A dieci anni dalla crisi Xylella: l’auspicabile transizione a un’economia post-agricola

di Guglielmo Forges Davanzati

È convenzionalmente fissato al 2013 l’arrivo di Xylella in Puglia ed è tempo, a dieci anni di distanza, per tracciare un bilancio. Va innanzitutto ricordato che, in quel periodo, la produzione locale di olio era in calo, a seguito dell’ingresso nel mercato mondiale dei produttori africani e della concorrenza esercitata da questi. Nel 2011 si producevano 542.000 tonnellate di olio d’oliva ogni anno in Italia, a fronte di un volume di 506.000 tonnellate nel 2012 e di 462.000 nel 2013, per poi ridursi ulteriormente. La Puglia produceva, in quegli anni, il 37% della produzione nazionale e l’85% della produzione nazionale era interamente generata nel Mezzogiorno. Si osservava un ridimensionamento del comparto in quel periodo, con una contrazione – pre-Xylella – di 9 quintali per ettaro. Xylella combinata con la siccità e l’aumento dei costi delle materie prime ha contribuito al crollo della produzione nell’ultimo anno. Sul tema si è ampiamente dibattuto e la posizione dominante (che si somma a quelle del complotto, ampiamente diffuse purtroppo dalle nostre parti) fa propria la convinzione che si tratti di una vera e propria sciagura, considerando la perdita di produzione agricola che ne è seguita e la devastazione del paesaggio. E’ poi ampiamente condivisibile la tesi di molti agronomi, per la quale Xylella si è abbattuta su un’agricoltura caratterizzata da forte incuria per gli alberi e per il territorio.

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Ricognizioni novecentesche di Antonio Lucio Giannone

di Emilio Filieri

Antonio Lucio Giannone, ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università del Salento, raccoglie nel volume Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020, tredici studi sulla letteratura italiana del Novecento suddivisi in cinque sezioni; sono interventi apparsi negli ultimi anni in varie sedi, ma rientrano quasi tutti nelle linee di ricerca seguite nel corso della sua pluridecennale attività. Si diceva quasi tutti, in quanto la terza sezione comprende due studi relativi alla “fortuna”, tra i moderni, di figure che appartengono alla tradizione classica italiana: Poliziano e Leonardo da Vinci. L’interesse di Giannone per tali personalità iniziò molti anni orsono con un giovanile lavoro su Petrarca e il Novecento; in questa sezione l’attenzione sulla sopravvivenza dell’antico nel moderno si concentra, nel primo caso, su Poliziano, il cui revival tra fine Ottocento e primo Novecento è ascrivibile al nome di Carducci, che nel 1863 curò l’edizione delle opere polizianesche Le Stanze, l’Orfeo e le Rime, presso Barbèra di Firenze. Proprio Carducci nei Levia gravia (1867) riprendeva due ballate edite nel 1857 fra le Rime di San Miniato, il suo primo libro di versi, a richiamare «rime toscane» dei secoli XIII e XIV, non senza «qualche cosa del tizianesco colorito del Poliziano»; e l’esempio del poeta maremmano fu presto seguito da altri poeti dell’ambiente carducciano. Promotore però di un vero e proprio ritorno a Poliziano fu Gabriele d’Annunzio con il volume l’Isottèo – La Chimera (1890), a esaltare la poetica dell’“arte per l’arte” rispetto alla linea erudito-antiquaria dei carducciani. Il critico si sofferma sul D’Annunzio capace di presentarsi come «un quattrocentista mezzo pagano e mezzo cristiano», in pagine che segnalano una sorta di moda della poesia quattrocentesca e si allargano a cavaliere dei due secoli, sino a comprendere le prime due raccolte di versi di Luigi Pirandello, debitore del Poliziano già nel titolo della prima raccolta Mal giocondo (1889), derivato da un emistichio delle Stanze per la giostra (Libro I, ottava 13, vv. 7-8).

Nel secondo caso, al centro è Leonardo da Vinci, che nello scorcio del primo Novecento è assunto come modello di genio assoluto tra arte e scienza, ma variamente modulato sulle linee del titanismo e del senso del mistero, di eccezionalità o ambivalenza. Leonardo appare nella prefigurazione strumentale da parte dei suoi interpreti, da Walter Pater sino a Campana e Papini, ma è pure colto nella costante riflessione di Giuseppe Ungaretti, sulla scia di Paul Valéry. E si intravedono nel personaggio aspetti di totalitarismo artistico-ideologico, salvo poi a veder riaffiorare il genio di Vinci nelle pagine di Carlo Emilio Gadda, di Leonardo Sinisgalli, di Eugenio Montale, sino al Calvino degli anni Ottanta, interessato alla natura della visione maturata da Leonardo e indagatore della leonardesca battaglia con la lingua, da vincere nell’esattezza della scrittura.

