Ariosto “servo”,  il privilegio d’Ippolito,  il “trionfo” per il poeta  (e altre circostanze)

di Luigi Scorrano

Quando si illustra la vicenda esistenziale e letteraria di uno scrittore, di solito si comincia dai fatti più importanti della vita. Non potrò raccontare la vita dell’Ariosto in così breve tempo; farò dunque soltanto un paio di esempi che ci facciano intravedere la personalità dello scrittore. Dico scrittore e non poeta perché l’attività artistica di Messer Ludovico  se si appunta splendidamente sul poema di Orlando batte anche altri percorsi trattati con lo stesso impegno con il  quale egli tratta la sua opera maggiore. Ariosto è calato profondamente nella vita del suo tempo e occupato nelle incombenze più varie: da quella di scegliere gli accessori adatti a completare le eleganti divise cardinalizie del suo padrone, il cardinale Ippolito d’Este, a quella di mettere in scena commedie proprie e altrui per dilettare la corte. Le commedie dell’Ariosto, circa cinque (e dico circa perché una, I Studenti, non fu completata)  oggi vanno rilette con attenzione . Il Negromante e La Lena affronterebbero oggi con successo la prova del palcoscenico e se ne metterebbe in luce la modernità. Ariosto nella sua vita! Ci è stata tramandata di lui un’immagine piuttosto bonaria: Ludovico della tranquillità, come lo battezzò Antonio Baldini  nel titolo di un suo libro. Ebbe anch’egli le sue difficoltà da affrontare. Era il primogenito della famiglia  e il padre, morendo, gli scaricò addosso un grave peso, una decina tra fratelli e sorelle, che tutti avevano bisogno di mangiare, di vestirsi, di trovare possibilmente un lavoro. Le femmine non lavoravano, ma se volevano sposarsi dovevano costituirsi una dote, ed era una bella rogna! Quando si consumò il divorzio dal cardinale, Ludovico passò al servizio del duca, Alfonso d’Este. Questi trattò piùbenignamente il suo subalterno, ma anche Alfonso non risparmiò al poeta difficoltà gravi, come quando lo nominò governatore della Garfagnana e le rogne furono più di una. Dobbiamo ricordare, con ammirazione, che tra un mugugno e l’altro, tra una arrabbiatura e l’altra Ludovico se la cavò abbastanza bene.

  1. Alla ricerca del lettore

Ma entriamo nel campo della letteratura e cerchiamo di individuare chi è il lettore dell’Ariosto. O l’ascoltatore, poiché lettore del poema è, in realtà, l’autore stesso. Però pensiamo ad un lettore che non si identifichi con l’autore stesso. All’individuazione del proprio lettore procedono sia il Boiardo che l’Ariosto che altri poeti. Il Boiardo individua senza incertezze i suoi lettori o ascoltatori; essi sono rappresentati dall’autore come gruppo sociale eminente (“Signori e cavallier …”). Questi signori e cavalieri  amano essere intrattenuti con una bella istoria che è come la dimostrazione di un assunto universale; ed è questo: alla forza d’Amore nessuno può opporsi vittoriosamente. Anche chi nel mondo è l’uomo più orgoglioso non può sottrarsi alla potenza di Amore; egli  è “da Amor vinto, al tutto subiugato; / né forte braccio, né ardire animoso, / né scudo o maglia, né brando affilato, ( né altra possanza può mai far diffesa / che al fin non sia d’Amor battuta e presa” (OI* = Orlando Innamorato; OF* = Orlando Furioso). Il rinvio petrarchesco alla forza d’Amore e la sottolineatura della sua potenza sono un dato acquisito, né Ariosto si sottrae dal rilevarlo, non solo nel Furioso ma anche nella sua lirica. C’è una tematica nota, un modo di impostarla condiviso. E qui, i poeti lo hanno detto prima ma qui lo ribadiscono, affronteranno una tematica che fino a quel momento non ha trovato chi la trattasse in maniera nuova. “Dirò d’Orlando”, afferma con sicurezza Ludovico, “cosa non detta in prosa mai né in rima …” È un pubblico smaliziato quello che ama ascoltare le belle istorie; ma in questo pubblico chi potremmo con sicurezza individuare come una sorta di lettore ideale?

