Noterellando… Costume e malcostume 5. Giungla d’asfalto

di Antonio Mele / Melanton

Siamo troppi. E tutti in mezzo alla strada. Sia in senso metaforico (con questa crisi che ormai ci accompagna dovunque) sia nella realtà.

La strada, le strade, sono piene di noi. Di noi, inscatolati dentro le nostre automobiline o automobilone, in costante e frenetico movimento. Tutti in pista. E dicendo tutti, s’intende proprio tutti: secondo le stime più aggiornate 50 milioni di veicoli (mezzi pesanti compresi), circolanti nella Penisola da Nord a Sud a Est a Ovest, e viceversa.

A Roma, la media delle sole automobili è di 1,1 per abitante: il che vuol dire che ogni dieci abitanti ce n’è uno (e non sono io, lo giuro!) che di automobili ne possiede due. Magari una con targa pari e l’altra con targa dispari, così è libero di muoversi anche in quelle non rare occasioni, in cui nell’area del centro storico della Capitale si può circolare soltanto a targhe alterne.

Di fatto, nel nostro Paese il rapporto tra numero di veicoli e popolazione è fra i più alti della Comunità europea. Le nostre città sono ormai metallizzate e paralizzate. Con buona pace di tutti quegli aggeggi sofisticatissimi (e spesso costosissimi) a corredo delle vetture, che in città diventano praticamente inutilizzabili. Il paradosso, infatti, è che le nostre automobiline o automobilone sono tutte super-accessoriate: telefono, radio, televisore, frigorifero, computer di bordo, navigatore, cruise control, sensori, fari orientabili, camera da letto, soggiorno, doppi servizi e cantina. Che manca?

Ve lo dico io che cosa manca: il guidatore.

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Manco p’a capa 193. Stiamo linciando la natura

di Ferdinando Boero

L’11 aprile 1991, davanti ad Arenzano, a pochi chilometri da Genova, affonda la petroliera Haven, sversando 144.000 tonnellate di petrolio. L’Amoco Cadiz ne sversò 223.000 in Bretagna. La Torrey Canyon 119.000 nelle Isole Scilly. Bazzecole, rispetto all’oltre un milione di tonnellate dispersi nel Golfo del Messico dalla piattaforma Deepwater Horizon. A questi fenomeni acuti si accompagnano quelli cronici. In Liguria, negli anni sessanta e settanta, si andava al mare con una bottiglietta di solvente. Le spiagge erano piene di catrame, e il petrolio galleggiava in lunghe strisce. Capitava di tentare di attraversarle, nuotando sott’acqua, magari uscendo nel bel mezzo di una chiazza: una gioia per i capelli. Quel petrolio veniva dal lavaggio dei serbatoi delle petroliere. Dopo la crisi petrolifera il fenomeno si arrestò: non conveniva buttare a mare il petrolio.
Quei disastri, e molti altri, hanno portato a gravissimi fenomeni acuti e molti ricordano le immagini dei pellicani o dei gabbiani intrappolati dal catrame. O le spiagge tutte nere. Avvenne lo stesso anche con la Haven.

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Sugli scogli 10. Tra Sant’Emiliano e Porto Badisco

di Nello De Pascalis

          Gli scrutini andavano a rilento per discutibili prese di posizione di alcuni docenti per i quali la ‘proposta di voto’ era intesa come voto inattaccabile. Saltò, quindi, ogni scaletta e presto le palme nane di fronte divennero sagome informi. Scrutinavo da ore quel sabato e la mia insofferenza era palpabile. “Cos’hai? Impegni?”, mi fa un collega. Resto sul generico e gli dico di commissioni che rischiavo di non assolvere. Le operazioni poi si conclusero e, con sollievo, ognuno di noi lasciò il posto ad altri colleghi.