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Studi su Sigismondo Castromediano

di Clara Allasia

Era solo questione di tempo che Sigismondo Castromediano ottenesse finalmente l’attenzione che merita fra gli studiosi del Risorgimento, sia dal punto di vista letterario che da quello storico. Il convegno del 2012 – nato sotto l’egida del Centro Studi a lui intitolato e presieduto da Antonio Lucio Giannone – aveva già attestato una situazione di vivace fermento, confermata dalla pubblicazione, due anni dopo, degli atti, preceduti e seguiti da edizioni di importanti testi del duca, fino ad allora sconosciuti.1 Frutto di questo costante impegno scientifico e organizzativo è il volume miscellaneo Tra realtà storica e finzione letteraria. Studi su Sigismondo Castromediano, a cura di A.L. Giannone, Lecce, Pensa Multimedia, 2019, che si collega al convegno del 2012 (non a caso vengono qui riportati due saggi, di Raffaele Giglio e Bruno Pellegrino, che ne presentano gli atti, dal punto di vista letterario e storico) e si propone di proseguire nella non facile restituzione di una personalità complessa come quella di Castromediano.

Giglio, in particolare, riflette sulla «rabbia, docile e gentile, che si evince dallo scritto di Lucio Giannone» (p. 34) ma, direi, anche dalla sua opera di Presidente del Centro studi Sigismondo Castromediano e Gino Rizzo. L’obiettivo di Giannone è non solo quello di ricollocare nella giusta prospettiva l’azione dei patrioti meridionali nella storia dei sofferti anni preunitari ma, anche, di restituire dignità letteraria e documentaria ai loro scritti. Credo tuttavia che sia ingiusto quanto Giglio si chiede, quasi in chiusura del saggio, supponendo che «Castromediano abbia trovato un angoletto fra i memorialisti risorgimentali» solo perché citato in «memorie settentrionali» (p. 41). Penso, anzi, che Castromediano, coerentemente con la sua indole e la sua natura, abbia rifiutato, come alcune lettere attestano, di entrare in un Pantheon che sentiva non appartenergli, con quell’atteggiamento retto e schivo che caratterizzò la sua vita e, come viene dimostrato con efficacia in sinossi da Bruno Pellegrino, la sua opera parlamentare e politica.

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Poi, la storia

di Antonio Prete

L’incurvarsi del cielo nel suo gemito.

Il grido del ferito nella neve.

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Alberi, schegge d’alberi nel vento.

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Nella radura senza sole un angelo,

le ali richiuse, contempla l’Assente,

una musica intorno che è  tempesta

di violini, diluvio d’armonia.

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Poi, la storia, con trofei e rovine.

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E’ ancora curvo il cielo nel suo gemito.

Grida ancora il ferito nella neve.

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Nuove segnalazioni Bibliografiche 15. Giornalismo di guerra

di Gianluca Virgilio

In tempo di guerra, il mestiere del giornalista non è per nulla facile. Non è lo è mai, per la verità, perché informare le persone non ha nulla di asettico e dunque chi detiene il potere non può permettersi di lasciar mano libera al giornalista. A maggior ragione quando infuria la guerra, la verità prende il largo e la propaganda si mescola all’informazione fino a sfigurarla. È il tempo della censura. Il giornalista dà conto delle decisioni dei potenti e, ben scortato dall’esercito, visita luoghi colpiti dalle bombe e riferisce di morti e feriti, meglio se bambini, sempre a carico del nemico. Il cattivo e da una parte, il buono dall’altra. Così l’opinione pubblica viene formata e disinformata. Se poi il giornalista vuole sottrarsi al ruolo che il potere gli assegna, ha poche chance di farcela, ovvero di riportare al lettore qualche informazione non contraffatta senza rischiare addirittura la vita.

