Le scoperte della scienza e le fiabe nascono da uno stupore

di Antonio  Errico

Quando da bambino andava a letto la sera e faceva un po’ di fatica ad addormentarsi, si metteva a fantasticare sull’universo e su quanto fosse grande il paradiso. Così racconta Heino Falcke nel corso di un’intervista a Paolo Travisi per “Il Messaggero”.

La sua storia comincia da lì, da quelle sere, da quel sonno che non veniva, da quelle fantasie, da quell’immaginare trasognante, leggero.

Heino Falcke ha cinquantasette anni; è professore di Fisica Astroparticellare e Radioastronomia presso l’università Radboud di Nimega; studioso dei buchi neri; ha ricevuto il premio Balzan 2023.

Alla domanda su che cosa accadrà quando spazio e tempo finiranno, risponde che la cosa di cui ha certezza e che l’universo avrà una fine, ogni essere vivente morirà, ogni stella finirà il suo ciclo. Dice che lui, personalmente, è convinto che ci sia un’entità creatrice e che quando tutte le cose avranno una fine, si ritornerà a quell’ entità creatrice. Si tratta di un’idea che nessuna scienza ha possibilità di dimostrare, in alcun modo. Poi, però, aggiunge che tutto questo accadrà tra molto e molto tempo.

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Antonio Prete, Album di un’infanzia nel Salento – Copertino, 2 Dicembre 2023

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Scirocco

di Gianluca Virgilio

Ci sono giorni in cui il sole non si vede, se non a sprazzi. Le nuvole passano veloci una dopo l’altra provenienti da sud-est e non lasciano il tempo all’immaginazione di figurarsi alcuna forma sensibile stampata nel cielo. Pare anzi che siano sconnesse e scontornate come pezzi d’un puzzle che nessuno saprebbe comporre. Portano carichi di umidità e sabbia del deserto che diffondono nell’aria fino a sporcare le strade e le auto in sosta, lasciando una patina di umor nero sulle case e nei giardini che vanno spogliandosi. Dalla Siria alla Libia attraverso il Golfo della Sirte hanno viaggiato nutrendosi di venti mediorientali e sahariani e di vapori marini, trasformandosi in ombre gigantesche, dense come corpi opachi, trattenendo dentro di sé polvere e pioggia e tutti i veleni degli uomini, per liberarne il cielo e scaricarli in terra, da qualche parte. Avanzano sicure, come fossero certe che nessuno può fermarle, annunciate sempre da qualche speaker televisivo che sembra con precisione divinarne l’arrivo; avanzano in ordine sparso, senza un disegno, un fine, a chiazze più o meno scure,  portate da un vento caldo che sa di foglie marce e ricorda la morta estate in decomposizione. 

Se anche te ne stai chiuso in casa, con le tapparelle abbassate, quel vago sentore di putredine ti raggiunge a dense folate che piegano i rami degli alberi, a volte fino a spezzarli, e urtano contro le case, ululando. Il vento della Siria non fischia come la tramontana, ma ha un suono più cupo che intimorisce e frastorna; non sferza, ma percuote con tutto il peso del suo carico gli oggetti consueti, scuotendoli, come un terremoto che metta in dubbio la nostra stessa esistenza. Anche se ti infili nel letto per sfuggirgli, ti raggiunge lo stesso: la coperta umida diventa pesante, il pigiama ti si appiccica alla pelle, la lana è insopportabile, il respiro affannoso, i movimenti del corpo impacciati…

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Trasmissioni radio 11. La casa di Lucugnano

di Antonio Devicienti

Qui la sera continua a scendere dolce e silenziosa, generosa di ombre benigne e malinconiche.

A quest’altezza del Capo di Leuca la luce della mattinata e quindi del pomeriggio, sfolgorante ed esuberante, trascolora lentamente sfumando i celesti della grande cucina, il bianco dei muri, la compattezza dei legni.

L’ininterrotta veglia è quella dei libri negli scaffali e sulla scrivania coi calamai e la macchina per scrivere. In questa casa si continua a pensare l’ansia del dire.