          L’unico impegno che avevo era quello di scollinare tra Sant’Emiliano e Badisco con l’amico Fernando, sempre pronto ad assecondare le mie ‘follie’, epiche e stupide, ancorché condivise, di cui è artefice la parte meno razionale di me. Siamo due ultracinquantenni che non maturano e vanno per le coste più impervie e di notte, senza mettere in preventivo multe, incontri con malavitosi, malori. Partiamo. Un bel tratto di strada e scogliere accidentate ci aspettano e una notte sul mare. Vado piano, nessuno mi mette fretta, e assaporo meglio il piacere della mia libertà. Sulla Maglie-Otranto, sparute auto salgono dalla marina; Giurdignano è quasi deserta quando l’attraversiamo, Badisco desolata. Da qui prendiamo la panoramica che porta ad Otranto, poi a destra per un viottolo tracciato da pescatori o da chi va a diporto; attraversiamo una pinetina dove in altri tempi ho cacciato, un sentiero ciottoloso alla cui estremità due colonne bianche interrompono la continuità d’un muro a secco. Ci fermiamo su una radura che confina con basse scogliere. Resta un tratto difficile da fare a piedi: scogli aguzzi, quasi a strapiombo, che superiamo indenni. Che fatica!

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Inchiostri 114. I solchi di Raoul Ubac

di Antonio Devicienti

Solchi: nelle incisioni, nelle litografie, nelle sculture che Ubac realizza.
Solchi, appunto: linee parallele, tracciate secondo musicali variazioni, andanze del pensiero, emersione allo sguardo delle direzioni che la materia lavorata assume se il pensiero interviene e crea.
Solchi e ardesia, ché l’artista predilige, tra le altre, questa pietra, splendida materia per coprire tetti o creare pavimentazioni. Crea anche stampe da matrici di ardesia.
Scrive André Frénaud, dedicando i suoi versi a Ubac:

DIEUDONNÉ
ou
LES TRACES

Semailles et blessures, ornières et sillons,
les raies de la lumière ou les rides des morts
sur l’homme et sur le sol,
mêmes traces de l’affrontement multiple,
va-et-vient de l’agonique primordial

(in Nul ne s’égare précédé de Hæres, Gallimard, Paris 2006, p. 139)

DIEUDONNÉ
ovvero
LE TRACCE

Semine e ferite, incisioni e solchi,
le righe della luce o le rughe dei morti
sull’uomo e sul suolo,
stesse tracce dello scontro multiplo,
andirivieni dell’agonico primordiale.

(Dieudonné è la località nell’Oise dove Ubac acquistò, nel 1958, una casa che divenne il suo studio, meta di artisti e di intellettuali e questi versi di Frénaud appartengono alla raccolta Alentour de la montagne, un gruppo di poesie che sarà pubblicato insieme con le stampe di Ubac nel 1980).

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 29. Donna seduta con farfalle

2010, Matita, acquerello e stucco, cm. 30 X 40.
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Il decentramento che non serve al Mezzogiorno

di Guglielmo Forges Davanzati

Uno dei principali problemi del progetto dell’autonomia differenziata sta nel fatto che questo progetto fotografa l’esistente, per quanto attiene alla struttura produttiva e alla specializzazione produttiva dell’economia meridionale, e blocca qualunque ipotesi di suo sviluppo autonomo. La riforma, infatti, è basata sull’assunto per il quale è la sola responsabilizzazione delle classi dirigenti del Sud che può trainarne la crescita economica, tramite un uso più efficiente della spesa pubblica. A ciò si aggiunge la ripresa dell’argomentazione, tipicamente leghista, del Mezzogiorno sussidiato.

Occorre, dunque, fare chiarezza su queste due tesi, basandosi sull’evidenza empirica e sulla letteratura economica sull’argomento.

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Due poesie e due prose

di Renzo Giannoccolo

I sogni e le utopie

mi evitano le offese

sempre più graffianti

che il tempo scolpisce.

Quando penso vedo te

non sento i solchi

sempre più profondi

che il corpo non nasconde.

Lasciarsi andare ora

per non pensare

agli anni senza confine

che passano come ferite.

E ribellarsi sempre

all’indifferenza

cieca e soffocante

che non ti lascia alibi.

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Jannik Sinner e i molti giovani umili campioni come lui

di Antonio Errico

Si capisce sempre all’ultimo rigore, all’ultimo gong sul ring, sulla linea dell’ultimo traguardo, quando si prende l’ultima curva della pista, quando finisce l’ultima scalata della roccia.  La grandezza di un campione si capisce sempre alla fine: quando il gioco è  tutto già giocato. Si capisce dall’eleganza della conclusione. Dalla sobrietà dello stile.  Dalla dignità.  Jannik Sinner è un’eccezione. La sua grandezza di campione si capisce dal principio. Ha detto che non gioca per la storia, ma per se stesso. Sul piano tecnico bastano poche parole: le ha dette Adriano Panatta, uno che di tennis ne capisce: Sinner è un alieno. Così ha detto, scherzando, ma non troppo. La sua grandezza si capisce dal principio, allora. Perché questo ragazzo di ventidue anni, ha una serietà, una compostezza, una riservatezza affascinanti. Poteva prendersi il palco di Sanremo. Ha detto di no; non voleva distrarsi, doveva lavorare. Sa che per durare ci vuole disciplina, perseveranza, costanza. Si racconta che per arrivare in tempo a scuola prendesse il treno prima dell’alba, che facesse più compiti di quanti ne dovesse fare.