Pensavo a tutto questo leggendo il reportage di Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi, Ucraina. La guerra che non c’era, Baldini+Calstoldi, Milano 2022 (seconda edizione accresciuta rispetto alla prima del 2015), il diario di viaggio di due giornalisti freelance che, nel tempo in cui in Italia pochi sapevano dove fosse il Donbass, tra l’inizio di ottobre e la metà di novembre del 2014, con molto coraggio e pochi soldi in tasca, hanno visitato i due opposti campi, lungo la linea del fronte, dei separatisti e dei governativi. Accolti dagli uni e dagli altri ora con sorrisi ora con sospetto, i due hanno incontrato le persone più diverse, animate dalle motivazioni più disparate: “miliziani dal volto umano, ufficiali alcolizzati e cocainomani, volontari di mezza Europa ubriachi di ideologia …”, come trovo riassunto nell’aletta di prima di copertina. Il libro procede in questo modo, col racconto degli incontri e con una serie di ritratti e di storie individuali che stentano a diventare storia collettiva di popoli contrapposti.

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Di mestiere faccio il linguista 7. Resilienza

di Rosario Coluccia

Da mesi tutti parlano del PNRR, il programma con cui il governo intende gestire i fondi del «Next Generation Eu», lo strumento di ripresa e rilancio economico introdotto dall’Unione europea per risanare le difficoltà causate dalla pandemia. La sigla PNRR significa Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ed è sicuramente comprensibile nel suo significato generale, al di là dei dettagli controversi e per molti aspetti ancora in corso di definizione. Tutti sanno che si tratta di un progetto per rilanciare l’economia affossata dalla crisi. Non altrettanto chiara, forse, è l’ultima parola contenuta nella sigla: «resilienza» deriva dal lat. «resilire» che significa ‘saltare indietro,  rimbalzare’ (dal verbo latino nasce anche l’agg. it. «resiliente»). La parola resilienza è voce dotta attestata nella nostra lingua dal sec. XVIII e di larga diffusione internazionale, con significati tecnici precisi: indica la ‘capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi’ (in ambito fisico), la ‘capacità di un filato o di un tessuto di riprendere la forma originale dopo una deformazione’  (in ambito tessile) e anche ‘la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà’ (in psicologia). In quest’ultimo caso la plasticità del termine viene estesa ai moti della psiche: le passioni assumono caratteristiche fisiche.

Riporto con adattamenti minimi le definizioni di alcuni vocabolari. Il Sabatini-Coletti glossa: fis. «capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi». Nel Vocabolario Treccani il vocabolo ricorre a proposito di «ecologia» («la resilienza è direttamente proporzionale alla variabilità delle condizioni ambientali e alla frequenza di eventi catastrofici a cui si sono adattati una specie o un insieme di specie»);  di «tecnica» («nella tecnologia dei materiali, indica la resistenza a rottura dinamica, determinata con apposita prova d’urto»); di «psicologia» («capacità di reagire a traumi e difficoltà, recuperando l’equilibrio psicologico attraverso la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità»).

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Paolo Vincenti, I segreti di Oppido Tralignano – Galatina, 8 giugno 2023


I segreti di Oppido Tralignano è il titolo dell’ultimo romanzo breve, pubblicato da Agave Edizioni, di Paolo Vincenti, che giovedì 8 giugno, alle ore 19.00, sarà presentato presso il salone dell’ex Monastero della Clarisse a cura del Salotto di Cultura Galatina Letterata. Dopo i saluti istituzionali del consigliere delegato alla cultura Davide Miceli, a dialogare con l’autore saranno il prof. Vito d’Armento, dell’università del Salento, e la prof.ssa Anna Stomeo, semiologa ed attrice, componente della Società di Storia Patria Puglia Lecce..
Oppido Tralignano è una città di mare del Sud, chiusa in sé stessa come spesso lo sono le nostre città di mare, una città fortificata, immaginaria, misteriosa e inquietante. La voce che parla di questo luogo insolito e misterioso, a noi così familiare, è la voce di un narratore che conosce bene i fatti, pur non essendone in alcun modo implicato. È uno spettatore esterno, che sa tutto e si compiace di raccontare ciò che sa agli altri, senza minimamente censurarsi ed anzi rivendicando di essere politicamente per nulla corretto.
Oppido Tralignano è un luogo sonnolento, dove i giovani non hanno nulla di meglio da fare che seguire i corsi “sull’intreccio dei panieri per fichi” mentre periodicamente i turisti dell’orrore saccheggiano le contrade oppidane. L’autore induce il lettore a credere che si stia parlando del Salento, la terra in cui egli vive ed opera, in realtà il racconto si addice a tutta l’Italia meridionale, in questo luogo “mosche e zanzare ronzano e gironzolano” come un’inquietante musica di sottofondo, qui si agitano i personaggi della storia: il cannibale barista Barbarino, Lele il ragazzo lupo, Michele Morbio il vampiro, Irene che ama darsi con estrema facilità a chi le pare, don Roberto Guccione il parroco dedito a “piacevoli sollazzi” e molti altri tralignati.
Il narratore segue i destini con la tecnica della citazione e allusione agli universi più disparati: Esopo, Fedro, Ovidio, Virgilio, Marvel…
Ciò che conta è che l’autore è riuscito a rappresentare l’inferno della città meridionale nella quale il tralignamento è condizione diffusa.
(Comunicato stampa a cura di Area Comunicazione Galatina Letterata).
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Una bibliografia d’autore e un’intervista (quasi) immaginaria. Lettere di Eugenio Montale a Vittorio Pagano (Parte seconda)