Ariosto non esita: il suo ascoltatore, unico  si direbbe, è il cardinale Ippolito d’Este, salutato enfaticamente “generosa erculea prole, / ornamento e splendor del secol nostro”, ed allertato all’ascolto delle imprese di Ruggiero, mitico capostipite degli Estensi. Il cardinale sembra l’unico ad essere invitato all’ascolto, se i suoi alti pensieri possano concedere qualche spazio a qualcosa di meno faticoso della politica e accolgano qualcosa di dilettoso come la poesia. Il poema, si direbbe, sembra sia stato scritto unicamente per lui. Nonostante questo, non manca la possibilità che altri ascoltatori possano accedere alla conoscenza delle imprese di Orlando. Naturalmente non manca un pubblico femminile ad ascoltare la narrazione dell’Ariosto e a dilettarsene. La storia patetica di Olimpia abbandonata dal volubile Bireno dà agio all’autore/lettore di sviluppare una perorazione in cui si raccomanda alle donne di non usare troppa corrività davanti ai giuramenti (falsi, ovviamente) degli innamorati (falsi come i loro giuramenti):

E poi che nota l’impietà vi sia

che di tanta bontà  fia a lei mercede,

donne, alcuna di voi mai più non sia

ch’a parole d’amante abbia a dar fede.

L’amante, per aver quel che desia,

senza guardar che Dio tutto ode e vede,

aviluppa promesse e giuramenti,

che tutti spargon poi per l’aria i venti.

I giuramenti e le promesse vanno

dai venti in aria dissipate e sparse,

tosto che tratta questi amanti s’hanno

l’avida sete che gli accese  et arse.

Siate ai pianti et a’ prieghi che vi fanno

per questo esempio a credere più scarse.

Bene è felice quel, donne mie care,

ch’essere accorto all’altrui spese impare.

C’è qualche ostacolo che impedisce chi vuole accostarsi direttamente al poema; farsi lettore per sé, senza che intervenga un lettore estraneo. È il caso di Gianfrancesco Gonzaga, marchese di Mantova, che scrive all’Ariosto una lettera, in data 14 luglio 1512, nella quale esprime il desiderio di farsi lettore del poema. L’Ariosto non concede: si mostra lusingato per l’attenzione portata alla sua opera perché, dice, non è ancora finita o debitamente rifinita e le troppe annotazioni sui bordi delle pagine ne renderebbero faticosa la lettura. Ma il Gonzaga non dubiti: appena alcune parti dell’opera saranno ben sistemate, il poeta si farà premura di offrirle all’illustre interlocutore. E in casa Gonzaga un’altra voce chiedeva la stessa cortesia e riceveva lo stesso garbato rifiuto: quella della moglie del granduca, Isabella d’Este, una delle donne più colte e più culturalmente dotate del Rinascimento. L’ammirazione di Isabella per l’Ariosto era uguale a quella del poeta per la marchesa di Mantova. Ma anche Isabella non ottenne ancora la lettura del poema di Ludovico. Il poeta preferiva tenere al riparo la sua opera, stimando di non averla perfezionata in tutte le sue parti. Ricorderemo che quest’anno il poema ariostesco compie cinquecento anni (e, come si dice in questi casi, non li dimostra). Non a torto il poeta si raffigurava come uno scultore che ha dato le prime scalpellate al marmo dal quale dovrà emergere la statua pensata. Siamo dice l’Ariosto, allo sgrossamento del blocco: ma per continuare e portare a perfezione l‘impresa occorre lavorare di fino:

Levando intanto queste prime rudi

scaglie n’andrò con lo scalpello inetto;

forse che ancor con più solerti studi

poi ridurrò questo lavor perfetto   (c.III)

 

 

