Manco p’a capa 176. Protestare sì, ma non basta!

di Ferdinando Boero

Sono un reduce del ’68, ho occupato il mio liceo, e fatto blocchi stradali davanti al provveditorato di Genova, in via Assarotti. Eravamo seduti per terra e lo slogan era: Più aule più professori. Il Liceo Scientifico Enrico Fermi faceva i doppi turni e una girandola di supplenti rendeva difficile lo svolgimento dei programmi. Non protestavamo per motivi “globali”, chiedevamo che la scuola pubblica funzionasse meglio. La Polizia si schierò di fronte a noi e un signore con fascia tricolore gridò: in nome della legge, scioglietevi! Restammo lì seduti, per terra. Tre squilli di tromba e partì la carica. Mi alzai dalla prima fila e mi misi di lato, contro un muro. Gli altri, dietro, non fecero in tempo e furono travolti. Ho ancora chiara nella memoria una mia compagna presa per i capelli e trascinata via, con tre poliziotti che la manganellano mentre è a terra. Era solo l’inizio delle contestazioni che, tragicamente, finirono con morti ammazzati da entrambe le parti, le P38, il terrorismo. Per fortuna, all’università, mi concentrai su altre cose (la biologia marina) e mi allontanai dall’attivismo. Anche perché presto mi accorsi che i “gruppuscoli” si stavano facendo la guerra tra loro. A Genova non c’erano fascisti, e i ragazzi di sinistra se le davano tra loro. Ho frequentato qualche riunione di Lotta Continua. Si programmava l’affissione notturna di manifesti, contendendo gli spazi con Lotta Comunista, Servire il Popolo, Potere Operaio, Avanguardia Operaia e altri, compresi Luddisti. Una situazione ben descritta in Brian di Nazareth, con il Fronte Popolare di Giudea (). Abbandonai la militanza.

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Presentazione del volume di Anna Maria Andriani, Dal cielo… per le vie del mondo. Leonardo Vitale e l’arte madonnara

di Mario Spedicato

Un episodio di cronaca nera ha suggerito ad Anna Maria Andriani di fornire una documentata monografica sui madonnari, recuperando un filone di studi disperso e poco frequentato, quando non proprio trascurato, dalla letteratura di settore. La morte violenta nell’ottobre 2021 a Lecce di Leonardo Vitale, un madonnaro di Oria, per mano di uno sbandato senza fissa dimora, ha aperto alla riflessione e alla riscoperta di un’arte minore, quella di strada, che ha vissuto e continua a vivere di stenti, ma che dentro un contesto di riferimenti letterari e sociali è stata riscattata ampiamente sul piano narrativo e convintamente rivalutata all’interno di considerazioni strettamente tecnico-artistiche. Il volume, dotato di un penetrante studio di Carlo Alberto Augeri, non mira solo a biografare un povero artista di strada incappato in una dolorosa avventura esistenziale, ma a riportare l’attenzione sugli aspetti comunicativi di un’arte “da marciapiede” che sopravvive all’estinzione nonostante ai nostri giorni sia soffocata da altre ben più ingombranti e sofisticate forme di messaggi. L’era digitale ha scombinato il panorama tradizionale, oscurando i manufatti di tanti artisti che non hanno mai voluto essere considerati tali, mossi esclusivamente dalle necessità di sbarcare il lunario.

Andriani si sofferma con competenza sulle tecniche espositive di Leonardo Vitale cercando di andare oltre la lettura scontata delle rappresentazioni sacre più volte replicate e ritrovando nell’analisi dei materiali usati le forme primitive di un sapere poco apprezzato trasmesso dai gessetti, che restano nelle mani dell’artista le uniche armi per vincere la guerra della sopravvivenza, di gestire faticosamente i bisogni quotidiani.