di Antonio Lucio Giannone

3. Con la terza lettera ci spostiamo più avanti nel tempo, esattamente al gennaio del 1961. Nel frattempo era uscito il terzo libro montaliano, La bufera e altro (1956), mentre Pagano, come s’è detto, era diventato redattore della sezione letteraria della rivista “Il Critone”, a cui invano aveva invitato ripetutamente a collaborare Montale che in quegli anni, peraltro, come sappiamo, dopo appunto La bufera, non pubblicò più versi nuovi fino al 1966 allorché cominciarono ad uscire i primi Xenia. Echi di questi tentativi  restano nel carteggio citato con Macrì. Ad esempio, in una lunga composizione in strofe di agili settenari, inviata come lettera al critico il 5 febbraio 1957, con evidenti allusioni alle prime tre raccolte montaliane, così scriveva:

Non cura Eusebio invece

la mia insistente prece.

E, duro, come un osso,

si tace a più non posso,

tralascia ogni occasione

d’onorare il “Critone”,

e un raggio non si spera

da questa sua bufera.

Oh vedi tu, perdinci,

se un poco lo convinci![1]

Anche per questo Montale all’inizio scrive: «Caro Pagano, non mi sono mai dimenticato di avere in Lei un amico fedele e indulgente. Ma non sono maestro né merito culti», a dimostrazione della continuità del rapporto epistolare tra i due e della venerazione che Pagano continuava a nutrire per Montale, a cui egli mandava puntualmente “Il Critone”, come questi scrive dando anche qui ulteriori, preziose informazioni sul suo lavoro e sui programmi editoriali:

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Manco p’a capa 148. Una proposta: istituiamo il giorno dell’ipocrisia!

di Ferdinando Boero

Mi piacciono le “giornate”! Hanno sostituito i santi e non passa giorno che non se ne celebri una. Le giornate mondiali sono 55 (https://www.giornatemondiali.it/) ma non ci sono tutte. Il 5 giugno è la giornata mondiale per l’ambiente, l’8 giugno quella degli oceani. Come per i santi, anche per le giornate vale il detto: passata la festa, gabbato il santo. Si fanno voti, magari per liberarsi la coscienza, ma presto si dimenticano. Fino all’anno successivo. Tra le giornate mondiali ci sono quella del triangolo dei coralli, del tonno e della giraffa. Da zoologo sono felice che ce ne siano così tante dedicate agli animali. Anche se manca quella dei copepodi, gli animali più importanti del mondo. La necessità di celebrare qualcosa nasce dalla sensazione che quel qualcosa sia minacciato o che, comunque, il suo valore non sia pienamente riconosciuto, come è il caso del Darwin Day. C’è il giorno della donna, ma non quello dell’uomo. Le donne potrebbero obiettare: quello si celebra 364 giorni all’anno, almeno lasciatecene uno.
L’obiettivo di questi giorni potrebbe essere di non doverli celebrare più perché non occorre più ricordare l’importanza di quel che è celebrato, visto che è pienamente riconosciuta. Ma poi no: celebriamo il giorno della mamma e del papà, anche se tutti ne riconoscono il valore. Per non parlare degli innamorati. Di questi tempi mi aspetto il giorno dell’utero! Magari lo stesso giorno del gay pride che, mi pare, si tiene quando pare ai gay e non ha una data particolare.
Sembra di essere a casa del cappellaio matto, che ogni giorno celebra un non compleanno.
I “giorni” fanno girare l’economia, come Natale, Pasqua, San Valentino e le feste di papà e mamme. Non esiste ancora un merchandising per ogni giornata, ma prima o poi ci arriveremo.

