio di una figliolanza spirituale, non con la fides quae creditur, ma con quella qua creditur, un vitorino del Capo di finibusterre, dove si fa più tragicamente visibile Iddio e la Chimera. Melissano (Lecce), 24 aprile 1931” (González Martín, 1978: 263).

Luigi Corvaglia non ha ricevuto finora la dovuta attenzione da parte della critica, anzi è stato quasi del tutto ignorato. Anche S. Teresa e Aldonzo non viene nemmeno citata negli studi sull’influenza di Unamuno in Italia (Foresta, 1974; Foresta, 1979). Solo recentemente sono stati pubblicati una monografia (Scarcella, 2017) e gli Atti di un Convegno di studi a lui dedicato (Centro Studi Corvagliano, 2021). Nato a Melissano in provincia di Lecce nel 1892, si laureò  prima in giurisprudenza a Pisa nel 1914 e poi in filosofia a Torino nel 1921. Dopo aver svolto attività politico-amministrativa nel suo paese, si trasferì a Roma, dove continuò a lavorare assiduamente, producendo numerosi studi di carattere filosofico, alcuni dei quali ancora inediti,  fino alla morte avvenuta nel 1966. Fece parte dell’Accademia salentina fondata dal poeta Girolamo Comi nel 1948 a Lucugnano, un piccolo centro del Salento, ma visse sempre un po’ appartato sia nella terra d’origine che nella capitale, pur  essendo in contatto con personalità di primo piano della cultura nazionale.

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Aldo de Bernart e Taurisano

di Gigi Montonato

Questa non è una recensione. È un post lectum. Il libro è Tra Scuola, Ricerca e Memoria. Aldo de Bernart dieci anni dopo (2013-2023), Mario Spedicato, Paolo Vincenti (eds.), Castiglione (Le), 2023.

Il commemorato è noto nell’ambiente culturale salentino, sia per la sua attività professionale, era un direttore didattico, oggi si dice dirigente scolastico, sia per la sua produzione letteraria e storiografica locale. Ed aggiungo, ultima ma non meno importante attività, un operatore culturale.

Nella storia degli uomini e delle cose ci sono date iconiche. Per il rapporto de Bernart-Taurisano lo è il 1969. A Taurisano, per iniziativa del Comune, si organizzarono, per la prima volta nella storia, le Celebrazioni Vaniniane, che mettevano insieme il diavolo (Vanini) e l’acquasanta (parroco). Ricadeva il 350° anniversario del rogo tolosano. Al centro di tutta la macchina organizzativa ci fu, per una felice coincidenza, la Scuola Elementare con Aldo de Bernart direttore. Il segretario della scuola, Ugo Baglivo, era anche sindaco e tre dei più impegnati nella preparazione dell’evento erano insegnanti elementari in servizio, Francesco De Paola, Luigi Crudo, Antonio Santoro. Quanto deve la cultura salentina ai maestri di scuola! Potrebbe essere questo un tema da approfondire e sviluppare, se già non è stato fatto. Senza far torto ad altri, me compreso, che all’epoca ero studente universitario, furono essi, magistralmente coordinati da de Bernart, a compiere quella bella impresa, coadiuvati, mi sembra superfluo dirlo, da moltissime altre persone con compiti diversi.

Mi capitò – facevo parte del Comitato – di andare a trovare il Direttore a scuola per una riunione di lavoro. Nella direzione, alle pareti, oltre al ritratto di Giulio Cesare Vanini, a cui peraltro era intitolata la scuola, c’erano delle foto della Grotta Romanelli. Le aveva esposte lui, rivelando interessi culturali ben oltre quelli pedagogici e didattici, invitandoci a guardare oltre.

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Facciamo chiarezza su Decontribuzione Sud

di Guglielmo Forges Davanzati

Antonio Distaso su “Gazzetta” del 7 maggio scorso, riassume quanto fatto da questo Esecutivo in merito al problema dell’occupazione nel Mezzogiorno: ha ottenuto la massima proroga dalla Commissione Europea per la misura riguardante Decontribuzione Sud (30 giugno 2024) e ha approvato, con il Decreto Coesione, altri interventi, dei quali Distaso dà sinteticamente conto.