Il volume è fortemente innovativo, costruito su documentazione inedita e attraverso una oculata selezione delle testimonianze raccolte. L’indagine sul personaggio non è di natura agiografica. Vitale resta un esempio di madonnaro, preso da Andrìani a simbolo di una categoria che non trova più spazio a divulgare la sua arte, ritornando ad essere invisibile dopo ogni festa patronale. La loro riapparizione non sembra attesa come lo era nel secolo scorso quando la loro assenza veniva non solo avvertita, ma considerata anche male augurante per il successo della stessa festa. Oggi lo scenario è cambiato e sembra destinato a disperdere il patrimonio di esperienze artistiche accumulato in questo particolare settore. Nella ricca e articolata seconda parte della monografia l’autrice, oltre ad arricchire in forme diverse il panorama di studi, si chiede se queste forme espressive hanno ancora un futuro. Non dà risposte definitive, ma sembra abbastanza chiaro che l’episodio Vitale si colloca dentro un percorso di declino irreversibile. Quasi la fine di un’epoca.

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Inchiostri 90. L’aquilone di Emilio Vedova

di Antonio Devicienti

Pensare il volo, pensarlo come slancio della mente e dello sguardo, identificarlo con il necessitato senso di libertà e con il sogno, lucidissimo, di menti intese a liberarsi dal giogo della gravità.

Una fotografia mostra Emilio Vedova mentre effettua una prova di lancio dell’aquilone dipinto con gli stessi motivi e con i medesimi colori che caratterizzano la serie in continuum, compenetrazioni/traslati ’87/’88: il Canale della Giudecca e la Chiesa del Redentore alle sue spalle, l’artista, macchiato di colore e ritto nello sforzo del lancio, dedica serietà e impegno al progetto che chiama un Drachen per Osaka con il quale partecipa all’iniziativa di ampio respiro del Goethe Institut della città giapponese (Bilder für den Himmel. Kunstdrachen) e che implica che molti artisti disegnino o dipingano gli aquiloni che maestri giapponesi avrebbero assemblato e che per almeno tre anni sarebbero stati lanciati e fatti volare in vari luoghi del pianeta.
L’arte energica e materica di Emilio Vedova sa farsi aerea e lieve, seriamente giocosa: senza per nulla scollarsi dal ductus della ricerca artistica e politica vedoviana.
L’aquilone, accogliendo anche un’antichissima tradizione giapponese che ne fa un mezzo di contatto tra terra e cielo, si leverà nel cielo sollevato e sostenuto dal vento e i segni pittorici di Vedova sono i medesimi, pura energia di pensiero, dei dischi e dei plurimi, furibondi atti di pensiero.

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Meloni e il conflitto di obiettivi fra consenso interno e consenso in Europa

di Guglielmo Forges Davanzati

Le principali mosse dell’esecutivo sul piano della politica economica mettono in evidenza un clamoroso cambio di vedute rispetto alla campagna elettorale e, dunque, un chiaro tradimento degli elettori. Nei giorni scorsi, i provvedimenti più rilevanti a riguardo sono stati la decisione di privatizzazione di Ita e il passaggio dal mercato tutelato dell’energia a quello libero.

Riguardo al primo caso, si tratta dell’avvio della vendita del pacchetto di minoranza di Ita a Lufthansa per 325 milioni di euro e dell’apertura al fondo Kkr per l’acquisto della rete di Tim. Si ricorderà che Giorgia Meloni, solo lo scorso anno, annunciava un programma di ritorno alla proprietà nazionale di imprese strategiche, con la motivazione che la nazionalità italiana avrebbe favorito investimenti in patria. A settembre 2022, nel criticare la scelta della privatizzazione di Ita da parte del Governo Draghi, Giorgia Meloni diceva: “Secondo me bisognava valutare la possibilità di mantenere la nostra compagnia di bandiera perché non ci facciamo certo un figurone ad essere, forse, l’unico grande paese occidentale d’Europa che non ha una propria compagnia di bandiera”. Il Governo abbandona oggi qualunque sussulto patriottico.