2 … l’humil servo vostro

Il poema è un dono: dono da inferiore a superiore, come mettono in chiaro sia la dedica all’interno della parte proemiale  dell’opera sia l’intitolazione frontespiziale: Orlando Furioso di Messer Ludovico Ariosto allo illustrissimo e reverendissimo cardinale Donno Ippolito da Este suo signore”.  Nel poema del Boiardo si direbbe che la condizione servile non ha luogo non fosse per la diversità di ruolo del poeta da una parte e di Ercole I d’Este dall’altra: un rapporto tra pari! La dedica ariostesca ad Ippolito non dissimula, e in un certo senso esalta, la condizione subalterna del poeta. Questi riceve  dal suo signore possibilità di lavoro e protezione, riconosce il bene ricevuto, intende sdebitarsi in qualche modo per non rimanere in obbligo.  Se espone la sua condizione servile, lo fa quale riconoscimento della sua posizione all’interno della corte. Si dichiara al cardinale come “l’umil servo vostro”, con un’espressione  convenzionale: una di quelle espressioni convenzionali nella quale però è possibile sorprendere  una varietà di modulazioni che spoglia le parole della loro convenzionalità per lasciare intravedere, sottesa, una distanza meno rilevante di quelle che esse sembrano indicare. Il voi in esordio dell’Orlando furioso, come quello che riappare insistente nella stessa ottava tende ad ottenere il massimo d’attenzione da parte di quell’unico ascoltatore privilegiato che è Ippolito: “Voi sentirete …”: “ che fu di voi / e dei vostri avi illustri …” “vi farò udir, se voi mi date orecchio”; e vostri alti pensier … A fronte c’è la promessa d’una celebrazione che, come si conviene, è annunciata solennemente  e superbamente definita non tanto in se stessa (“miei versi”) quanto dal luminoso riflesso  che sulla modesta indicazione di proprietà (“miei versi”)  riverberano vocaboli ed espressioni come degnilaudeillustrialto valorechiari gestialti pensier.

Nel canto III del Furioso riappare l’elemento encomiastico: gli Estensi sono salutati “gloriosa stirpe o in pace o in guerra”. L’atteggiamento servile, che al nostro orecchio può sembrare eccessivo, non ha nulla di umiliante; risponde a un ruolo preciso e ne adotta atteggiamenti e linguaggio. L’umil servo ha buone armi da usare con accortezza: esalta la nobiltà al comando dello stato alla quale contrappone la nobiltà della poesia, che ha strumenti diversi da utilizzare per dilettare e persuadere: le astuzie dello stile, la capacità di intrecciare motivi per diverse ragioni attraenti; ad esempio, la regola della variatio capace di trattenere l’attenzione di chi ascolta. Non a caso, nel canto VIII del poema,proprio a un raffronto con l’arte musicale, propriamente con un esecutore musicale, il poeta ricorre per definire i procedimenti della sua narrazione:

— Signor, far mi convien come fa il buono

sonator sopra il suo strumento arguto,

che spesso muta corda e varia suono,

ricercando ora il grave ora l’acuto.

La condizione servile non umilia chi la vive con intelligenza; giova, se mai, a mettere in luce un pacchetto di qualità da contrapporre a quelle del signore di cui si è al servizio. La contrapposizione ha lo scopo di segnare con forza due ambiti: quello del potere politico e della predominanza sociale e quello della letteratura.

Nella sua opera l’Ariosto non appare per nulla propenso ad accogliere con animo lieto la condizione servile. In un passo del canto decimo nono, là dove si narra del “rito strano” celebrato nell’isola delle femmine omicide, la servitù sessuale di coloro che, sbarcati nell’isola, avranno superato le prove alle quali quelle donne li sottomettono, potrebbe sembrare una piacevole forma di soggezione, narrata com’è in un contesto leggero, e invece appare come un rischio da evitare con determinazione:

Non poté Astolfo udire senza risa

de la vicina terra il rito strano.

Sopravien Sansonetto e poi Marfisa,

indi Aquilante e seco il suo germano.

Il padron parimente lor divisa

la causa che dal porto il tien lontano.

—                Voglio (dicea) che inanzi il mar mi affoghi

—                ch’io senta mai di servitude i gioghi.

La prospettiva terrificante del padrone della nave, che riferisce sull’esito delle prove cui vengono sottoposti coloro che cadono nelle mani delle femmine omicide, è una servitù perpetua ed avvilente;

Il padron narrò lui che quella riva

tutta tenean le femmine omicide,

di quai l’antica legge ognun ch’arriva

in perpetuo tien servo o che l’uccide;

e questa sorte solamente schiva

chi nel campo dieci uomini conquide,

e poi la notte può assaggiar nel letto

diece donzelle con carnal diletto.

