Italo Calvino, un autore in veste di lettore

di Luigi Scorrano

Calvino lettore di classici

Ricordo che nel 1995 l’amico bibliotecario Salvatore Matteo m’invitò, a Cutrofiano, a commentare un’opera di Italo Calvino, un romanzo che aveva suscitato molto interesse, Se una notte d’inverno un viaggiatore. Quel romanzo aveva protagonisti un Lettore e una Lettrice: più la seconda che il primo, veramente. A ogni modo poneva, in un intrigante gioco di immaginazione, un tema: quello della lettura.

Non c’è autore italiano del Novecento che (salvo prove in contrario) più di Italo Calvino abbia posto al centro dei suoi interessi la figura del lettore e le modalità della lettura, ora attraverso un discorso  – per così dire – “teorico”, ora, ed ancor più, attraverso l’invenzione narrativa o la prosa varia della risposta ad un quesito, della nota giornalistica, della recensione ad un libro, del divertissement letterario. Perciò ho scelto come tema da trattare Calvino lettore di classici, ritagliando uno spazio particolare nel più ampio quadro del tema “lettura”.

 

Il lettore al centro

Il discorso sul lettore, o il colloquio con il lettore, non sono invenzioni di Calvino, notoriamente. Sono rinvenibili, con relativa facilità, presso tutte le letterature. Noi pensiamo a due esempi canonici: Dante e Manzoni. Del primo sono stati studiati i cosiddetti “appelli al lettore” presenti nella Comedìa; il secondo non manca di rivolgersi, con aria complice talvolta, ai suoi “venticinque lettori”. Se una notted’inverno un viaggiatore apparve in un momento in cui l’attenzione “teorica” sulla lettura era stata risvegliata da studi e discussioni sull’argomento, e quindi il gioco dell’immaginazione era andato ad incastrarsi in una casella di quella riflessione con estrema pertinenza ma conservando quel che le era proprio: la libertà fantastica dell’immaginazione.

Parlando di quel romanzo, analizzandolo, si può toccare con mano, per così dire, la centralità del lettore; il lettore stesso vi assume lo statuto di una funzione narrativa. Non ritorno sulle osservazioni sulle quali mi soffermai tanti anni fa, e ho scelto un argomento diverso per allontanarmi dal discorso sulla figura del lettore in Calvino e anche, in parte, da quella del lettore di Calvino. Ho voluto, invece, esplorare gli atteggiamenti di Calvino lettore, e lettore, in particolare, di classici.

 

Quali “classici”?

Quelli dell’antichità, quelli ai quali va quasi spontaneamente il nostro pensiero quando diciamo “i classici”, ma anche quelli della modernità: Ariosto e Galilei, ad esempio, cari al nostro autore; o Pinocchio. Non per caso ho citato due autori e un personaggio, perché a volte l’etichetta di “classico” si addice  – è il caso proprio di Pinocchio –  più al personaggio che al suo autore.

Ecco, dunque, delimitata l’area della esplorazione di questa sera: se non è presuntuoso chiamarla esplorazione. Certo, non possiamo prescindere, parlando di Calvino lettore, dal fare qualche considerazione sul modo in cui Calvino delinea la figura del lettore. Ho scelto due episodi, semiseri, dell’opera di Calvino: un approccio sorridente non guasta.

 

Il formaggio del signor Palomar

Suppongo che molti di voi abbiano letto quello che è uno dei più popolari, e anche più deliziosi, libri di Calvino: Palomar. Un capitolo di quel libro è intitolato Il museo dei formaggi e descrive la lunga paziente attesa di Palomar, in un negozio di formaggi di Parigi. L’attesa serve a studiare i comportamenti e le scelte di coloro che sono più avanti nella fila e serve all’autore per tracciare la fisionomia dei compratori di formaggi, nonché ad attribuire un carattere ed un atteggiamento ai formaggi stessi. Di libri non si parla, benché la formaggeria venga equiparata ad un’enciclopedia che, squadernandosi agli occhi di un autodidatta, lo rende voglioso del tutto che contiene. Oppure la formaggeria appare come un dizionario in cui, come scrive Calvino, «la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature di significato…». Il signor Palomar, che tanto impegno mostra nel voler impadronirsi di quella lingua, finirà per comprare il prodotto «più banale» e «più pubblicizzato», vittima degli automatismi della civiltà di massa.