Le mie considerazioni riguardano i seguenti aspetti: il governo ripropone misure non nuove e già sperimentate con esiti incerti, non risolve i problemi di negoziazione con la commissione europea, rinviandoli, e reitera una politica di sussidi alle imprese meridionali che si muove, nella sostanza, in una logica di assistenzialismo. Andiamo con ordine.

a) Non sono misure nuove. Gli interventi previsti nel Decreto Coesione sono riproposizioni di quelli già esistenti dal 2020 e, in più, non configurano misure strutturali. Bonus Giovani, in particolare, ha durata massima di 36 mesi. L’intervallo previsto potrebbe essere troppo ristretto per consentire un’adeguata programmazione delle assunzioni da parte delle imprese potenzialmente beneficiarie;

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Luigi Latino, Grandi cappelli per piccoli uomini

2024, acrilico su tela, 70 X 110.
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San Leopoldo Mandic, patrono dei malati oncologici

di Rocco Orlando

     A Padova non è oggetto di devozione solo la Basilica di Sant’Antonio (o del Santo), ma anche una celletta-confessionale ubicata nel convento dei Cappuccini, sito in Piazza S. Croce. Qui si venerano le spoglie di San Leopoldo Mandic la cui ricorrenza liturgica è il 30 luglio (giorno della sua morte), ma in molti luoghi tra cui Padova è ricordato il 12 maggio, giorno della sua nascita.

     Il 16 ottobre 1983 è stato canonizzato da Giovanni Paolo II, alla presenza del Sinodo Episcopale, composto da oltre 200 vescovi, e di una folla immensa accorsa in piazza S. Pietro per venerare S. Leopoldo che non era solo un santo chiuso nel confessionale, ma un santo che si prendeva cura anche delle problematiche della vita lavorativa e familiare e che chiama a porre attenzione ai malati, ai loro familiari, ai medici, agli infermieri e alla ricerca. Alla cerimonia era presente anche il prof. Enrico Rubaltelli di Padova, medico e amico del Santo. Come specialista in otorinolaringoiatria egli assistette padre Leopoldo che era affetto da un tumore all’esofago.

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Inchiostri 119. Il volo della libellula

di Antonio Devicienti

«Non mi bastava la luce nera del Merisi, dovevo contendere alla notte il silenzio foderato
di melancolia, ascoltare voci parlarmi da belliche distanze – e non è detto che la guerra non duri anche dopo.

Non volevo specchi per guardarmi, né balocchi per consolarmi: se laceri il velo del mondo
sconti quel sangue che fiotta e non hai scampo.

L’insegna al neon d’una trattoria è sole di mezzanotte se Roma sta,sospesa tra inverno tardo e l’ultima canzone di Tenco.
Non mi bastava il rosso-corallo di Rothko campito sulle banderuole segnavento del sonno, dovevo slanciarmi in un volo e il retrobottega fabbricare un grido solo» (Roma, Via del Corallo 25).

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Italia y España. Una pasión intelectual – Salamanca, 9-10 maggio 2024

Leggi programma allegato.
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Gaetano Minafra, Opere grafiche 35. La porta dell’inconscio

2010, Matita. Disegni a pastelli e pezzi di giornale, cm. 30 X 40.
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Noterellando… Costume e malcostume 9. Tanto va la Gratta al lardo…

di Antonio Mele / Melanton

Chi non ha mai giocato al “Gratta-e-Vinci”, alzi la mano.

Chi ha sempre giocato – a questo come ad altri consimili e tentacolari giochetti –, le alzi tutt’e due! È in arresto!