Qui ogni sera gli amici ospitati negli anni della scrittura e dell’ininterrotta conversazione sembrano tornare sfiorando le maniglie delle porte sempre aperte.

Una grande casa nel Sud che guarda la linea dell’orizzonte annerirsi sulla campagna e sul paese: ci sono numeri, figure e libri – qui si vive di sobri equilibri nell’ossame della natura.

Basta qualche fetta di pane abbrustolito e un filo d’olio crudo per cena.

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Per una filosofia della pace

di Giuseppe Spedicato

“Nella storia della filosofia politica esiste una grande filosofia della guerra,

ma non esiste una grande filosofia della pace.”

Norberto Bobbio

Osservando il nostro mondo non possiamo non renderci conto che si va verso una società che sta lasciando l’uomo senza punti di riferimento, sia laici che religiosi e quindi privo di identità sociale. Una società dove l’uomo deve odiare la cultura, deve trasformare le proprie radici culturali in folklore da utilizzare per attrarre turisti, deve pensare che la sua vita non abbia un fine nobile. In buona sostanza si va verso una società dove l’uomo lavora per la propria distruzione.

Nel mondo arabo-islamico si va verso un popolo educato a sacrificare la vita per difendere un presunto dogma religioso, ma poco disponibile a lottare a favore dell’essere umano sofferente anche se islamico. Anche in questa parte di mondo vi è l’incoraggiamento a odiare la cultura e le proprie tradizioni culturali, per sostituirle con i principi consumistici del mondo capitalistico o con principi dottrinali fondamentalisti. Quindi anche in questo caso vi è il tentativo di cancellare l’identità sociale di un popolo per sostituirla con una mediocre e per di più di importazione.

Nel mondo occidentale si avverte una difficoltà a sviluppare il pensiero e quindi a leggere il presente, probabilmente perché sono saltati i capisaldi sui quali poggiava ogni processo di conoscenza. Viviamo sempre di più in un mondo virtuale, meno umano. Finita l’epoca delle “grandi narrazioni” l’uomo è rimasto privo di punti di riferimento, ora regna la solitudine.

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In principio era la grotta

di Francesco D’Andria

La grotta del cavallo a Porto Selvaggio.

C’erano una volta, in Puglia, le “cripte basiliane”. Durante tutto il Medioevo, nelle gravine e lungo i pianori calcarei, le cavità, scavate dalla mano dell’uomo, erano decorate da pitture di stile bizantino, figure raffinate di angeli e santi che sembravano in contrasto con il selvaggio contesto geologico e naturale. Anche per questo furono attribuite all’opera di monaci orientali, eremiti legati alla figura taumaturgica di S. Basilio, vescovo, nel IV secolo, di Cesarea in Cappadocia (l’attuale città turca di Kayseri). Poi, negli anni sessanta del secolo scorso, grazie ad un nuovo approccio storiografico, promosso da Cosimo Damiano Fonseca, ed all’opera di valorizzazione del Circolo “La Scaletta” di Matera, si capì che quelle “cripte” erano soltanto una parte di veri e propri abitati, dei quali esse costituivano i luoghi di culto. Il paesaggio delle gravine, come a Massafra, era dunque testimonianza di una modalità diversa di insediamento, in armonia con le risorse dell’ambiente naturale, e fu coniata la felice espressione di Civiltà rupestre. Ora, con il Convegno della Fondazione San Domenico, Fonseca propone di leggere il fenomeno dell’abitare in grotta in una dimensione diacronica più ampia, e con un approccio antropologico che permetta di risalire alle origini dell”uomo delle caverne”, come avevamo imparato a definirlo nei primi anni di scuola.

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W la fica! Divagazioni letterarie su un etimo controverso

di Paolo Vincenti


Fichi, IV secolo, mosaico, Villa del Casale, Piazza Armerina.