E se la prima prova gli vien fatta,

e non fornisca la seconda poi,

egli vien morto, e chi è con lui si tratta

da zappatore o da guardian di buoi.

Se di far l’uno e l’altro è persona atta,

impetra libertàde a tutti i suoi;

a sé non già, c’ha da restar marito

di diece donne elette a suo appetito.   (O.F. XIX)

Se una servitù può essere accettata è quella della letteratura, che mette il poeta in grado di sdebitarsi col procurare un beneficio di fama a chi ha procurato un beneficio materiale. Nella Satira I, indirizzata al fratello Alessandro e al suo compare Ludovico da Bagno, l’Ariosto espone con chiarezza la situazione come egli la intende: servo, sì, ma non pronto a tutto sempre e comunque:

Io stando qui farò con chiara tromba

il suo nome sonar forse tanto alto

che tanto mai non si levò colomba. […]

Se avermi dato  onde ogni quattro mesi

ho venticinque scudi, né sì fermi

che molte volte non  mi fien contesi,

mi debbe incatenar, schiavo tenermi,

obligarmi ch’io sudi e tremi senza

respetto alcun , che io moia o ch’io m’infermi,

non gli lasciate aver questa credenza;

ditegli che più tosto ch’esser servo

torrò la povertà in pazienza. […]

Or, conchiudendo, dico che se ‘l sacro

Cardinal comperato avermi stima

con i suoi doni, non mi è acerbo et acro

renderli, e tor la libertà mia prima.

Dentro l’orgogliosa dichiarazione ci sono i malumori del poeta cui il servizio presso il Cardinale Ippolito non ha garantito continua certezza economica. Il servus delle lettere mostra qui, senza le formule d’obbligo, quale faccia abbia la necessità del servire.

La formula di congedo delle lettere varia a seconda del destinatario. Se scrive al Cardinale, il poeta può sembrare troppo enfatico: “Alla quale [Vostra Signoria] post manuum oscula, humiliter mi raccomando”; usa italiano e latino, per esempio scrivendo a Isabella d’Este: “non si scordi che io le sono deditissimo servitore alla quale umilmente mi raccomando” (e ripete questa formula in latino). Per Leone X, l’ex cardinale Giovanni de’ Medici divenuto beatissimus pater, papa, nel mese di marzo del 1513, la deferenza è massima “Alli cui santissimi piedi umilmente mi raccomando” e con la solita aggiunta in latino: “humilis et servus”. Insomma, nel ristretto numero delle formule d’uso, delle quali ho fatto qui solo qualche esempio,si direbbe che l’Ariosto scelga quelle che gli permettono di tipizzare la figura del corrispondente ma intese al tempo stesso ad esercitare anche in questo caso quell’arte della variazione in grado di modulare persino la chiusa convenzionale di una lettera.

 

 

 

3 … seguendo l’istoria

L’ampia tela della narrazione poematica richiede l’interruzione, il respiro necessario tra vari blocchi narrativi. Si tratta di mantenere sempre alta la tensione, alleggerendo il racconto a tratti con inserti moraleggianti o con arguti avvertimenti; mai strettamente con  la misura del canto. Questa è varia, risponde soprattutto alla libertà compositiva dell’autore. Ma essa, si direbbe, risponde soprattutto alla misura del respiro dei canti stessi la cui proporzione non dipende strettamente da un disegno rigidamente preordinato ma da una agevole e libera impostazione. L’istoria sembra trovare le proprie regole; anche una regola dei silenzi là dove l’autore non si preoccupa di spiegar tutto o di esaurire tutto il dicibile di cui dispone. Un esempio è, nel canto XII, la rinuncia a parlare di Angelica perché Ludovico sente il bisogno di dare la precedenza a un cavaliere: di Angelica dirà poi.