Ma soprattutto è di un’umiltà che sbalordisce. Jannik ha compreso perfettamente che avventure straordinarie come le sue hanno bisogno di passione, sacrificio,  dedizione, preparazione, umiltà. Anche fortuna, certo.  Ma della fortuna non ci si può fidare.  Quella a volte gioca al tuo fianco, a volte a fianco dell’avversario che hai davanti. Non ci si può fidare.

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«Una chiara comprensione e affettuosa bontà»: Pietro Marti e Vittorio Bodini (Parte seconda)

di Antonio Lucio Giannone

Sempre nel 1932 Bodini collaborò col nonno in occasione di un numero speciale del giornale dedicato a Quinto Ennio, del quale quell’anno si celebrava il ventunesimo centenario della morte. A questo numero della «Voce del Salento», che venne pubblicato anche come opuscolo autonomo[1], collaborarono: Gregorio Carruggio, con una poesia dal tono enfatico; Pietro Marti con due articoli, La vita e Bibliografia salentina; Luigi Marti con L’opera; Luigi Bianchi con L’esame delle opere, e appunto Vittorio Bodini con L’anima di Ennio. In quest’ultimo contributo, l’autore, coerentemente con le sue idee d’avanguardia, metteva in rilievo soprattutto l’aspetto di “novatore” di Ennio, cioè «la rivoluzione razionalistica dello spirito romano, in cui consiste non poca parte del suo valore storico». E  subito dopo così elencava gli elementi «nuovi e contrari» presenti nella sua opera che contribuirono a svecchiare la virtus romana: «la coscienza dell’individuo, la chiarezza della filosofia razionalista, cioè la critica al pregiudizio religioso e pseudoreligioso, la dignità e preponderanza del pensiero sulla materia, una più ampia prospettiva spirituale»[2].

Nel 1932 Bodini pubblicò alcuni scritti anche sul settimanale «Voce del Popolo» di Taranto, spinto probabilmente sempre da Marti che conosceva bene l’ambiente culturale e giornalistico cittadino, essendo stato preside di una scuola e avendo fondato lì alcune testate tra il 1897 e il 1900. In particolare, su quel periodico uscirono sei pezzi in tutto (cinque articoli e una recensione), quattro dei quali appartenenti a una rubrica, intitolata Lettere leccesi, sorta di brillanti corrispondenze di carattere informativo sulla situazione culturale del capoluogo salentino all’inizio degli anni Trenta e su avvenimenti di vario genere[3]. Uno di questi articoli è intitolato Paesaggio letterario, ed è una sintetica presentazione dell’ambiente letterario leccese e dei suoi principali rappresentanti, ognuno dei quali viene associato originalmente al suo posto abituale di lavoro  o di ritrovo, come in una ipotetica mappa dell’intellighenzia locale ad uso dei lettori forestieri.

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Rieti e il Velino, il suo fiume

Foto di Letizia Lombardo.
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Rime e prose di Renzo Giannoccolo

di Antonio Di Seclì

In fondo al volumetto di Renzo Giannoccolo, Di rima e di prosa, Udine, Poesia Kappa Vu, 2023, pp.145, il lettore vi trova sistemate alcune prose dal respiro civile che giustificano parte del titolo e che pacificano la creatività sociale dell’autore. Invero, il volume è di poesia. Poesia tanta, agile e vibrante.

La maggior parte delle prose, dicevo, sono state raccolte nel capitolo VIII, l’ultimo. Prose alle quali l’autore tiene profondamente perché segni di vissuti importanti: vissuti sostanziati da militanza sociale. Ma anche prose per così dire poetiche che incrociamo a pagina 100, dove l’ispirazione trae nutrimento dal senso del tempo che trascolora e l’armonia del ‘tuo corpo’ che ‘regala sempre una nuova verità’; o che ancor prima rintracciamo nel capitolo II rivolto Al mio amico con il convincimento che l’amicizia trapassa l’amore [nonostante Amor omnia vincit].