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Il romanzo impegnato e le traiettorie del cuore

di Antonio Errico

Letteratura è quel territorio che ognuno attraversa ed esplora come vuole, con i mezzi che vuole, con lo sguardo che vuole. Senza preconcetti, senza categorie definite a priori. Dei fatti che riguardano la letteratura, che riguardano l’arte in genere, ognuno ha una propria idea che deriva dalla formazione, dall’immaginario, dal tempo e dal luogo in cui vive, da quello che assume come valore, dall’importanza che attribuisce alla forma e alla sostanza, dalla prospettiva da cui osserva e interpreta il reale e l’irreale, la (le) verità e la finzione, dalla visione del mondo, dai metodi che adotta per l’interpretazione dei fenomeni, dai significati che considera più rilevanti, dalle impressioni, dai gusti, dai fondamenti della disciplina con la quale cerca di rispondere alla domanda – se si pone da un punto di vista disciplinare -, perché la filologia dice che la letteratura sia una cosa, la sociologia che sia un’altra, la psicologia un’altra ancora. 

Allora, chiunque, se vuole, ha facoltà di sostenere che sarebbe anche ora di dire basta alla lettura di Verga, per esempio, come ha fatto Susanna Tamaro. E’ l’ opinione rispettabilissima di un libero lettore, che ha una sua idea di letteratura, di funzione dei classici, di priorità nella selezione delle letture. Opinioni di questo genere, oltretutto, si ripropongono ciclicamente. Innumerevoli volte, per esempio, si è detto basta alla lettura di Manzoni. Però nessuno può permettersi di negare che i romanzi di Verga e quello di Manzoni costituiscano rappresentazioni di civiltà, per cui se non si leggono non si comprendono le forme delle civiltà che rappresentano.

Forse con questo problema ci si dovrebbe confrontare diversamente. Non discutendo su quello che si deve togliere ma, semmai, su quello che si dovrebbe aggiungere: compresi i libri di Susanna Tamaro. Nella consapevolezza che la lettura è una di quelle esperienze  che si potrebbero dire infinite.     

Che cosa leggere, allora.

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Trasmissioni radio 1. Notizie da Bisanzio

di Antonio Devicienti

Perché “trasmissioni radio”?

 – perché continuo ad amare e ad ascoltare la radio; perché da ragazzo allungavo l’antenna con del filo elettrico e riuscivo a captare stazioni che trasmettevano dai Balcani e dall’Europa orientale; perché Radio Tirana trasmetteva notiziari in più lingue (ovvio che si trattasse di una costante celebrazione di Enver Hoxha) e quelle voci che giungevano dall’altra sponda del Canale d’Otranto avevano il fascino di mondi a me sconosciuti.

A ora tarda, la sera, captavo la radio greca di cui non comprendevo che qualche isolata parola, ma per me era la voce, facile a dissolversi nell’etere, che mi confermava un legame con la madrepatria ideale: ho sempre pensato la Terra d’Otranto come regione di sud-est dell’Europa occidentale e di nord-ovest di una Bisanzio mai tramontata, ho sempre fantasticato di un mio atlante non geografico, ma compilato dall’immaginazione che scompagina la storia, che rende compresenti i tempi, che traccia rotte mai esistite nella realtà.

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Paolo Vincenti, I segreti di Oppido Tralignano – Lecce, 6 giugno 2023

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«Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970) di Vittorio Bodini

di Maria Dimauro

A rimarcare ulteriormente la fedeltà più che quarantennale di Antonio Lucio Giannone all’opus bodiniano (il suo primo studio infatti risale al 1977), viene ora questo denso volume da lui curato («Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970), di Vittorio Bodini, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa Muci,  2020, pp. 192): undicesimo, importante tassello della collana di studi, la “Bodiniana”, interamente dedicata al grande salentino sotto la sua direzione, nel segno di un’interrogazione sullo scrittore sempre aperta, problematica, in fieri, e felicemente rivolta a documentarne ricchezza e spessore e a restituirne l’alto e giusto rilievo nel nostro canone novecentesco. Accanto alle molteplici e articolate disamine sugli statuti e i paradigmi della modernità letteraria, indagati spesso nelle loro intersezioni con individualità poetiche o realtà periferiche e “appartate” nel panorama delle “lettere” nazionali, Giannone ha infatti profuso un lavoro inesausto e meritorio sull’opera di Vittorio Bodini, recuperandone e pubblicandone, nel corso degli ultimi decenni, la congerie eterogenea e in gran parte dispersa degli scritti: fra gli altri, le prose del Corriere spagnolo, quelle di Barocco del Sud e la riedizione del romanzo giovanile Il fiore dell’amicizia (2014). Il recupero di tutta l’altera facies della operosa produzione dell’autore – che esonda dal Bodini cosiddetto “maggiore” (ma solo per l’acquisto precedente e acclarato, dalla consuetudine degli studiosi, della scrittura in versi e dei fondamentali contributi dell’ispanista) ‒ ha sollecitato in misura crescente un adeguato inserimento e una più corretta ricollocazione di questi scritti, come segnala Giannone nella sua illuminante Introduzione al volume, «rimasti dispersi su giornali, riviste e periodici: […] prose critiche che rivestono una notevole importanza per delineare il percorso letterario di Bodini […] ricco di “mobili prospettive” per riprendere il titolo di un suo articolo del 1946» (p. 7).