È un titolo ad effetto, certo, di quelli che richiamano e spingono alla lettura. Ma non è forse anche quello che da tanti anni fanno a Marittima di Diso con la loro famosa Festa della fica? Una delle sagre più conosciute e frequentate del Salento, quella di Marittima, che si tiene il 17 agosto, quando orde di famelici turisti si portano nel piccolo borgo leucano attirati dalla dolce tentazione. E del resto, in barba al tasso glicemico, chi potrebbe resistere al richiamo di una simile offerta gastronomica in una sagra che esponeva, fino a qualche anno fa, ben ottanta diverse varietà di fico salentino?[1] E poi, a destare la curiosità del turista, ecco quel malizioso richiamo, nel titolo dell’evento, ai piaceri di Venere che, coniugati con quelli di Pomona, creano un connubio certo irresistibile. E come il richiamo delle sirene dell’Odissea, locali e forestieri si lasciano conquistare dalla fragranza di uno dei frutti più buoni che abbia dato la natura. La festa di Marittima non ha mai trascurato nulla e accanto all’aspetto godereccio è presente anche quello culturale se è vero che il comitato organizzatore della sagra affidò nei primi anni Duemila al biologo Francesco Minonne la cura scientifica della manifestazione con convegni e mostre organizzati con la collaborazione dell’Orto Botanico dell’Università del Salento sulle vecchie varietà di specie fruttifere diffuse nel territorio salentino, sulle quali si sono intrattenuti studiosi ed esperti internazionali. E la fragranza delle “fiche” di Marittima ha varcato anche i confini nazionali ed ha portato al gemellaggio del comune di Diso con la cittadina francese di Vèzenobrsès, situata nel dipartimento del Gard, dove a ottobre si svolgono le “Journées mediterranéennes de la figue”[2]

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Antonio Stanca, Universum A-2

Universum A-2 27-10-2001, olio su MDF, cm 89,6 X 89,6.
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Facciamo chiarezza sul rating all’Italia

di Guglielmo Forges Davanzati

Il Governo canta vittoria per la valutazione fatta dalle agenzie di rating sulla sostenibilità del nostro debito pubblico, ma è vera gloria? C’è da considerare, sulla questione, che la materia è molto tecnica e che verosimilmente la gran parte degli elettori la ritiene confinata al dominio degli addetti ai lavori. Tuttavia, il significato politico della valutazione non dovrebbe sfuggire. A partire dalla ormai celebre dichiarazione di Giorgia Meloni che, pochi anni fa, nel febbraio 2018, ebbe a sottolineare che a lei interessa “la voce dei mercati rionali” non di quelli finanziari. Chiariamo innanzitutto i termini generali del problema. Dall’inizio del Novecento, esistono agenzie private – negli USA – che effettuano valutazioni sulla capacità di rimborso dei debiti. Si chiamano agenzie di rating, i cui nomi più famosi sono Standard and Poor’s e Moody’s. Le valutazioni vengono effettuate con metodi quantitativi o qualitativi, ovvero – in quest’ultimo caso – affidandosi a esperti, in grado di valutare la capacità di un debitore di onorare il prestito. Le agenzie di rating valutano anche le prospettive di crescita, ovvero quello che in gergo è definito “outlook”.

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Il Sud tra mutamento e immobilità: Le parole sono pietre di Carlo Levi (Parte seconda)

di Antonio Lucio Giannone

La Parte seconda del libro non si discosta sostanzialmente da questa impostazione. Qui cambiano soltanto le località della Sicilia visitate e descritte, perché Levi si sposta ora dalla parte occidentale dell’isola (Palermo, Isnello, Lercara) a quella orientale (Catania, Bronte, Aci Trezza). Dapprima quindi parte descrizioni paesaggistiche, annotazioni coloristiche, divagazioni folcloriche (ricordiamo soltanto il brano iniziale, in cui Levi descrive il sorgere dell’alba sulla costa calabrese dal finestrino di un treno in corsa, che è un pezzo di prosa lirica vera e propria) e poi, quasi all’improvviso, riflessioni sulla storia e le condizioni del popolo siciliano. Anche stavolta la diversità del paesaggio sembra quasi preannunciare la scoperta di una realtà diversa, imprevista e imprevedibile. Lasciando la splendida costa di Taormina e spostandosi verso Catania, Levi nota infatti che “a un tratto questo paradiso di verde e d’oro si interrompe in una grande striscia nera, come un immenso nastro di lutto posato sulla terra: è la grande sciara di Mascali, la distesa di lava pietrificata scesa nel 1928 dal lontano cratere fino al mare sommergendo il paese sotto la sua nera onda infocata” (p. 100). Quest’altra faccia, questa faccia nascosta, tragica della Sicilia emerge in occasione della visita al paese di Bronte e al feudo della Ducea, dove egli ha modo di constatare direttamente le condizioni di vita dei braccianti e delle loro famiglie:

“Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride, e il tanfo prende alla gola. Le case, se così si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi di angeli, hanno le pance gonfie per la malaria” (p. 109).

Insomma, commenta lo scrittore, “è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera paradiso” (p. 109), appunto.

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 2. Triste e pensieroso

Matita, 2023, 30 x 35.
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L’invito

di Antonio Prete

I nervi sono trame della lingua,

le ossa sanno il disfacimento, dice,

le pulsazioni graffiano le arterie.

È il tuo corpo l’alfabeto che scrive

il mondo, afferma, e dunque lascia pure

virar tutti i colori verso il neutro,

lascia morir l’idillio d’asfissia,

il tuo cielo, le tue montagne siano

le mute anatomie, e ascolta solo

la musica del sangue nelle vene.

.

È  suadente la voce, eppure penso

a nomi e volti che affollano strade,

corpi tra corpi, sbalzati un istante

sopra la pietra preziosa del tempo,

indecifrate lettere, profili

leggeri più del vento, dolorose

figure, moltitudine in cui il riso

lampeggia a volte oppur l’incantamento,

moltitudine da sempre in cammino

per balze e sabbie al lume delle stelle.

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Manco p’a capa 173. Sbagliando si impara

di Ferdinando Boero

Chiedete come va la pesca a un pescatore di 80 anni: vi dirà che va malissimo e che 60 anni fa era tutto bellissimo. Uno di 70 vi dirà che 50 anni fa era molto meglio. Uno di 60 rimpiangerà il mare di 40 anni fa, e così via: la sindrome dello slittamento dei punti di riferimento. Tutto va per il meglio quando… abbiamo 20 anni. I “vecchi tempi” sono belli per chi, allora, era giovane. I tempi non cambiano, cambiamo noi. I giovani guardano con disgusto ai tempi dei vecchi, e si basano sugli attuali punti di riferimento. Li rimpiangeranno quando saranno vecchi.
“Ai miei tempi” fui sempre rimandato, dalla prima media alla quinta liceo scientifico, bocciato due volte, in seconda liceo e alla maturità. I miei genitori non incolpavano i professori, il colpevole ero io. Mio padre, portuale del porto di Genova, quando fui bocciato alla maturità mi fece fare una giornata di lavoro in porto, a scaricare quarti di bue, con un sacco di juta sulle spalle, entrando e uscendo dal vagone frigorifero dove si caricava la carne. Decisi che sarebbe valsa la pena di impegnarmi di più a scuola. Non percepii le rimandature e le bocciature come ingiustizie. Erano i tempi delle contestazioni e eravamo pronti a pagare il prezzo delle nostre idee controcorrente. Il respingimento (i quadri dicevano: respinto) era parte del gioco. Niente privacy: i risultati erano pubblici. Alla maturità fummo solo in due ad essere bocciati, in tutta la scuola. Un record di cui mi vanto ancora.