Peraltro, vi è ormai ampia letteratura che mostra come le privatizzazioni siano state, in Italia, superiori – per importi movimentati – a quelle praticate in Europa e sostanzialmente inefficaci nel lungo periodo. In particolare, una recente ricerca di Pietro Modiano e Marco Onado (Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, Il Mulino 2023) mostra in dettaglio come le privatizzazioni attuate in Italia – soprattutto a partire dagli anni Novanta – siano state realizzate per far cassa, in un orizzonte miope di breve periodo, con effetti molto dubbi sulla qualità del servizio. Anzi, in alcuni casi – IRI in primis – si è persa sovranità tecnologica, dunque capacità del Paese di generare innovazioni al suo interno. Ciò nonostante, come spesso accade, è innanzitutto la Commissione europea a sollecitare privatizzazioni e il Governo a seguirne le raccomandazioni più o meno esplicite.

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Senza buon senso la tecnologia diventa dannosa

 di Antonio  Errico

All’inizio e alla fine di Sconnessi, il film con la regia di Christian Marazziti,  un personaggio dice: “Lo sapete quante volte viene toccato lo schermo di un cellulare ogni giorno? 2.600. E sapete quante di queste sono assolutamente indispensabili alla nostra vita? Quattordici”. Si potrebbe dire anche di meno, in media. Un giorno possono capitare venti telefonate necessarie, un giorno ne possono capitare cinque. Un altro giorno nessuna. Ma noi per 2.600 volte al giorno controlliamo il telefono, pestando i piedi  in una pozzanghera di mail messaggi notizie  notifiche twitt. La maggiorparte inutili.

In un tempo remotissimo si diceva “penso dunque sono”, traducendo la formula “cogito ergo sum”  adottata  da un signore di nome René Descartes, latinizzato in Renatus Cartesius e italianizzato in Renato Cartesio. Ma il tempo era appunto remotissimo. I tempi- per fortuna- cambiano. Il progresso avanza. Certe idee diventano vecchie, superate dai fatti e dagli strumenti. Adesso quella formula non si usa più. Adesso si dice digito ergo sum. Anche se qualche volta viene da pensare che  forse aveva ragione Alessandro  Manzoni quando nel suo saggio sul romanzo storico diceva che non sempre quello che viene dopo è progresso.

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Dal cielo… per le vie del mondo. Leonardo Vitale e l’arte madonnara – Oria, 6 dicembre 2023

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Nell’album dei ricordi di un Salento fiabesco: Antonio Prete, “Album di un’infanzia nel Salento”

di Adele Errico

“Ma abbiamo tutti una montagna dell’infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo”. Così parla il mendicante, in Dialoghi con Leucò, rivolgendosi a Edipo che vaga accecato fuori dalle mura di Tebe, con l’orrore delle proprie colpe ancora impresso negli occhi insanguinati. Mentre Edipo si scaglia contro il destino, il mendicante gli ricorda di voltarsi indietro, a ripensare – anche solo per un secondo – a quello che ha vissuto prima della tragedia, prima dell’orrore, a risalire sulla montagna dell’infanzia, laddove era, forse, felice. L’ultimo libro di Antonio Prete si intitola Album di un’infanzia nel Salento (Bollati Boringhieri 2023) e assomiglia molto a uno scavare nella lontananza. “Lontano” è la dimensione di cui parla anche il mendicante di Pavese perché lontano è quello che viene in mente a sentir parlare di infanzia: “L’infanzia è, della lontananza, il suo rigore estremo” – scrive Prete -, “difficile infrangere la sua inaccessibilità. La sua stessa rievocazione, nel corso degli anni, si fa labile, perché la tela dei suoi accadimenti si sfrangia e assottiglia. La vita, lungo il passaggio degli anni, è l’implacabile accamparsi di una distanza crescente dal suo mondo”.

Nel volgere gli occhi indietro a un tempo che appartiene al ricordo, Antonio Prete sceglie non casualmente la dicitura di “Album”. La scrittura del ricordo procede per lampi visivi, come fugaci sezioni di una pellicola fotografica, fotogrammi della mente che riposano, silenziosi, come sepolti sotto un sottile strato di neve, come semini dormienti sotto il cotone, in attesa di sbocciare. Leggendo Album di un’infanzia nel Salento non si poteva evitare di risfogliare il saggio La camera chiara di Roland Barthes, nel quale si legge: “Ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. In essa, l’accadimento non trascende mai verso un’altra cosa: essa riconduce sempre il corpus di cui ho bisogno al corpo che sto vedendo; essa è (…) la Tyche, l’Occasione, l’Incontro, il Reale, nella sua espressione infaticabile”. La fotografia, per Barthes, è rappresentanza dell’irripetibile, di quanto è accaduto una sola volta e, nella propria unicità, viene irrimediabilmente congelato. Uno sguardo, un sorriso, un movimento fissato, per sempre – o finché il tempo ne conserverà le tracce – in uno scatto.