In arresto dal gioco, naturalmente. O meglio: dalla pericolosa dipendenza del gioco, che nella nostra ludica Penisoletta continua ormai a mietere ‘vittime’ di ogni età, censo, professione, sesso (in maggioranza femminile e oltre i 65 anni, per quanto riguarda proprio i diabolici tagliandini del “gratta-e-vinci”), incidendo profondamente sia sulle tasche delle persone più turbate e intossicate da molto effimeri sogni di arricchimento rapido e facile, sia sulla loro serenità, libertà e psiche.

Nella nostra ludica ma più controllata Penisoletta di un tempo esistevano soltanto quattro Casinò autorizzati (a Saint Vincent, Sanremo, Campione d’Italia, e Venezia), nei quali era possibile avventurarsi per cogliere il brivido della roulette e dei vari giochi d’azzardo con le carte, altrove vietatissimo: nei vari circoli cittadini, sportivi, culturali, come nelle case private, benché qualche bisca clandestina sorgesse sempre da qualche parte.

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Luigi Marti poeta

di Fabio D’Astore

Riassunto Il saggio prende in esame l’attività scrittoria di Luigi Marti, soffermandosi in particolare sulla prolifica produzione in versi, specie con riferimento, all’interno di questa, alle tre raccolte poetiche, Un eco dal villaggio, Liriche e Dalle Valli alle Vette, pubblicate nel corso di oltre un decennio.

Abstract - The essay examines the writing activity of Luigi Marti, focusing in particular on the prolific production in verse, especially with reference, within this, to the three poetic collections, Un eco dal villaggio, Liriche and Dalle Valli alle Vette, published over the course of more than a decade.

            Della numerosa ed eclettica famiglia Marti fa parte anche Luigi, uno dei figli di Pietro e Elena Manno e dunque fratello del più noto Pietro. Luigi risulta essere versatile autore di scritti di vario genere, fra i quali spiccano certamente alcune raccolte poetiche: ne danno notizia, fra gli altri, Raffaele, fratello di Luigi, alle pagine 71-72 de L’estremo Salento[1], precisando: «Tolgo la presente biografia dall’Almanacco illustrato: Il Salento, a. 1929, VI, Vol. III»; poi Pietro in un articolo firmato con lo pseudonimo Ellenio nel numero 1 del gennaio 1931 de «La Voce del Salento»[2] e in un passo autobiografico riportato da Alfredo Calabrese nel saggio Le memorie di Pietro Marti apparso sulla rivista «Lu Lampiune» nell’aprile 1992[3]; Aldo de Bernart in un breve saggio intitolato Il Salento nella poesia di Luigi Marti[4] e, di recente, in maniera decisamente più sistematica, Paolo Vincenti nell’agile e utilissimo articolo Caro alle Muse: Luigi Marti da Ruffano a Pallanza[5], apparso sulla rivista «Il Bardo» nel luglio del 2020.

Nonostante di talune opere al momento non sia stato possibile rinvenire copia e malgrado l’attribuzione arbitraria o erronea di altre, certamente la produzione in versi mi pare l’aspetto più persuasivo dell’attività scrittoria del Marti.

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Nettare misterioso

di Franco Melissano

Nettare misterioso

è questo eterno viaggio

che non conosce meta

dove quietarsi possa

l’anelito del cuore.

.

E l’isola che ieri

con palpito ubriaco di speranza

scorgevo all’orizzonte

oggi si svela già

orribile prigione.


[In quest’adusta terra, Edizioni Grifo, Lecce 2021]

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Nuove Segnalazioni Bibliografiche 28. Animalia

di Gianluca Virgilio

Sembrerebbe paradossale, ma per capire che cos’è l’uomo, occorre studiare anche il suo rapporto con gli altri viventi non umani. Solo allora lo si capirà a fondo. Non parlo solo degli animali, ma anche delle piante. Animal (neutro pl. animalia) è in latino l’essere vivente, qualunque essere vivente, con esclusione delle piante, a cui i nostri progenitori negavano questo status. Io però, in questa nota e per quanto mi riguarda, le vorrei includere nella definizione. Non è forse vero che anche le piante sono organismi viventi? Animal è anche l’uomo, naturalmente: “O animal grazioso e benigno…” dice Francesca rivolgendosi a Dante nel quinto canto dell’Inferno.