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Icilio Vecchiotti

di Gianluca Virgilio

Lezione alle nove del mattino, d’inverno, in una stanza dove sedeva non più di una decina di studenti. Puntuale, il professore, di fronte a noi, dietro la cattedra, con sigaro semispento in bocca, intento a sistemarsi la pettorina bianca sotto il gilet, legata sugli omeri e dietro le spalle, si preparava per la lezione. Avevo l’impressione che stesse ultimando la toilette mattutina, iniziata in una stanza attigua dove forse aveva trascorso la notte. Che abitasse lì il professor Icilio Vecchiotti? Appena pronto, apriva davanti a sé l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio e un quaderno di appunti; poi, con l’indice della mano destra premeva il pulsante d’un suo giocattolo elettrico, un vecchio registratore dalle grandi bobine, che subito cominciavano a ruotare come giostre panoramiche su cui rimaneva incisa la sua voce.

Solo allora la lezione aveva inizio. Tra mille passaggi da una posizione ad un’altra, secondo le distinzioni del metodo dialettico, progrediva la vita dello spirito; promanava da un corpo appesantito dagli anni e dall’immobilità e nutrito di saggezza orientale. Fuori, nello specchio della finestra, un noce alto e spoglio lanciava verso di noi i suoi rami.

Poi, alle undici del mattino, mentre sostavamo in Piazza della Repubblica, da Via Vittorio Veneto lo vedevo scendere lento e pesante, a passi larghi e cadenzati, trasandato nell’abbigliamento, col cappotto sempre aperto e una sciarpona intorno al collo, tutt’uno con la borsa piena di libri. Lo immaginavo trent’anni prima, giovane bohemien, per le strade di Parigi, nel quartiere latino.

[Quel che posso dire, Edit Santoro, Galatina 2016, pp. 165-166]

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Quando la terra trema

di Paolo Vincenti

La terra trema, amore mio.

Ligabue

Purtroppo, con gli sconvolgimenti climatici e i disastri ambientali susseguitisi con una drammatica rapida sequenza negli ultimi anni in Italia e nel mondo stiamo facendo l’abitudine anche agli eventi estremi che con la pervadente iper-informazione sono dettagliatamente documentati dai media. In Italia, solo nel XXI secolo, abbiamo vissuto almeno quattro terremoti di grandi proporzioni che hanno squassato il territorio, seminando morte e distruzione: il terremoto di San Giuliano di Puglia, Molise, del 2002 (magnitudo 5,8 della scala Richter), quello violentissimo dell’Aquila (magnitudo 5,9), del 2009, quello dell’Emilia Romagna del 2012 (magnitudo 5,8), e il più disastroso di tutti per numero di vittime, quello di Amatrice-Accumuli, Lazio, del 2016 (magnitudo 6), per non parlare dei tantissimi eventi sismici, dall’Umbria al Molise, dalla Toscana all’Emilia Romagna alla Campania, che, sebbene di minore impatto, con una magnitudo di almeno 4,0 Richter, hanno comunque creato danni a persone e cose, distrutto le strutture e generato paure e psicosi.

Per quelli come me della generazione degli anni Settanta però, il “battesimo di fuoco” è stato il terremoto dell’Irpinia del 1980 il cui anniversario ricorre fra pochi giorni (23 novembre). Qualche anno fa scrissi questo breve pezzo sull’argomento: Una sera di novembre.

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Il Sud tra mutamento e immobilità: Le parole sono pietre di Carlo Levi (Parte prima)

di Antonio Lucio Giannone

Nell’Introduzione a Le parole sono pietre (1) Carlo Levi chiarisce che questo libro non era stato “concepito in partenza con una sua struttura narrativa”, né era “nato da uno schema preordinato, o da una intuizione unica e fondamentale”, come le sue due precedenti opere, Cristo si è fermato a Eboli e L’orologio, ma era più “semplicemente” il “racconto di tre viaggi in Sicilia e delle cose di laggiù, come possono cadere sotto l’occhio aperto di un viaggiatore senza pregiudizi” (p.12). In effetti il libro, pubblicato nel 1955, si compone di tre lunghi reportages, i primi due già apparsi in periodici tra il 1951 e il ’52, il terzo inedito composto nel ’55, i quali derivano da altrettanti viaggi compiuti in quegli stessi anni dallo scrittore in Sicilia (e infatti il sottotitolo è Tre giornate in Sicilia).