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Gaetano Minafra, Arte grafica 4. Meditazione

Matita, 2023, cm. 30 x 40.
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G. Patrizia Morciano, La mia letteratura italiana – Casarano, 5 dicembre 2023

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Manco p’a capa 175. Frank è vivo

di Ferdinando Boero

Trenta anni fa, il 4 dicembre 1993, all’età di 53 anni, Frank Zappa muore a Los Angeles. Siamo stati amici per dieci anni e quando mancò all’appuntamento che mi aveva dato, a Vienna, per l’ultima rappresentazione di Yellow Shark, mi mandò un fax dicendomi che sarebbe tornato a casa: stava male. Era settembre 1992. Gli telefonai, rispose Gail, sua moglie. Disturbo? No, Nando, queste telefonate gli fanno bene. Chiacchierammo del più e del meno, e gli dissi arrivederci, o in USA o in Europa. Non verrò più in Europa. Sapeva che la fine era vicina. Avrei dovuto saltare su un aereo e andare a LA, in Woodrow Wilson Drive, visto che Gail diceva che parlare con me gli faceva bene. Come faceva bene a me parlare con lui. E invece non ci andai.
Gli ho dedicato una nuova specie di medusa (Phialella zappai) e ho ricevuto in cambio una canzone (Lonesome cowboy Nando) eseguita nel suo ultimo concerto rock, a Genova, nel 1988.
Oggi, quando lo dico, i più non sanno neppure chi sia, Frank Zappa. Soprattutto i giovani. Se penso alla musica di 30-50 anni prima dei miei 20 anni, posso anche capire. Ma, oggi, sento nuovi brani molto osannati e non trovo originalità e sorpresa, come continua a darmi la musica di Zappa. Chi ne sa di musica, come Pierre Boulez, conferma la mia impressione di non intenditore.

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Per un breve profilo artistico di Antonio Bortone

di   Paolo Vincenti

Antonio Ippazio Bortone, scultore prolifico e ispirato, nato a Ruffano nel 1844, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze dove raggiunge la gloria, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alle due chiese più importanti della città: Santa Maria del Fiore e Santa Croce. Per la facciata di Santa Maria del Fiore realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887). Per la Basilica di Santa Croce realizza il monumento funebre a Gino Capponi (1876) e poi il Michele di Lando (1895), collocato nella Loggia del Mercato Nuovo. A Biella realizza il monumento funebre a Quintino Sella (1888); a Stradella il monumento ad Agostino Depretis (1893)[1].

Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce; i busti in marmo di Giulio Cesare Vanini (1868), di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, e il Monumento a Sigismondo Castromediano (inaugurato nel 1905), nella omonima piazzetta leccese; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina; non potendo soffermarci su tutte per esigenze di spazio, ci concentreremo solo su alcune, rinviando ai testi in bibliografia per una maggiore conoscenza ed un’analisi più dettagliata delle altre.

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Incontro con Antonio Prete – Galatina, 5 dicembre 2023

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Inchiostri 89. Versailles di Tess Jaray

di Antonio Devicienti

(c) Tess Jaray; Supplied by The Public Catalogue Foundation

: perché Versailles? perché l’epicentro di ogni testo è il nome e le opere di Jaray sono texturae di geometrie e di colori (testi concrezionati di ritmo e di spazio, di vibrazioni della luce e di rigorose campiture) : si addentra lo sguardo, allora, in una versailles di rettilinei sentieri, di prospettive incrociate (diresti che l’ottagono irregolare suggerisca la pianta di Parigi, speculum in aenigmate, mise en abîme, in questa versailles di Tess Jaray, di giardini, di boschi, di labirinti, di una città percorsa dalla mente non per attraversamenti dello spazio, ma di tempo) : il nome è, contemporaneamente, evocazione e presenza, versailles / Versailles reggia giardino e spazio materiato di tempo.

