Intervista ad Antonio Errico in occasione della pubblicazione di Stralune, edito da Manni, 2008

di Gianluca Virgilio

Il titolo del romanzo, Stralune, è già un invito all’interpretazione. Puoi spiegare al lettore un titolo all’apparenza così bizzarro.

Stralune è il senso di un eccesso, l’oltrepassamento di una soglia dell’ordinarietà, della consuetudine. Non è la visibilità delle cose ma la visionarietà. Non è la linearità ma il garbuglio. I personaggi sono attratti  dai fondigli della coscienza. Stralune è un titolo che vorrebbe esprimere  il delirio, dare forma alla sovrabbondanza delle sensazioni e delle emozioni, tradurre l’inquietudine del pensiero, i suoi deragliamenti, i suoi stralunamenti.

Se parli di “garbuglio” io penso subito a Gadda. Ma poi leggo la parola “visionarietà”, e allora penso a Celati e una certa linea emiliana della letteratura attuale. Mi sbaglio? Ti chiedo,  in sostanza, di parlarmi per così dire dei tuoi padri letterari.

Gadda, sì, certamente. Soprattutto La cognizione del dolore. Anche Celati, soprattutto il primo. Confesso di aver letto molto anche se in modo asistematico, disordinato, orientato più dalla passione che da un progetto. I miei padri letterari sono tanti. Se dovessimo riferirci agli italiani, direi subito Consolo, Bonaviri, Bufalino, D’Arrigo, Malerba di cui ho avuto la fortuna di essere amico.  Poi indubbiamente Proust. Credo di avere stratificazioni profonde di autori meridionali, soprattutto poeti, comunque. Dante mi attrae sempre di più. Tutto il Due e Trecento mi attrae sempre di più. Ho letto tutto Pavese in un luglio e agosto, a quindici anni. Poi mai più. Un libro che amo moltissimo è  Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig. Ho letto e leggo molta saggistica letteraria. Mi incantano Virgilio e Omero.

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