Nell’economia della narrazione il taciuto giova ad eliminare particolari indicati come inutili: la bella istoria è fatta anche di accenni rapidi a fatti di cui non si conosce l’esatto svolgimento. Così, ad esempio, non si dà ragione dell’azione di Marfisa e della motivazione per la quale si riprende le armi che riconosce come sue e che ella riconquista con un blitz mentre sta per cominciare una giostra. L’autore sembra chiedere scusa ai suoi lettori o ascoltatori:

Costei vedendo l’arme ch’io v’ho detto

subito n’ebbe conoscenza vera

però che già sue furo, e l’ebbe care

quanto si suol le cose ottime e rare,

ben che l’avea lasciate in su la strada

a quella volta che le fur d’impaccio,

quando per riaver sua buona spada

correa dietro a Brunel degno di laccio.

Questa storia non credo che m’accada

altrimenti narrar; però la taccio.

Da me vi basti intendere a che guisa

quivi trovasse l’arme sue Marfisa (XVIII).

Qui la finta noncuranza per l’episodio di riferimento, il modo in cui Marfisa si trovò nella situazione di dover abbandonare le armi, serve a determinare una silenziosa intesa tra il poeta e il suo pubblico. Coloro cui egli si rivolge avevano potuto conoscere nei suoi particolari quella vicenda, per averne trovata la narrazione nel secondo libro dell’Orlando innamorato. L’Ariosto sa bene di poter contare su un gruppo di persone amanti della poesia, ascoltatori o lettori appassionati di belle istorie. Siano un gruppo di personaggi reali, uomini di corte, o fittizi, immaginati dal poeta come destinatari della sua narrazione, egli ne sollecita l’interesse, ne stimola la curiosità, conta sulla loro presenza e perciò può fissare per essi, con sicurezza, gli appuntamenti per l’ascolto: un avviso posto spesso in posizione strategica alla fine di un canto, come (è solo un esempio) in chiusura del canto XVIII: “Ma chi del canto mio piglia diletto, / un’altra volta ad ascoltarlo aspetto” (XVIII 192).

 

 

 

  1. Le ‘cuciture’ del poema

Un poema da leggere, o da recitare a puntate, doveva contenere degli inviti, al lettore o all’ascoltatore, che convincessero l’ascoltatore unico o un gruppo di lettori o uditori, a ripresentarsi a tempo opportuno per ascoltare come procedevano e come andavano a finire le belle storie abilmente tessute dai poeti. Troviamo il procedimento ampio e visibilissimo sia nell’Orlando innamorato del Boiardo che nel Furioso dell’Ariosto. Si tratta di un procedimento topico, ma che ognuno degli autori che lo usano deve poter ravvivare per mezzo di formule accattivanti, di inviti ai quali è difficile non cedere. Sia il Boiardo che l’Ariosto vi fanno ricorso subito: entrambi già alla fine del primo canto dei rispettivi poemi. Boiardo: “Però un bel fatto potreti sentire / se l’altro canto tornereti a odire”; Ariosto: “Quel che seguì tra questi due superbi / vo’ che per l’altro canto si riserbi”.

Il formulario, osservato nel suo insieme, serve a dare evidenza a quelle che possono essere definite le ‘cuciture’ del poema: sottili raccordi, marchingegni che annunciano episodi dei quali il lettore/ascoltatore deve verificare l’importanza, forme di complicità con il fruitore dell’opera, virtuosismo della variazione su un elemento marginale ma importante se giova a persuadere. Il procedimento appare più meccanico nel Boiardo, più vivace e libero nell’Ariosto. Il Boiardo vuole richiamare l’attenzione su quanto ha detto o dirà, con un raccordo un po’ troppo esibito; l’Ariosto, con più sottile avvertimento, intona l’avvio del secondo canto su una di quelle ‘moralità’  che costituiranno una forma di controcanto ironico a quel che si è narrato o si sta per narrare. Il Boiardo comincia: “Io  vi cantai, segnor, come a battaglia / Eran condotti  con molta arroganza”; e chiude: “Nell’altro canto ve averò contato / se sia concesso dal Segnor supremo, / gran meraviglia e più strana ventura / ch’odisti mai per voce o per scrittura”; l’Ariosto  non ritiene necessario il commento esplicativo e apre il canto con un’apostrofe ad Amore: “Ingiustissimo Amor …” E un più sottile raccordo, nell’Ariosto, rilancia il tema della possibilità di portare a termine il lavoro iniziato se, come si legge in una delle prime battute del canto primo,

da colei che cotal [pazzo per amore] quasi m’ha fatto

che ‘l poco ingegno ad ora ad or mi lima,

me ne sarà però tanto concesso

che mi basti a finir quanto ho promesso.