Questi tre scritti rientrano dunque in un preciso genere giornalistico-letterario, il reportage appunto, il resoconto di viaggio, genere al quale appartengono anche i successivi libri di Levi, dedicati all’Unione Sovietica (Il futuro ha un cuore antico, 1956), alla Germania (La doppia notte dei tigli, 1959), alla Sardegna (Tutto il miele è finito, 1964). Si tratta di un genere che ha avuto, com’è noto, grande fortuna nel Novecento, in cui l’intento informativo e documentario (e a volte, come in questo caso, anche di testimonianza e di denuncia) va di pari passo col gusto del pittoresco e del “colore locale”, col piacere di abbandonarsi alle “cose viste”, di ojettiana memoria (2).

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La bellezza ha bisogno di memoria e conoscenza

di Antonio Errico

Le cose che appartengono al mondo e all’uomo che abita il mondo, si trasformano, continuamente. Ma forse quello che si trasforma più di ogni altra cosa è il pensiero, anche quando non si è perfettamente consapevoli che si stia pensando qualcosa di diverso  da quello  che si è pensato un istante prima. Il pensiero si modifica, si integra, si arricchisce, si impoverisce, si riformula, si perfeziona. Cambia. Perché cambiano i sentimenti sui quali riflette, i concetti, le impressioni, le percezioni, le sensazioni, perché cambiano le emozioni, i ricordi, le attese, le prospettive,  le relazioni che si stabiliscono con se stessi e con gli altri, perché lo sguardo scivola su un oggetto, un volto, una luce diversi. Così cambia anche l’idea, il senso, il sentimento della bellezza. Quello che è bello in un tempo, può smettere di esserlo in un tempo diverso. Quello che non è o non sembra bello in un luogo, diventa bello in quello stesso luogo.

Per esempio: una torre di scolta a strapiombo sul mare, lì dove si trova,  non aveva una funzione di bellezza quando è stata innalzata. Aveva altre funzioni. Adesso, per noi, ha la funzione di bellezza che non aveva e non ha più quelle altre che un tempo ha avuto. Anche solo restando dentro i confini di questa terra, si ritrovano esempi a centinaia. Allora ci si potrebbe domandare che cosa di quello che adesso abbiamo intorno e non consideriamo bello, domani o domani l’altro sarà pensato bello da coloro che verranno; quali cose che adesso consideriamo belle diventeranno indifferenti, forse anche insignificanti.   Probabilmente  si tratta di una circostanza  che non è prevedibile, per il fatto che non si può sapere quale sarà il modo in cui cambierà il pensiero nei confronti della bellezza. Forse si può soltanto prevedere che sarà molto diverso dal pensiero di questo tempo.  La dimensione del virtuale e l’intelligenza artificiale  muteranno radicalmente      la visione del mondo,  l’immaginario e il concetto stesso di realtà. Alcune mutazioni  avverranno gradualmente, che forse neanche ce ne accorgeremo. E’ già accaduto, in fondo. Accade ogni giorno. Altre avverranno all’improvviso, per esempio quelle determinate dalle macchine. Anche di questo, in fondo, abbiamo esperienza. 

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Inchiostri 88. Uno specchio per Christian Boltanski

di Antonio Devicienti

(Nota: questi due testi sono stati costruiti in maniera speculare; in entrambi si fa riferimento a diverse opere di Christian Boltanski).

1.

D’ora in poi guarderò ogni camicia smessa, ogni giacca dal bavero logoro, ogni scarpa deformata dal passo come fossero state tue, tutte indossate mentre curvavi gli steli di metallo per appendervi le campanelline-animitas, mentre preparavi quei tuoi lunghissimi nastri di foto, mentre immaginavi i volti delle persone sottratte alle loro case verso la deportazione.

Sbiadendo il ricordo nel tempo diventa traccia o vago indizio, s’inabissa nel mai-stato. Per questo hai fissato trombe del vento in riva al mare, raccolto su di un’isola i battiti del cuore, accomunato gli umani nella fraternità di uno stesso sentire: venire ad ascoltare cuori pulsare, lasciarvi indizi del proprio. Per questo hai acceso luci pulsanti, specchi neri, aperto passaggi di silenzio, immaginato il canto delle balene.

