Intervista ad Antonio Errico in occasione della pubblicazione di Stralune, edito da Manni, 2008

Il romanzo racconta la storia di un uomo che diserta e torna a casa, allontanandosi dalla guerra. C’è una dimensione simbolica in questa pur esile trama ovvero una tua volontà di rappresentare una condizione universale significativa? Se sì, quale?

Per quanto riguarda il ritorno è tutto simbolico. Ricordo una battuta dell’ Enrico di Ofterdingen di Novalis. Un personaggio chiede ad un altro: dove siete diretti? E quello risponde: sempre verso casa. La diserzione è simbolica. Tutti noi disertiamo o pensiamo di poter riuscire a disertare. Anche la guerra è simbolica. E’ l’eterna guerra che l’uomo combatte tra l’essere e il voler essere. E’ la guerra con il tempo e con il dramma dei compagni che ti lasciano solo lungo la strada. Sì, è tutto simbolico con un’esile trama. Non credo nella trama, che ha uno sviluppo lineare. Credo nel nucleo tematico che scava nella sfera semantica. Non credo tanto nella pietra che si butta sulla superficie del mare quanto nel secchio che si cala nel pozzo.

La tua prosa ha un andamento ritmico che la avvicina molto alla poesia, ed è da questa fusione di poesia e prosa che a mio avviso (ma tu puoi sempre smentirmi) nasce la forte carica patetica (il pathos) del tuo scritto. Come sei giunto a creare questo tipo di prosa-poesia?

Questo tipo di prosa poetica, ritmica, è determinata, a mio avviso, da due componenti: una tensione e una attenzione naturale alla musicalità della scrittura e una posizione diciamo di natura teorica. Sono convinto che le parole esistano già tutte. E’ difficile trovare parole nuove. E’ possibile, invece, organizzarle diversamente, cercare forme più aderenti alla propria visione del mondo e quindi della scrittura e della letteratura. Spesso mi torna in testa quello che diceva Gustave Flaubert: una frase di prosa dev’essere come un bel verso, altrettanto ritmica, altrettanto sonora. Inoltre credo che il romanzo poematico sia una delle forme più coerenti con questi tempi di terzo millennio.

Credi che sia giusto dire, in sede critica, che il pathos della tua prosa sia l’indizio della presenza appena  dissimulata nel testo di un forte autobiografismo?

Stralune non è un romanzo autobiografico. Come non lo era L’ultima caccia di Federico Re. Però forse vale la pena di spendere qualche parola sull’aspetto autobiografico nella scrittura letteraria. Mi viene spesso in mente quell’epigrafe al Male oscuro di Giuseppe Berto che dice: “da quando Flaubert ha detto ‘ Madame Bovary sono io’ ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico”. Ma autobiografico non significa che racconta della sua vita. Significa, secondo me, che, se sta descrivendo un tramonto, non può far altro che descrivere un tramonto che ha visto o che ha sognato o immaginato o che ha sentito descrivere o che ha letto. Questa traduzione in parole di qualcosa che gli è appartenuto è autobiografia. Se sta descrivendo la fisionomia di un personaggio è probabile che in qualche maniera faccia riferimento ai tratti di qualcuno che ha conosciuto. Mi raccontava Luigi Malerba che una volta Calvino gli aveva detto questa frase: mi sarebbe bastato vivere un’ora soltanto per avere materia da raccontare per tutta la vita. Allora, forse sarebbe più coerente parlare di identificazione con il personaggio e porsi la domanda: viene prima l’autore o il personaggio. So perfettamente che è un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina, però, fermandomi un attimo alla mia esperienza di scrittura provo a fare un ragionamento. Io non sono un disertore come non sono mai stato imperatore. Quando ho cominciato a raccontare questi personaggi io non sapevo che cosa avrebbero detto. E’ molto probabile che si siano presi dei miei pensieri come io ho preso i loro. Ma quando in Stralune c’è una donna alla ricerca del padre da cui è stata abbandonata, per esempio, devo dire che non sono stato mai abbandonato da mio padre e non sono nemmeno una donna tradita. Ma per il tempo in cui ho scritto di loro, sono stato ciascuno di loro, come sono stato Federico II. Mi sono sforzato di entrare nelle situazioni che raccontavo e di pensare quello che loro avrebbero potuto pensare. Ecco, allora. Forse il pathos sta nella identificazione. Esprimo una mia modestissima considerazione: la letteratura è sempre una finzione. Anche quando vuole essere autobiografia. Riprendo l’epigrafe di Berto che precisa che, fermo restando il fatto che ogni scrittore è autobiografico “si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone”. Sai perfettamente che ci sono tanti libri che spiegano queste cose della menzogna in letteratura. A me è piaciuto molto un saggio di Mario Lavagetto intitolato La cicatrice di Montaigne.

A proposito della sonorità e della ritmicità della tua prosa, che ho sentito qualche sera fa al  Politeama di Lecce recitata dalla voce degli attori, in che rapporto è la tua prosa con la voce, lo scritto con l’orale? Il tuo lettore è il tipico lettore moderno, il lettore silenzioso, oppure è un lettore ad alta voce, oppure ancora un ascoltatore d’una voce recitata in un luogo pubblico?

Sì, c’è molta voce nella mia scrittura. Che forse è nostalgia della narrazione orale, del racconto fatto per illudere, per addormentare. Mi piace quella figura dello zingaro nel Manoscritto trovato a Saragozza  di Jan Potocki che rimanda sempre il suo racconto all’indomani. Forse inconsciamente cerco di recuperare una voce archetipica che racconta. Non so quale sia la tipologia del mio lettore. Do molta importanza a quello che mi dicono alcuni amici. A proposito di Stralune qualcuno mi ha detto che è un libro da leggere in silenzio, qualcun altro che ha una struttura tipicamente teatrale. Forse dipende dalla sensibilità di ciascuno. Mi interesserebbe sapere cosa ne pensi tu. Io, da lettore di me stesso, non mi posso giudicare perché non riesco a leggere una cosa pubblicata. Prima di pubblicarla leggo, rileggo, cancello, cambio, ricambio. Dopo ho un senso quasi di rifiuto. Però confesso che quando mi capita di sentir leggere alcune pagine, mi piacciono e a volte mi viene il desiderio di andare a leggermele. Poi non lo faccio. Questo per quanto riguarda la narrativa. Un articolo, un saggio, invece, lo rileggo anche con molta attenzione .

Che tu non riesca a rileggere una pagina che hai pubblicato, forse, è un buon segno. Vuol dire che stai pensando ad altro, a scrivere altro. Puoi fare un’anticipazione ai lettori. Insomma, cos’hai in cantiere?

Tra sette, otto mesi vorrei mettere insieme dei saggi sulla scuola già pubblicati in rivista. Poi sto scrivendo una cosa di cui non posso dire nulla, che peraltro sarà pubblicata con uno pseudonimo.

[2009]

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