Versailles alle porte di Parigi, una versailles per perdersi nei percorsi furibondi del pensiero, un montaggio di specchi a moltiplicare e dilatare l’adesso dell’occhio che osserva, della mano che tesse linee e colori sulla tela, dell’orecchio al cui orizzonte si affacciano altri nomi (Charlottenburg? Boboli? Capodimonte? Schönbrunn?)
Vista da qui Versailles ha nome d’orizzonte che si dilata, udita da qui Versailles ha forma di reticolo intessuto per percorsi di scienza della memoria.

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Passeggiate vecchie e nuove

di Gianluca Virgilio

Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio

qui volgere le spalle.

Andrea Zanzotto, Dietro il paesaggio.

C’è stato un tempo in cui di tanto in tanto mio padre e mia madre a bordo della loro auto andavano in campagna per fare una passeggiata; prendevano la strada che porta ai Paduli e la seguivano curvando a destra o a manca, verso Aradeo o Cutrofiano, oppure dritti verso l’agro di Collepasso, dove un settembre di alcuni anni prima avevamo villeggiato in una casetta senza elettricità. Nei primi anni settanta, ancora ci si adattava, da parte di noi piccoli con un certo stupore, a simili occorrenze. L’accensione a sera d’un lume a petrolio, col quale ci si spostava di stanza in stanza, proiettando lunghe ombre sulle pareti, prima di andare a dormire, somigliava a un rituale antico, sconosciuto a noi bambini e piuttosto inquietante, ma di cui ci avevano parlato i nostri genitori, che invece sembravano semplicemente riprendere una vecchia abitudine.

Dopo una faticosa settimana di lavoro, nelle loro uscite di domenica pomeriggio, quando decidevano di non andare al mare, per evitare il traffico, i miei genitori si distraevano mostrandosi a vicenda le colture di finocchi e cicorie, peperoni e melanzane, patate e cipolle, i vigneti e gli oliveti, i campi seminati a grano o piantati a tabacco, a seconda delle stagioni; e nell’additarsi questa o quella casa rurale, questa o quella masseria, questa o quella casina, e nominare la famiglia cui apparteneva. Quando mio padre vedeva in lontananza la pianura sollevarsi in un poggetto piantato a olivi oppure il Canale dell’Asso formare un’ansa e un più folto canneto, era preso dall’immaginazione di luoghi lontani, le colline senesi o le sponde di un ruscello brianzuolo oppure un tratto del naviglio pavese; luoghi in cui egli era vissuto cinquant’anni prima, per qualche anno o per pochi mesi, o solo giorni, divenuti dapprima luoghi della memoria, e poi della fantasia in grado di trasfigurare i luoghi reali, e dunque, almeno in un momento di entusiasmo, di riportare alla luce paesaggi lontani in un angolo di campagna dove mai nessuno avrebbe pensato di poterli vedere.

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L’“arte messa in scatola” di Fiorella Cassani

di Antonio Lucio Giannone

Venere di Parabita.

Fiorella Cassani è un’artista italo-svizzera, nata a Ginevra, che da una quindicina di anni si è trasferita in Puglia e risiede a Ostuni. Dopo aver studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Ginevra, dove ha conseguito il diploma in espressione pittorica, ha frequentato un corso di specializzazione presso il National Institute of Design di Ahmedabad in India. Ha allestito numerose mostre personali in Italia, Svizzera e India e ha partecipato a importanti rassegne d’arte. Nel corso della sua attività artistica, si è servita delle tecniche e dei materiali più disparati, dimostrando una sorta di creatività diffusa con cui cerca di reagire al grigiore, alla banalità della realtà quotidiana. Ha lavorato infatti con l’acquerello, l’acrilico, il collage, il disegno, ma anche con i fili di ferro, le perle, la rete, le fotografie e le cartoline illustrate, sulle quali interviene facendole diventare qualcosa di “altro”. Di recente ha realizzato la serie dei collages di cui abbiamo avuto modo di parlare su questa sede.