Più convenzionale l’auspicio del Boiardo, che spera, dal Segnor supremo, la forza occorrente per affrontare la composizione del poema”; e un simile riferimento è anche in un altro passo del Boiardo: “Sì che, signori, ad ascoltar vi aspetto / per farvi di piacer la mente sazia, / se Dio mi serva al fin la usata grazia”. Molti esempi si possono produrre a dare rilievo a quelle che abbiamo detto le ‘cuciture’ del poema.

Sia il Boiardo che l’Ariosto sfruttano il fattore tempo in chiave narrativa. La richiesta dell’Ariosto di una pausa è giustificata mimeticamente dalla lunga tirata  del canto XIV (ben 134 ottave!): una modalità ch’era già nel Boiardo: “Ma questo canto più breve vi tratto / però che l’altro vi fia prolungato / nel racontar d’una lunga novella / che a narrar prese questa damigella”. Ariosto mostra per i suoi lettori/ascoltatori comprensione e delicatezza (e si terrà pure conto che anch’egli ha bisogno di un’interruzione nella lettura. Boiardo è più sbrigativo e noncurante; Ariosto segue la via della amabilità. Boiardo: “Or questo canto è stato lungo molto, / ma a cui dispiace la sua quantitate / lasci una parte e legga la mitate”: Caro lettore, salta pure una metà del canto se ti sei stancato. Bel suggerimento d’autore! Ariosto  si mostra dolente di dover tralasciare tanta amabile materia narrativa e di questo rammarico fa parte al lettore: “Se quanto dir se ne potrebbe, o quanto / io n’ho desir, volessi porre in carte, / ne direi lungamente, ma non tanto / ch’a dir non ne restasse anco gran parte”. Funziona sempre, però, il senso di una rigorosa misura e il raccontatore chiede la collaborazione dei lettori: “Ma voglio questo canto abbia qui fine, / e di quel che voglio io siate contenti; / che miglior cose vi prometto dire, / s’all’altro canto mi verrete a udire”.

L’invito, lasciato in sospeso, deve creare un orizzonte d’attesa tale da non lasciare però deluso il lettore: “Ma lasciate, signor, ch’io mi ripose; / poi dirò quel che ‘l paladin rispose”.

Una tecnica frequente (comune a Boiardo e all’’Ariosto) è la tecnica del differimento (e il verbo differire è frequentemente usato nei poemi dei due autori). Si tratta di non dire subito una cosa che va invece rimandata nella prospettiva di un interesse per la narrazione che deve astutamente essere tenuto sempre alto. Più interessante, accanto alla tecnica del differimento, è quella della distrazione. Il poeta ha promesso di dire qualcosa, ma poi se n’è dimenticato. Un trucco per rendere più acuta la curiosità del lettore. Quello della distrazione è un motivo che meriterebbe un’indagine particolare. Faccio un solo esempio ma singolarissimo all’interno del poema. L’autore dimentica di dire qualcosa su un personaggio: un altro gli è venuto in mente e lui abbandona il primo per interessarsi del secondo. Ma anche questo si trascina un riferimento che dovrebbe essere illustrato subito, ma non tanto velocemente da non inciampare in un nuovo riferimento. Leggo questo “pezzo di bravura” (chiamiamolo così!):

Sovviemmi che cantare io vi dovea

(già lo promisi e poi m’uscì di mente)

d’una sospizion che fatto avea

la bella donna di Ruggier dolente,

de l’altra più spiacevole e più rea,

e di più oscuro e velenoso dente,

che per quel ch’ella udì da Ricciardetto.

a devorare il core entrò nel petto.

Dovea cantare, et altro incominciai

perché Rinaldo in mezzo sopravenne;

e poi Guidon mi diè che fare assai

che tra cammino a bada un pezzo il tenne.

D’una cosa in un’altra in modo entrai

che mal di Bradamante mi sovenne:

soviemmene ora e vo narrare inanti

che di Rinaldo e di Gradasso canti.