Eppure, per quanto la scrittura delle prose non sia stata propriamente determinata da un’urgenza poetica, la parola svela e si addensa anche in delicati tocchi letterari affidati a echi di momenti esistenziali: <<Non so se il vento fischia ancora …. abbiamo scarpe belle e lucide, e poche donne che ci donano un sospir…>> (p.135); <<Ombre tante, troppe e luci … tutte da cercare>> (p.141); <<Continueremo … ad impegnarci in questa direzione … per una vera repubblica fondata sul lavoro. Ma un lavoro sicuro! >> (p.143) in La CGIL; o viene affidata a timide figure retoriche o a singoli fonemi ed altro ancora in Il mio amico: <<Il mio amico ama la musica … Il mio amico è un romantico … Il mio amico ha sonno >>[p.32]; << e quando tutto pare perduto/ecco un giorno mai vissuto >> (p.36).

Nei restanti capitoli, qui in ordine, titolati Amici miei – Cattivi pensieri – Insonnie – Frammenti – Lor Signore – I tre moschettieri, si legge esclusivamente poesia.

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Manco p’a capa 192. L’inverno demografico

di Ferdinando Boero

Le grida d’allarme sull’inverno demografico si basano su ragionamenti distinti che meritano di essere collegati. Ad esempio, molti dicono che non sia un problema se siamo otto miliardi: ci stabilizzeremo a dieci miliardi. Domanda: come facciamo a stabilizzarci se continuano a dirci che dobbiamo fare più figli? Che ragionamento! “Loro” devono fare meno figli, noi ne dobbiamo fare di più! In Italia siamo un po’ meno di sessanta milioni: dobbiamo aumentare! Quanti abitanti può contenere il nostro paese? Cento, duecento milioni? Nessuno è così matto da auspicarlo: siamo già troppi. L’unico modo per non aumentare è figliare meno. E questo vale anche a livello globale. Ma così siamo un paese di anziani! Beata l’Africa: tanti giovani e pochi anziani! Ehi! ci sono pochi anziani perché la loro vita media è inferiore rispetto alla nostra: i nostri giovani diventano anziani, altrove muoiono prima di diventarlo. E’ normale che se ci si stabilizza, facendo meno figli, ci sia un periodo in cui gli anziani prevalgono: quando noi figli del boom demografico moriremo, i rapporti si stabilizzeranno. E, allora, chi paga le pensioni? Le trattenute pensionistiche dovrebbero essere utilizzate per la pensione chi le ha versate (io ho versato per 50 anni), invece sono state usate per altro, nella speranza di avere sempre più lavoratori a versare, un’aspettativa disattesa.

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Parole, parole, parole 13. Gli studenti non conoscono l’italiano

di Rosario Coluccia

Lo denunciano i maestri delle elementari, si lamentano i professori della scuola secondaria inferiore e superiore, la situazione non migliora all’università. Alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Dopo molti anni di scuola le carenze linguistiche degli studenti (grammatica, sintassi, lessico) sono evidenti, con errori che non tollereremmo in terza elementare. Non possiamo chiudere ancora gli occhi. Dobbiamo porci come obbiettivo urgente il raggiungimento di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti.

È un fatto, gli studenti non conoscono l’italiano in maniera soddisfacente. Il parco dei vocaboli da loro posseduti è ridotto; risulta ignoto il significato di parole mediamente colte come contrito, dirimere, emaciato, fandonia, fronzolo, improntitudine, stantio. Perfino nelle tesi di laurea universitarie si fanno errori. E anche oltre, molto spesso. Al proposito mi permetto di raccontare un episodio recente, non inventato. Un’università che non è corretto nominare mi ha chiesto di giudicare una tesi di dottorato di ricerca. In Italia la tesi di dottorato si fa dopo aver conseguito la laurea magistrale e il candidato impiega almeno tre anni (anche quattro, se è necessaria una proroga) per redigere il proprio lavoro. Al termine, gli esaminatori devono decidere se la tesi è valida (e in tal caso il candidato ottiene il titolo di dottore di ricerca) o se è insufficiente. Il lavoro che dovevo giudicare non era perfetto, c’erano errori e imperfezioni. Alla fine ho dato un giudizio positivo, nonostante qualche difetto. Aveva un pregio, che ho voluto sottolineare: «La tesi è scritta in buon italiano». Questa considerazione è banale e l’uso di un buon italiano in una tesi di dottorato dovrebbe essere scontato. Ma tale non è, considerati i tempi.