Ultimamente ha dato vita alla serie da lei denominata Art mis en boites, che ha esposto nel suo atelier, utilizzando scatolette di alluminio che contengono prodotti commestibili (tonno, sgombri, ecc.) per farne originali creazioni. Dopo averle opportunamente preparate, ne decora il fondo con coloratissimi smalti per le unghie usati dalle donne e colloca all’interno opere o oggetti miniaturizzati con la tecnologia di stampa 3D oppure le dipinge, rivisitando a suo modo secoli di arte, dalla preistoria ai giorni nostri. A esse aggiunge basi o piedistalli inserendo a volte animali preistorici, capitelli, busti, conchiglie. Ne è venuto fuori una sorta di museo ideale, anzi l’insieme di più musei (preistorico, archeologico, di arte antica, di arte moderna e contemporanea, di scienze naturali), che ovviamente è possibile visitare in brevissimo tempo e in uno spazio ristretto, senza doversi spostare da una città, o da una nazione, all’altra.

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Yves Bonnefoy: L’imperfezione è la cima

di Antonio Prete

È l’ultimo verso di una poesia da Hier régnant désert, del 1958. Un verso che, sbalzato come su una stele, epigrafico, e insieme esortativo, conclude una rappresentazione del lavoro artistico, assunto come figura dell’esistenza umana stessa, del suo cercare e interrogare. Ecco il breve testo, in una mia traduzione:

C’era che bisognava distruggere e distruggere e distruggere,
c’era che solo a questo prezzo si dà salvezza.
Rovinare il volto nudo che cresce nel marmo,
martellare ogni forma, ogni bellezza.
Amare la perfezione perché essa è la soglia,
ma appena conosciuta negarla, morta dimenticarla.
L’imperfezione è la cima.

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Di mestiere faccio il linguista 28. Le lingue di Dante

di Rosario Coluccia      

La ricorrenza del 2021, che ha ricordato al mondo i 700 anni trascorsi dalla morte di Dante Alighieri, ha generato numerosissime iniziative, scientifiche e non scientifiche, non tutte di primo livello. Per alcuni il nome di Dante è stato una specie di passepartout buono per tutte le occasioni. Nel nome di Dante si sono organizzate mostre ripetitive, fatti convegni effimeri, tenuti dibattiti senza novità, in cui spesso ci si è limitati e riverniciare vecchi contenuti in nuove forme. In altri casi i risultati sono eccellenti. Tra questi spiccano, tra i più significativi in assoluto, due recenti edizioni del testo della «Divina Commedia», entrambe degne di grande attenzione e destinate a rimanere nel tempo, pur nella diversità dell’impostazione e dei risultati che ne derivano. Alludo all’edizione in tre volumi (I. «Inferno»; II. «Purgatorio»; III. «Paradiso») a cura di Giorgio Inglese, Firenze, Le Lettere, 2021; e a quella (per ora limitata all’«Inferno», in attesa dei prossimi «Purgatorio» e «Paradiso»), a cura di Elisabetta Tonello, Paolo Trovato, con la collaborazione di Martina Cita, Federico Marchetti, Elena Niccolai, commento di Luisa Cuomo, Limena (PD), libreriauniversitaria.it Edizioni, 2022.

Ogni editore della «Commedia» deve misurarsi con una complicazione che rappresenta una delle questioni più intricate della filologia mondiale. Dell’opera capitale della nostra letteratura e della nostra lingua non è rimasto neppure un rigo scritto direttamente da Dante. Di quel testo che tanto ha influito sulla storia e sulla coscienza degli italiani sono rimaste solo copie, trascritte dai copisti a partire dagli anni Trenta del Trecento. Dante morì subito dopo aver terminato l’ultimo canto del «Paradiso», chiuso dal verso notissimo «l’Amor che move ’l sole e  l’altre stelle», chiusa che esalta l’amore, principio e anima dell’universo, al cui ritmo appartiene ogni essere umano. E non poté in nessun modo conoscere (né, tanto meno, controllare) le modalità attraverso il suo testo si diffuse nel tempo e nello spazio, con copie manuali tutte diverse l’una d’altra (come succede ancor oggi ad ogni oggetto complesso costruito artigianalmente, non se ne possono creare due assolutamente identici). La stampa, che fornisce copie tutte uguali del testo stampato, era di là da venire. Il testo dantesco veniva ricopiato a mano e ogni volta, inesorabilmente, subiva dei cambiamenti.