A quelle sollecitazioni, rimaste peraltro lungamente inevase, ha dato riscontro l’infaticabile dedizione esegetica dello studioso, che ora ci propone, in questo libro suggestivo quanto utile, una sorta di “altra ripartenza” su Bodini dal termine a quo di questi «articoli dedicati a scrittori italiani e stranieri, recensioni, riflessioni sulla letteratura, interventi di carattere “militante” e veri e propri saggi» (nella Nota al testo di p. 181). Dove “l’utilità” consiste in una serrata ricognizione di testi che coprono un arco cronologico molto ampio (1941-1970, ma la maggior parte di essi comprende l’intervallo fra il 1941 e il 1953), attraverso i quali Giannone ridisegna la vicenda letteraria di Bodini all’insegna di “mobili prospettive” sottese ad una esperienza umana e di ragioni poetiche strettamente interconnesse (ma attraversate anche da produttive ambivalenze) sin dal principio della scrittura, e dalle quali traguardare la sua opera e rintracciarne le interne spinte e movimenti, a rilevarne inediti precedenti e future giustificazioni.

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I giovani, le start up e le migrazioni dal Sud

di Guglielmo Forges Davanzati

Sulle colonne di questo giornale, Sergio Fontana invita in giovani meridionali a non emigrare e la politica a farsi carico di una migliore istruzione, legata al mercato del lavoro, per prevenire appunto nuovi flussi migratori. Fontana cita dati riferiti alle buone performance del Sud, appellandosi alla volontà di “fare impresa” come attrattore di giovani nelle nostre Regioni. Il tema è suggestivo, sebbene non nuovo, ma aperto più a ombre che a luci. Vediamo perché, concentrandoci sull’esperienza recente delle start up nelle nostre aree. Per molti anni la Puglia è stata indicata dai media nazionali come uno dei territori più interessanti nell’ottica dello sviluppo dell’innovazione, delle startup e dell’autoimprenditorialità, come un modello di “California del Sud”. I bandi “Principi Attivi”, “PIN” e “Nidi” che, seppur non pensati esclusivamente per il sostegno agli ecosistemi dell’innovazione e alle startup innovative, hanno rappresentato un consistente utilizzo di risorse pubbliche (spesso di derivazione comunitaria) volte a promuovere una visione dinamica e proiettata verso il sistema d’impresa regionale. Presso l’Università del Salento è stata condotta una ricerca sui risultati conseguiti. E’ stata avviata fra il maggio e il luglio del 2016 e confrontata con i dati più recenti che emergono dai bollettini trimestrali del Mise sullo stato delle startup innovative in Puglia. Ecco gli aspetti più rilevanti.

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Vittorio Bodini, “Allargare il gioco”

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La lettera di Antioco III sugli abusi dell’esercito ai danni del santuario del dio Sinuri in Caria (Turchia)

di Biagio Virgilio

Fig. 1. Resti della piattaforma del santuario del dio Sinuri a Kalınağıl (Turchia).
(Foto BV, 29 maggio 2008)

Il 29 ottobre 1934 Louis Robert (1904-1985), il più grande storico-epigrafista del XX secolo, identificò nel villaggio turco di Kalınağıl, poco distante dalla città di Milas (l’antica Mylasa) in Caria, nella profonda Anatolia rurale, il santuario extra­urbano del dio cario Sinuri, sul quale si era nel tempo sovrapposta una chiesetta bizantina. L. Robert annotò nel suo Carnet n° 34 (1934): «Ce sanctuaire de Sinuri est à fouiller» (Questo santuario di Sinuri è da scavare).


Fig. 2. Resti sparsi del santuario del dio Sinuri a Kalınağıl (Turchia).
(Foto BV, 29 maggio 2008)

Di una iscrizione rinvenuta negli scavi e registrata con il n° d’inv. 202, L. Robert riusciva a leggere sui calchi poche lettere qua e elà dalle 10 linee superstitii, ma sufficienti a fargli stabilire che si trattava di una lettera reale scritta da un re siria­no Antioco. L. Robert si riprometteva di approfondire il deciframento dell’iscrizio­ne in occasione di un successivo viaggio in Caria.