Non nell’illusione di fermare il tempo, perpetuare il ricordo: hai amato così tanto la vita che sapevi ch’è vita anche il trascorrere, lo svanire, il consumarsi – distanza in inesausto andare.

2.

L’arte della distanza t’apparteneva e anche quella del congedo, dell’assenza: l’inesausto andare del consumarsi, dello svanire, del trascorrere era (è) vita. Immersi nel tempo lo percepiamo vento, posizionarsi e trasmigrare di stelle, accendersi e spegnersi di luci pulsanti su specchi neri. E cantano le balene fin dall’inizio del tempo.

Un’isola ricolma di scatole sonore (ritmi cardiaci di fratelli in umanità) è dono, rinnovato dono di risacca e in finibus terrae il vento attraversa grandi trombe di leggenda.

Contro il vetro d’una finestra è rimasto soltanto il riflesso di una vecchia menorah: e del suono d’una campanellina-animita: molte foto, davvero molte, ma la domanda tocca i nomi (come si chiamavano, dove abitavano, che cosa facevano) e torna indietro priva di risposta.

Questa camicia un po’ scolorita, questa scarpa e il suo tacco scheggiato, questa giacca da muratore erano le pagine del tuo pensare, gli sprofondamenti della memoria.

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Ortensio Seclì, Il giardino grande – Casarano, 23 novembre 2023

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Controdizionario della lingua italiana – Intervista a Graziano Gala

di Adele Errico

Un professore entra in una scuola superiore della provincia milanese, il “Marisa Bellisario” di Inzago. In Lombardia non sempre c’è il sole. Lo immagino, questo professore, entrare in classe, il primo giorno di scuola, forse in una giornata grigia, piovosa, con una nebbia che, “pascolianamente”, nasconde le cose lontane. Incontra gli studenti, incontra i loro sguardi. Questo professore si chiama Graziano Gala. Nato a Tricase, autore di due romanzi, “Sangue di Giuda” (minimun fax 2021) e “Ciabatteria Maffei” (Tetra 2023), si trasferisce in Lombardia per insegnare. Gala comprende che ogni studente contiene in sé un mondo che non sempre, però, può essere raccontato attraverso  l’uso di una lingua, alle volte, estranea. Uno strumento comunicativo in cui si è costretti non sempre rappresenta il canale più diretto col cuore, con i nervi, con lo stomaco. Il “Controdizionario della lingua italiana” (Baldini&Castoldi 2023) è un progetto che nasce a scuola e che, ora, regala parole nuove a tutti i “dispersi della parola”.

Come nasce il Controdizionario?

A me una cosa che terrorizza sono le persone che si parlano e non riescono a capirsi: alzano la voce, dimenticano l’ascolto e infine – disperate –  urlano. Credo si possa morire per molto meno. Nelle classi molte volte troviamo casi simili: parole che cadono, orecchie a fatica, eppure la voglia enorme di comunicarsi qualcosa a vicenda. Io li vedevo usare l’italiano come imposizione, come lingua del padrone, franca e di dogana. Mi sono rivisto alla loro età, quando l’espressione del dialetto era tutta vergogna e misura di un certo tenore sociale. Ho chiesto di raccontarmi uno dei termini che tanto riabilitavano a campanella suonata e così ho fatto io con loro. Altri colleghi si sono prestati, e altre classi, fino a 185 discenti nel tempo – prima siamo stati un piccolo articolo su Treccani e un contributo sul settimanale di Repubblica – diventati poi 215 parole pubblicate da Baldini&Castoldi: quando ha chiamato la dottoressa Sgarbi pensavo fosse uno scherzo. Tante pozzanghere che diventano oceano, alunne e alunni sui quali nessuno avrebbe puntato che finiscono in libreria: io vorrei che la scuola fosse questa cosa qui.

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