Ma bisogna anco, prima  ch’io ne parli,

che d’Agramante io vi ragioni un poco:

Ch’avea ridutte le reliquie in Arli,

che gli restar del gran notturno fuoco

quando a raccor lo sparso campo e a darli

soccorso e vettovaglie era atto il loco:

l’Africa incontra, e la Spagna ha vicina,

et è in sul fiume assiso a la marina. (XXXII)

L’accumulo a cerchi concentrici, si direbbe, non suscita un’impressione di consecutività quanto un curioso effetto di simultaneità: le cose taciute si affollano nella coscienza del poeta tutte nello stesso tempo e il poeta, nella giustificazione che offre dell’averle trascurate si sforza di esibirle con un ordine fittizio. Potremmo dire che abbiamo, già cinque secoli fa, un esempio di simultaneità futurista. Altre formule di raccordo si riferiscono più decisamente  ad un’interruzione del racconto ove la risoluta ripresa non concede spazio al gioco sulle interruzioni: “Ma è tempo ch’anco di Grifon favelli”; “Ma costei lascio e torno a dir di Carlo”; “Ma di Marfisa a raccontarvi torno”. Dentro questa formula per mezzo della quale s’intende condurre il discorso nella sua concretezza, s’inserisce il dialogo con i lettori, ancor più con un interlocutore fittizio, che giova all’animazione narrativa (valga l’esempio dell’inizio del canto XXIV, o quello con Ippolito, il lettore privilegiato:

Varii li effetti son, ma la pazzia

è tutt’una però che li fa uscire.

Gli è come una gran selva, ove la via

conviene a forza, a chi vi va, fallire:

chi su, chi giù, chi qua, chi là travia.

Per concludere in somma, io vi vo’ dire:

a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena

si convengono i ceppi e la catena.

Ben  mi si potria dir: – Frate, tu vai

l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.

Io vi rispondo che comprendo assai,

or che di mente ho lucido intervallo:

et ho gran cura (e spero farlo ormai)

di riposarmi e d’uscir fuor di ballo:

ma tosto far come vorrei non posso

che ‘l male è penetrato fino all’osso.

Signor, ne l’altro canto io vi dicea …

L’autore è sempre dentro la propria finzione, alla quale appartengono sia il dialogo fittizio sia l’apostrofe a un singolo interlocutore o ad un gruppo di ascoltatori/lettori: “Ma saria forse, mentre che diletta / il  mio cantar, consiglio utile e sano / di finirlo, piuttosto che seguire / tanto, che vi annoiasse il troppo dire”. Ad evitare il rischio della noia in agguato, l’Ariosto cerca di ingraziarsi in ogni modo coloro che provano diletto alle sue storie. Non manca l’invito, alle lettrici in particolare, a tralasciare la lettura del canto XXXVIII perché vi si narrerà una storia che mette le donne in una luce sfavorevole. La tipologia di un simile invito, saltare una parte del canto o un canto intero, troverà seguaci in Cervantes e in Manzoni:

Donne, e voi che le donne avete in pregio,

per Dio non date a questa storia orecchia,

a questa che l’ostier dire in dispregio

e in vostra infamia e biasmo s’apparecchia:

ben che né macchia vi può dar né fregio

lingua sì vile, e sia l’usanza vecchia

che ‘l volgare ignorante ognun riprenda,

e parli più di quel che meno intenda.

Lasciate questo canto, che senza esso

può star la storia e non sarà men chiara

Lo scherzo si prolunga nel canto XXIX: la prima battuta è contro quegli uomini che cambiano pensiero ed atteggiamento facilmente soprattutto nei fatti d’amore. Il poeta si fa, perciò, paladino delle donne gentili. Sentir parlare contro di loro lo ritiene quai un’offesa personale:

Donne gentil, per quel ch’al biasmo vostro

parlo contra il dover, sì offeso sono,

che sin che col suo mal non gli dimostro

quanto abbia fatto error non gli perdono.