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Nuove Segnalazioni Bibliografiche 27. La gloria della lingua

di Gianluca Virgilio

La gloria della lingua. La gloria della lingua è un’espressione che usa Dante in Purgatorio XI, dove Oderisi da Gubbio sconta il peccato della superbia per la sua maestria nell’arte della miniatura. Allo stesso modo, i poeti – e Dante per primo – sono a rischio punizione perché altro vanto essi non hanno se non questo, la gloria della lingua. E tuttavia, se dalla superbia bisogna giustamente guardarsi, sarà bene non trascurare l’ambito in cui si manifesta l’essenza dell’essere umano: la lingua. Dante ci insegna che la lingua non bisogna solo parlarla (e scriverla), ma su di essa va esercitata la riflessione, com’egli fece nel De vulgari eloquentia, andando alla ricerca della pantera che lascia il suo profumo ovunque e non si trova da nessuna parte, ovvero il volgare illustre, la lingua italiana. Ed è esattamente quello che fa Rosario Coluccia nel suo libro Conosciamo l’Italiano? Usi, abusi e dubbi della lingua, edito dall’Accademia della Crusca, Firenze 2020: “Risulta naturale riflettere sulla lingua, nostra e degli altri. Dove sta andando l’italiano?” (p. 5). Questo è l’oggetto dell’indagine.

Rosario Coluccia è professore emerito di Linguistica dell’Università del Salento e uno dei cento membri della famosa Accademia della Crusca, che dal 1583 a Firenze vigila e preserva la lingua italiana. Nessun purismo, per carità! Ma solo un’attenta valutazione dello stato attuale della lingua italiana, la nostra lingua madre, nella quale tutti noi ci esprimiamo. “Raggiunta l’unificazione linguistica, sulla scena della lingua si affacciano nuove questioni. L’ingresso incontrollato di parole straniere, il nuovo italiano che ragazzi e adulti adottano per gli sms e per i diversi canali della comunicazione in rete, la presenza di forme sciatte e spesso francamente errate, non solo nel parlato e nello scritto informale ma anche nell’italiano dei media, nei discorsi politici, nella comunicazione istituzionale e nelle circolari ministeriali ecc. Bisogna opporsi alla deriva. Vanno difese la comprensibilità, la correttezza e la bellezza della lingua, senza irrigidirsi in aprioristiche negazioni dei fermenti che la percorrono e nello stesso tempo evitando di cedere al pressapochismo agrammaticale che ignora la storia e anche la funzionalità” (p. 7).

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Un pazzo si aggira per questo romanzo

di Adele Errico

Cinque personaggi di un romanzo si muovono tetri e silenziosi come ombre su un carretto sventurato che va dalla campagna alla città, trasportando per dieci giorni una bara. La bara contiene Addie Bundren, madre di quattro di loro e moglie del quinto. Jewel, Darl, Dewey Dell e Vardaman sono i suoi figli, Anse è suo marito. Ambientato nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha, il romanzo è Mentre morivo di William Faulkner. Tra i cinque personaggi che si muovono verso Jefferson, città della contea in cui Addie deve essere sepolta, tutti arriveranno a destinazione tranne uno, dal momento che, pericolosamente traballante sul baratro della follia, sarà messo su un treno diretto al manicomio prima dell’arrivo a Jefferson. Dunque, un pazzo si aggira per questo romanzo: Darl Bundren, definito da Harold Bloom “un visionario che alla fine oltrepassa la soglia della pazzia” (Come si legge un libro, Rizzoli 2000, p. 307). È da notare, però, che la follia di Darl non è palese fin dall’inizio del romanzo e che, inizialmente, è mascherata da diversità, differenza, discrepanza rispetto  agli altri membri della famiglia. Sotto quest’ottica, allora, Mentre morivo (Adelphi, 2000) si può leggere come un giallo nel quale sono disseminati indizi non di colpevolezza ma di malattia mentale: l’obiettivo non è scoprire chi sia il colpevole ma chi sia il folle. E gli indizi vanno scovati nell’intricata polifonia delle voci monologanti dei pellegrini che raccontano l’oscura avventura e, contemporaneamente, ciascuno il proprio mondo interiore convulso e contorto, chiusi nell’egoistica morsa della propria tragedia personale. Darl si fa carico del primo monologo e di diciannove dei cinquantanove monologhi totali. Il primo spiraglio sul mondo dei Bundren avviene passando per la sua voce: “Jewel e io veniamo su dal campo per il sentiero, uno dietro l’altro. Benché io sia cinque metri avanti a lui, uno che ci guardasse dalla baracca del cotone vedrebbe il cappello di paglia di Jewel, sfondato e sfilacciato, di tutta una testa sopra il mio” (p. 11).