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Racconti sovietici 5. Vipera (4-5)

di Aleksej Nikolaevič Tolstoj

4

Come un passero che sta volando nel ventoso cielo impazzito e all’improvviso casca con le ali spezzate e rotola per terra, così la vita di Olga Vjačeslavovna, il suo passionale, innocente amore tutto d’un tratto fu spezzato e si ruppe e cominciarono a trascinarsi giorni pesanti, incerti e a lei inutili. Per molto tempo dovette stare in un lettino di vari ospedali da campo, veniva sgombrata con gli altri feriti nelle retrovie dentro i fatiscenti carri ferroviari, moriva per la fame ed il freddo sotto un logoro pastrano. La gente attorno era estranea, ostile, per tutti lei era soltanto un numero della tabella dell’ospedale militare, nessuna persona cara aveva al mondo. La vita stessa divenne opprimente e disgustosa, ma neppure questa volta la morte se la prese.

Quando fu dimessa dall’ospedale, rapata a zero, magra al punto che il pastrano e gli stivali le cascavano di dosso come da uno scheletro, andò nella stazione ferroviaria, dove abitava e crepava di freddo sui pavimenti nelle sale d’attesa una marea di gente priva di connotati umani. Dove si poteva andare? Il mondo intero era come un campo deserto. Tornò in città, andò in un punto di raduno del comando militare, fece vedere i suoi documenti e la spilla-freccia d’onorificenza, e da lì a poco con un convoglio partì per la Siberia, a combattere.

Il battito delle rotaie, il calore ferreo di una stufetta avvolta da fumi grigi, le migliaia e migliaia di verste, le canzoni lunghe come la strada stessa, il fetore e la neve imbrattata delle caserme, le lettere urlanti dei manifesti militari e, il diavolo solo sa, di quali altre affissioni e notificazioni; i brandelli di cartaccia fruscianti nel gelo invernale, i comizi cupi tra le pareti di tronchi d’albero nella penombra di un lume fumante; e poi, nuovamente, le nevi, le conifere, le fumate dei falò, il suono famigliare del flagello delle battaglie, un gran freddo, i villaggi arsi dal fuoco, le macchie del sangue sulla neve, le migliaia e migliaia di cadaveri come i ceppi di legno sparsi dappertutto e ricoperti dalle folate di neve… Tutto questo si aggrovigliava nei suoi ricordi, si fondeva in un lungo rotolo delle disastrose calamità infinite.

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Una bibliografia d’autore e un’intervista quasi immaginaria. Lettere di Eugenio Montale a Vittorio Pagano (Parte prima)

di Antonio Lucio Giannone

Premessa

Il mio intervento è basato su alcune lettere (tre per l’esattezza) inviate da Eugenio Montale in tempi diversi al poeta e traduttore leccese Vittorio Pagano, conservate presso l’archivio privato di quest’ultimo e gentilmente fornitemi in copia dal figlio di Pagano, Stefano, che qui colgo l’occasione per ringraziare. Esse sono di estremo interesse per più motivi, come vedremo, e anche insospettabili per certi aspetti, sia per il tono usato da Montale che per le preziose informazioni che egli fornisce al suo corrispondente. Le prime due risalgono al 1948 (19 gennaio, la prima e 20 febbraio, la seconda), la terza al 19 gennaio 1961. Solo la prima è stata pubblicata, ma senza il necessario approfondimento critico nel 1998 e non su una rivista specializzata ma su un periodico edito dalla Banca di un piccolo centro salentino, Matino, e quindi praticamente sconosciuta[1], le altre due sono inedite.