Rifletto su questi argomenti sulla scorta di due recenti letture che vorrei qui segnalare: la prima è ormai un classico del pensiero animalista, il bel libro di Anna Maria Ortese, Le piccole persone, Adelphi, Milano 2016, che raccoglie gli articoli della scrittrice in difesa degli animali e contro la crudeltà degli umani. La seconda lettura è l’ultimo fascicolo della rivista “aut aut”, n. 401 del marzo 2024, significativamente intitolato La filosofia davanti al massacro degli animali; un fascicolo curato da Massimo Filippi e Giovanni Leghissa, nel quale si fa il punto sul rapporto tra uomo e animali, almeno relativamente agli studi filosofici contemporanei.

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Antonio Stanca, Universum A-16


8-11-2003, olio su MDF, cm 59,7 x 59,7.
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L’insegnamento di Augusto Graziani tra teoria e politica economica (a dieci anni dalla scomparsa) – Benevento, 9/10 maggio 2024

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Manco p’a capa 198. Il paradigma dell’estinzione

di Ferdinando Boero

Charles Darwin, ne L’Origine delle Specie, scrive: Nessun paese può essere nominato in cui tutti gli abitanti nativi siano ora così perfettamente adattati l’uno all’altro e alle condizioni fisiche in cui vivono, che nessuno di loro potrebbe essere migliorato in qualche modo; se alcune di queste molte specie diventano modificate e migliorate, altre dovranno essere migliorate in un grado corrispondente o saranno estinte.
L’evoluzione è una reazione a catena, in cui ogni cambiamento genera altri cambiamenti che, a loro volta, contribuiscono a mantenere abbastanza “equilibrati” i rapporti tra le specie. Questo concetto è stato riscoperto diverse volte dagli ecologi. L’Ipotesi della Regina Rossa, ad esempio, prende spunto da Alice attraverso lo specchio, quando la Regina Rossa dice ad Alice: d’ora in poi se vuoi restare ferma devi cominciare a correre. “Restare ferma” indica l’equilibrio precario dei rapporti tra le specie, un equilibrio che si mantiene se le specie “corrono”: si corre per restare fermi. Un altro modo per esprimere lo stesso concetto prende spunto dalla geopolitica novecentesca: la corsa agli armamenti. Ogni specie si “arma” per restare in vita.

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Tutta colpa della noia?

di Luigi Scorrano


Vincent van Gogh, Ritratto del dottor Gachet, 1890, olio su tela, 68×57 cm, Collezione privata.

            Da tempo le cronache si nutrono di fatti delittuosi raccapriccianti o tali da solleticare una curiosità troppo vorace, malata. Protagonisti di quei fatti sono dei giovani, studenti “modello” a volte; giovani che hanno alle spalle solide famiglie, che godono di un notevole benessere economico.

            Perché, dunque, sono proprio loro a coltivare un istinto omicida e a guardare con preoccupante, e fin cinica, indifferenza il risultato delle proprie azioni delittuose? Si suppone, ma talvolta lo dicono i direttamente interessati, che siano spinti dal desiderio di provare emozioni “forti”. Sperimentato troppo presto un po’ di tutto, l’audacia di un passo più in là, di un atto più “forte”, o di un atto estremo, appare una tappa quasi inevitabile. Quel che si è realizzato non basta ancora; occorre vedere che cosa accade se ci si inoltra, un passo dopo l’altro, nel territorio del male.

            Ci sono storie che lasciano allibiti, increduli; inutile volerne indicare di particolari dal momento che non c’è che l’imbarazzo della scelta e ognuno può pensare al fatto che più lo ha impressionato. Occorre, però, ritrarsi dalla dolorosa meraviglia e soffermarsi, invece, a considerare che cosa abbia comportato un mutamento epocale rapido e deciso, che ha smarrito il senso della gradualità e tutto consuma senza attribuire valore a nulla o senza distinguere né stabilire una qualche possibile scala di valori.

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