Io farò sì con penna e con inchiostro,

ch’ognun vedrà che gli era utile e buono

aver taciuto  e mordersi anco poi

prima la lingua, che dir mal di voi. (XXIX)

Ma c’è nel poema una donna che il poeta congeda senza alcun rimpianto: Angelica è questa donna, quella Angelica che apriva il capitolo donne proprio all’inizio del poema. Là l’abbiamo vista in fuga disordinata; qui, trovato il grande amore, a quello si dedica, ma non avrà più l’attenzione del poeta. E questi lo racconta a quel Signore  a cui è riservata la maiuscola; ed è ancora ravvisabile Ippolito: “Quanto, Signore,  ad Angelica accada / dopo che uscì di man del pazzo a tempo, / e come a ritornare in sua contrada /trovasse e buon naviglio e miglior tempo, / e de l’India a Medor desse lo scettro, / forse altri canterà con miglior plettro”.

Gli annunci di cose da dire, a parte quello appena ricordato su Angelica che torna a casa sua, non mancano neanche dopo l’allontanamento della intraprendente principessa. Tutti quelli che sono disseminati nel poema cedono davanti alla vera mirabile sorpresa che il poeta ha preparato per i suoi lettori/ascoltatori nel Canto quarantesimo sesto et ultimo. L’Ariosto vi paragona la sua opera poetica a una navigazione che sta per aver termine. Consulta le sue carte che sono come carte nautiche sulle quali è segnato l’approdo nel porto della conclusione della bella istoria. Ad attenderlo, sulle panchine di quel porto, c’è finalmente quello che egli può avere individuato come il suo vero pubblico: gli estimatori della sua poesia, coloro che ne hanno partecipato  da lettori o ascoltatori il piacere e che ora, andando ad accoglierlo a navigazione conclusa, mostrano la stima con la quale lo hanno seguito durante la difficile traversata. Una stella polare ha brillato sul suo percorso. In chi sia da identificare è un po’ dubbio:il cardinale Ippolito? L’amata Alessandra? Apollo, ispiratore di poesia? Ci sarebbero buone ragioni per ognuno dei tre personaggi, ma lo svolgimento del racconto sembra portare in direzione del cardinale Ippolito. Il privilegio del personaggio si risottolinea per questa via e stringe in unità il dichiarato e più effuso omaggio della celebrazione che il poeta ne fa nell’ultimo canto del poema. Ma nella rappresentazione finale è la quantità e la qualità delle presenze amiche ad occupare festosamente la scena. I nomi si accumulano,  si cantano le qualità di uomini e donne che hanno un posto onorevole nel paese della poesia o della cultura. Questi personaggi sono una folla; si tratta non di pochi rappresentanti della vita culturale dell’epoca. La gioia di vedere l’opera compiuta si espande in un “tuono” di allegrezza. “Belle e sagge donne” sono l’avanguardia  della folla plaudente; la precedenza rispetta il primo posto assegnato alle donne nel primo verso del poema. Le indicazioni non sono generiche; i profili di donne e uomini sono nitidamente tracciati. E almeno per il gruppo femminile vorrei ricordare una delle donne più famose del Rinascimento, quella Giulia Gonzaga nel cui ritratto sembra condensarsi l’essenza della femminilità rinascimentale, quella che merita di grazia e di beltà la prima loda, “Julia Gonzaga, che dovunque il piede / volge, e dovunque i sereni occhi gira / non pur ogni altra di beltà le cede / ma come scesa dal ciel dea, l’ammira”. Ma questi non sono le donne e i cavalieri della fantasia; sono amici che salutano con gioia il ritorno del poeta tra loro.  Grazia, onestà, bellezza, studio della poesia  sono doti che queste donne esercitano; in loro tutto è nobile, elevato, gentile. Si direbbe che la corte, una corte anche più larga di quella estense, una corte ideale, si sia riunita per celebrare l’opera compiuta. Il poeta è al centro della festosa celebrazione; quello che gli si tributa è un “trionfo”. L’umil servo della dedica si ripresenta, al ritorno dalla sua navigazione poetica, come signore della poesia e questo vuol dire il riconoscimento che gli viene da quella schiera  di amici accorsi ad accoglierlo.

Il trionfo decretato al poeta pone questi alla pari del suo ascoltatore socialmente più prestigioso, ma stabilisce, al tempo stesso, il primato della poesia e il riconoscimento che solo essa può assicurare la fama e l’immortalità.

[Lezione tenuta presso l’Università Popolare Aldo Vallone Galatina l”8 novembre 2016]

 

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