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L’ Album di un’infanzia nel Salento di Antonio Prete

di Simone Giorgino

«Che cosa resta dell’infanzia in un’altra età della vita? Che cosa resta del suo stupore, dei suoi incantamenti?». A partire da queste suggestive domande, Antonio Prete, professore emerito dell’Università di Siena, comparatista di fama internazionale oltreché poeta e traduttore fra i più alti e autorevoli degli anni nostri, intraprende il suo viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, nel «paesaggio lontano» della sua infanzia vissuta a Copertino, nel leccese, raccontato nell’intenso Album di un’infanzia nel Salento (Bollati Boringhieri, 2023).

La sua è una prosa raffinata, concentratissima, che corteggia la poesia; e d’altronde il tema sviluppato nel libro è da sempre caro ai poeti, i quali, come scrive l’autore, «sanno bene quanto la lingua del loro dire deve alla luce, e alle ombre, che appartengono» ai primi anni della loro esperienza del mondo.

Prete ci ricorda che l’infanzia, nell’etimo, è un tempo anteriore alle parole, «l’al di qua della lingua. L’alba del dire». È proprio in quel periodo che si modella la nostra personalità: attraverso esperienze, incontri, sensazioni – corpi, sapori, colori, odori, suoni (fra i quali la cadenzata musicalità del dialetto, la lingua madre contrapposta all’italiano, lingua «estranea» dell’ufficialità) – che segneranno per sempre il nostro cammino. Perché il tempo dell’infanzia è un tempo che dura, che «continua a respirare nel nostro stesso respiro».

L’Album di Prete propone anche una densa riflessione sulla memoria, sulla sua natura e sui meccanismi che la governano, sviluppata non solo a livello teorico ma soprattutto testimoniata in prima persona, o meglio con un’esibita ‘incertezza’ pronominale che riflette il carattere sfuggente, anfibolico insito nell’operazione del rammemorare: «Perché dire io raccontando della mia infanzia? – si chiede a un certo punto l’autore – Più giusto sarebbe usare il tu: troppo lontano è quell’io da questo momento in cui scrivo, troppo diverso da quello che ora posso intendere con questo pronome».

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 3. Contadino

Matita e pastelli a olio e materiali metallici, 2022, cm 30 x 40.
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Manco p’a capa 174. L’ossessione del possesso femminile

di Ferdinando Boero

Biologicamente, il ruolo femminile è di gran lunga più importante di quello maschile, tanto che in alcune specie animali i maschi sono semplici iniettori di sperma, in perenne accoppiamento con le femmine, ridotti a escrescenze sui loro corpi. Altre volte sono indipendenti ma a vita breve, giusto il tempo di accoppiarsi. I rotiferi bdelloidei prosperano senza bisogno di maschi: le uova si sviluppano per partenogenesi. Nelle specie con rituali di accoppiamento i maschi corrono più rischi perché sono appariscenti, per attirare l’attenzione delle femmine, oppure combattono fino alla morte. I maschi si propongono, le femmine dispongono e controllano la riproduzione. Una femmina è biologicamente certa, anche se non lo sa, che la sua prole ha metà dei suoi geni, più l’eredità mitocondriale, esclusivamente materna. L’altra metà arriva con la fecondazione da parte di un maschio. Se la femmina si accoppia con più maschi, solo uno riesce a passare i suoi geni alla prole, fecondando l’ovulo materno. Gli altri maschi, pur essendosi accoppiati, escono sconfitti dalla selezione sessuale e i loro geni muoiono con loro. Lo sappiamo anche noi: la madre è sempre certa, mentre il padre… Da questa incertezza deriva l’ossessione del possesso femminile da parte dei maschi, insicuri della paternità dei figli delle rispettive compagne.

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