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Inchiostri 113. Le macchine di Jean Tinguely

di Antonio Devicienti

Una macchina di Jean Tinguely sembra essere un TESTO del quale vengono evidenziati i meccanismi (le parti interconnesse tra di loro) e i movimenti (le interrelazioni che animano il testo), ogni sua parte è accenno a testi fuori dal testo, ma con esso in relazione (per esempio una catena rimanda alla bicicletta dalla quale proviene, una ruota al suo trattore e via enumerando), così che l’idea tradizionale di TESSITURA si rende visibile nel MONTAGGIO, le parti meccaniche smontate dalle loro posizioni e funzioni originarie assumono nuovi significati e nuovi ruoli, anche ironici e giocosi, ma che, esattamente come il testo letterario, vanno a formare una macchina inutilizzabile per produrre o per muoversi o per spostare merci: si tratta di una “macchina” da un lato fine a sé stessa (ironicamente e programmaticamente inutile), dall’altro capace di provocare riflessioni e che invita a manipolarla, a entrarci dentro, a esplorarne spazi e anfratti solitamente celati alla vista e al tatto.

La natura e lo stato dei singoli pezzi (spesso scarti industriali o derivati da demolizioni oppure da smontaggi e che hanno, quindi, anche un carattere citazionistico) invitano alla contemplazione e, si badi, si contemplano parti di un paesaggio meccanico e artificiale, superfici molate o zigrinate, parti arrugginite o di vernice opacizzata dal tempo e dall’usura – poi si guarda l’insieme che s’impone con l’evidenza dei giunti meccanici e delle cinghie di trasmissione, si osserva il movimento che, nello stesso tempo visibile e invisibile, può esser detto il respiro della macchina.

Tinguely compie un atto di attenzione e di cura nei confronti di pezzi scartati e gettati via, diventati invisibili o, al più, ingombranti e fastidiosi: li raccoglie, li osserva, li ripulisce, dona loro nuova collocazione e nuova vita, li organizza con la rigorosa libertà dell’artista in una comunità di parti capaci di generare qualcosa di nuovo e di inedito. E una macchina può essere costituita anche da parti che sono piume, elementi di porcellana, stoffe, strumenti musicali, fogli di carta, dando vita a creature il cui corpo vive di materiali differenti, ma vive perché si muove e, muovendosi, interloquisce con chi guarda e ascolta, con chi gli gira intorno, con chi se ne lascia incuriosire e chiamare.

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 28. Donna distesa sul terrazzo che si abbronza dietro un lenzuolo di lino

2011, matita e colori acrilici, cm. 30 x 40.
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Presentazione del catalogo “Enzo Guaricci. Natura Scultura” – Bari, 6 aprile 2024

Museo Archeologico di Santa Scolastica, Bari

Sabato 6 aprile 2024, ore 17.30

Sabato 6 aprile 2024, alle ore 17.30, presso il Museo Archeologico Santa Scolastica di Bari, si terrà la presentazione della monografia “Enzo Guaricci. Natura Scultura”, catalogo della retrospettiva dedicata all’artista Enzo Guaricci a cura di Christine Farese Sperken e Roberto Lacarbonara.

Interverranno: Francesca Pietroforte, Consigliera metropolitana delegata ai Beni culturali; Francesco Lombardo, Dirigente del Servizio Beni culturali e ICO; Christine Farese Sperken e Roberto Lacarbonara, curatori della mostra.

Il catalogo, edito da Sfera Edizioni (Bari), documenta l’esposizione ospitata fino al 31 maggio 2024 nelle due sedi museali della Città metropolitana di Bari – Pinacoteca “Corrado Giaquinto” e Museo Archeologico Santa Scolastica – e ricostruisce, con circa cinquanta opere, oltre mezzo secolo di attività artistica dell’artista pugliese, a un anno dalla scomparsa.