1. Ma, prima di entrare nel merito del contenuto delle missive, mi sembra opportuno presentare, sia pure sinteticamente, la figura di Vittorio Pagano che certo non è notissima presso gli studiosi anche se meriterebbe senza dubbio maggiore attenzione. Pagano nacque nel 1919 a Lecce dove visse e operò per tutta la sua vita e dove morì nel 1979. Giovanissimo, nel 1942, incomincia a collaborare, con versi e prose creative, a “Vedetta mediterranea”, un settimanale la cui terza pagina, l’anno prima, per i primi dodici numeri era stata curata da Vittorio Bodini e Oreste Macrì prima di essere soppressa in quanto non in linea con le direttive del regime fascista in campo culturale  e affidata ad altri meno validi collaboratori. Poi, nel 1947, insieme a Cesare Massa, Oreste Macrì, Giacinto Spagnoletti e Marcella Romano, la sua fidanzata, che fungeva da segretaria, entra a far parte del Comitato di redazione di un altro periodico leccese “Libera Voce”, fondato nel 1943 subito dopo la Liberazione, che va avanti fino a quell’anno. Tra i collaboratori di questo settimanale, oltre a Macrì e Spagnoletti, figurano Mario Luzi, Piero Bigongiari, Carlo Bo, Giorgio Caproni, Leonardo Sinisgalli, Luciano Anceschi e anche Ungaretti che vi pubblicò una prosa in occasione della sua venuta a Lecce sempre nel 1947 per una conferenza. Negli anni ’50-’60 Pagano collabora pure alla rivista “L’Albero” fondata da Girolamo Comi col quale ebbe uno stretto rapporto. E proprio nelle Edizioni dell’“Albero”, dirette da Comi, nel 1957, pubblica la sua opera più importante nel campo delle traduzioni, l’Antologia dei poeti maledetti, versioni metriche dei principali poeti simbolisti francesi apprezzata anche dagli specialisti e recentemente ripubblicata[2].

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Inchiostri 58. Sulle soglie, in ascolto

di Antonio Devicienti

Ho vissuto in antiche case che avevano tutte delle nicchie nei muri: esse erano dipinte a calce bianca, qualcuna aveva un ripiano di legno, spesso una stoffa di lino bianco posava sulle parti orizzontali della nicchia che ospitava il pane della settimana o le farine, i legumi o le conserve; una tendina proteggeva l’incavo nella parete e il suo contenuto.

Un significato particolare possedeva la nicchia (mi piace pensarla direttamente derivata dal larario romano) con le foto e i ritratti dei defunti della famiglia; spesso vi ardeva un lumino o una lampadina votiva.

Quello spazio-nicchia ancora mi invita ospitale assumendo, ai miei occhi, il sacro valore di umile e nobilissimo luogo di memoria contadina: ricordando quattro versi di Vittorio Bodini tratti dalla Luna dei Borboni e che amo moltissimo (sulle soglie, in ascolto, antiche donne sedute / (o macchie che la luna ripercuote nell’aria) / socchiudono pupille di un’astratta durezza / dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi) li trascrivo in questo virtuale foglio-messaggio ripiegato in quattro parti accanto al quale immagino posato un sasso, in ascolto.

Attende di essere preso, dispiegato, letto, ripiegato, riposto nello spazio-tempo della nicchia.

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Il boom turistico e il diritto alla casa e allo studio

di Guglielmo Forges Davanzati

Nella nostra regione, Bari e (soprattutto) Lecce hanno subito, negli ultimi venti anni in particolare, un processo di turistizzazione, ovvero di crescita disordinata di afflussi turistici che, molto spesso, hanno deturpato il paesaggio e l’ambiente locale, con un forte impatto antropico sul territorio, senza produrre le condizioni per una crescita autopropulsiva di lungo periodo. Il problema degli affitti agli studenti ne è un triste corollario. Ricerche effettuate dall’Università del Salento hanno messo in evidenza che, a metà degli anni Duemila, in particolare nel 2005, esistevano, a Lecce, ben 92 bed and breakfast e che (su fonte AirBnb), ad oggi esistono ben 1733 annunci per locazioni di breve termine. Si tratta molto spesso di strutture di accoglienza formate da interi appartamenti e non solo da singole stanze per la notte. E’ evidente, in questo scenario, che l’offerta per gli studenti – e dunque, la tutela del duplice diritto costituzionale allo studio e alla casa – ne risente, in quanto si riduce drasticamente. Infatti, su fonte Agenzia delle Entrate, i costi di locazione residenziali a Lecce sono aumentati del 23% dal 2014 al 2021 nel solo centro storico, trascinando con sé aumenti in tutti i quartieri della città. In più, la turistizzazione della Puglia accresce le diseguaglianze distributive interne, come certificato dall’aumento rilevante delle rendite fondiarie dei pochi proprietari di B&B nelle nostre città, spesso proprio a danno degli studenti, costretti – quasi sempre a nero – a lavorare nei lidi balneari e nei ristoranti. Ciò accade in un contesto nel quale la spesa pubblica per “housing sociale” è, in Italia, di gran lunga inferiore alla media europea e le tasse di iscrizione all’Università sono maggiori.

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