Il catalogo contiene, oltre alla documentazione fotografia della mostra e ai testi dei curatori, un contributo critico di Pietro Marino.

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La chiesa che non c’è più: cancellati a Carmiano cinque secoli di storia

di Mario Spedicato        

Chiesa Parrocchiale, P.zza Vittorio Emanuele, Carmiano (Le).

L’identità di un paese si costruisce quasi sempre con l’immagine della sua chiesa più importante. Carmiano ha colpevolmente cancellato nel 1961 l’antica chiesa matrice, perdendo in maniera irrimediabile questo riferimento identitario. Nel panorama salentino è uno dei pochi centri che ha perso il suo primitivo volto. Per un verso fa rabbia, per un altro fa tristezza, ma basterebbe questo solo evento per giudicare l’inadeguatezza della classe dirigente che ha governato il paese negli anni successivi al secondo dopoguerra.

La storia di Carmiano non è possibile raccontarla con una passeggiata nel vecchio agglomerato urbano. Non esiste più il centro storico formatosi nel Cinquecento, l’antica piazza è stata spazzata via per fare posto ad un anonimo incrocio viario, anche le vecchie “curti” sopravvissute all’incuria sono state rimodulate senza alcuna tutela sul piano conservativo, il rifacimento edilizio privo di senso su manufatti d’epoca ha finito per distruggere tutte le più significative tracce del passato, in modo particolare quelle architettonicamente e storicamente rilevanti, ancora custodite fino ai primi decenni del Novecento. Si sono salvate da questo scempio la chiesa dell’Immacolata e, ma solo in parte, il palazzo baronale dei padri Celestini di Santa Croce, anch’esso soggetto a ripetuti adattamenti edilizi che ne hanno alterato l’originario impianto, un accanimento che è continuato fino ai giorni nostri senza trovare una dignitosa e definitiva soluzione, sospesa in attesa di essere chiarita per l’esorbitante richiesta di un privato nei confronti del Comune, nuovo proprietario della struttura, per lavori di consolidamento statico effettuati negli anni appena trascorsi (spero con l’esplicita approvazione e il diretto controllo della sovraintendenza BB.AA., trattandosi di un bene architettonico vincolato).    

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Epatite da virus E (HEV): infezione/malattia emergente/endemica in Europa

di Rocco Orlando

     L’patite da virus E (HEV) è una malattia che colpisce prevalentemente il fegato ed è causata da un virus HEV, identificato per la prima volta nel 1997 nei suini. Trattasi di un virus RNA, e si stima che nel mondo ogni anno circa 20 milioni di persone acquisiscano l’infezione, con oltre tre milioni di sintomatici e 600.000 decessi.

     Nei Paesi in via di sviluppo si verificano diffuse epidemie causate dall’acqua e da alimenti contaminati, nonché dal contatto persona-persona. Nei Paesi occidentali per lungo tempo è stata considerata come malattia legata ai viaggi nelle zone endemiche, ma negli ultimi anni sono stati segnalati casi autoctoni in individui che non avevano mai viaggiato nelle zone endemiche; e si è quindi riscontrato che questi casi erano legati al consumo di carne poco cotta o cruda o non sufficientemente stagionata di animali quali maiale, cinghiale, cervo, coniglio contaminati dal virus. L’aumento di questi casi autoctoni ha spinto l’EASL (European Association Study of the Liver) nel 2018 a redigere delle linee guida nelle quali si raccomanda di testare il virus a tutti i soggetti con sintomi compatibili con epatite, indipendentemente dalla storia di viaggi.

     Anche i casi sporadici sono legati all’ ingestione di acqua contaminata. Il Prof Alessio M. G. Aghemo, responsabile dell’Unità Operativa Epatologica dell’Humanitas University di Milano, sostiene che “Il 5-15% dei maiali è contaminato dal virus dell’epatite E. Nel nostro Paese si tende a non mangiare carne di maiale cruda: gli insaccati sono a minore rischio in quanto hanno un periodo di stagionatura che preserva da possibili contagi”,e ancora: “Vanno evitate quelle forme di salumi crudi spalmabili tipiche di alcune regioni come Lazio, Marche e Abruzzo, che sono le zone con maggior numero di casi di epatite E; il 55 % delle persone intervistate dice di aver consumato carne di maiale, il 18% carne di cinghiale”. Tuttavia, non ci sono dati certi sulla possibile eliminazione del virus con la stagionatura.

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