L’osservazione che, però, ci porta nel campo del lettore non appartiene all’area della polemica contro la banalizzazione ed il conformismo dei comportamenti, ma a quella dell’attrazione che un prodotto esercita sul potenziale acquirente e sulla corrispondenza che s’instaura tra fruitore possibile e prodotto. Leggiamo ad un certo punto della narrazione:

 

… non è questione di scegliere il proprio formaggio ma d’essere scelti. C’è un rapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modo d’attrarlo, con una sostenutezza o granulosità un po’ altezzosa, o al contrario sciogliendosi in un arrendevole abbandono.

 

«Ogni formaggio aspetta il suo cliente»: una formula facilmente convertibile in: «Ogni libro aspetta il suo lettore», poiché come tra formaggio e cliente, così si determina una corrispondenza segreta e una potente attrazione tra libro e lettore.

L’altro episodio in cui Calvino delinea il rapporto del lettore con l’opera vede protagonista Palomar, un personaggio-tipo che agisce anche fuori delle pagine dell’opera specifica che gli è dedicata. Palomar (qui, probabilmente, Calvino stesso) è definito come «un ghiotto degustatore d’enciclopedie, con l’aspirazione ricorrente e sempre frustrata di passare dalla consultazione alla lettura ininterrotta, alla costruzione d’un discorso globale che scorra attraverso la discontinuità delle singole voci in ordine alfabetico».

Sembra offrirgli quest’occasione il primo volume dell’Enciclopedia Einaudi (e il pezzo al quale mi riferisco è una recensione/presentazione proprio di quella enciclopedia: un “pezzo” apparso nel «Corriere della Sera» del 30 luglio 1977).

 

Un’idea di lettura

Si chiede l’autore: «Come affrontare la lettura di un’enciclopedia ‘tutta da leggere’»? (così era definita quell’enciclopedia nelle anticipazioni e nella presentazione). Calvino pone, con quella domanda apparentemente un po’ ovvia, il tema del “come leggere” un’enciclopedia nata non per essere spilluzzicata per singole voci, ma per essere degustata nelle sue voci tutte contestualizzate proprio dall’esigenza di “leggerla tutta”.

Si pone il problema generale, o generico, della lettura, ma si pone quello, più sottile ed originale, della ricerca di un modo personale di leggere. Di un modo “creativo” di leggere. Dietro l’aspetto semiserio di una prosa divertita, Calvino indica un possibile inedito percorso nato, probabilmente, dalla sua esperienza e dalle sue modalità di lettura. Scrive:

 

L’ordine alfabetico offre sempre provocazioni inaspettate: ogni punto di partenza è buono quando si tratta d’una circumnavigazione; dunque perché non accettare la convenzione che collega alla lettera A il pathos degli inizi? Sfogliando il primo volume Abaco – Astronomia, il signor Palomar resta un momento incerto se cominciare con Abaco e continuare con Abbigliamento e Abbondanza/Scarsitàoppure, secondando una altrettanto naturale tendenza a muoversi controcorrente, partire da Astronomia e risalire verso Abaco.

 

Enunciata questa proposta a due possibilità, lo scrittore (o il signor Palomar) la sottopone subito a una critica corrosiva che costringe a trovare altrove il punto di partenza più adatto e più giustificabile. Non, dunque, un affidarsi al caso, o seguire una metodologia approssimativa come quella di partire dall’inizio e scendere verso il fondo, oppure da quel fondo risalire verso l’inizio. Occorre individuare il cuore del volume e, forse, il «cuore dell’intera enciclopedia». Questo cuore, questo «nucleo di totalità più denso» è ravvisato nella voce Anthropos. La voce Anthropos «è letta con passione da Palomar non solo perché tutti i problemi vi convergono, ma perché, come ricognizione dei confini dell’uomo, mentre avvita la sua spirale verso un centro d’ogni discorso, allo stesso tempo si proietta ai margini estremi (centro e margini che continuamente sfuggono all’indagine, che non si lasciano definire, che fondamentalmente non esistono)».

Partendo dalla voce Anthropos e dalle voci Animale e Anticipazione immediatamente adiacenti, l’una a destra l’altra a sinistra, Palomar potrà, tenendo conto che quelle voci sono al centro del volume, discendere verso l’ultima voce, Astronomia, o risalire verso la prima, Abaco, superando la quale, e quindi approdando proprio a riva, troverà una voce introduttiva, Enciclopedia. Commenta Calvino: «Due immagini d’una totalità centrifuga: l’Astronomia delle galassie in fuga e l’Enciclopedia d’un sapere sempre più difficile da tenere insieme, con al centro un Anthropos sempre meno sicuro del suo antropocentrismo».

Come si può notare, il discorso tenuto sapientemente su un tono dolcemente ironico mostra, qui, la sua sostanza forte. L’idea di lettura, o l’arte di leggere, è sottratta ad ogni capriccio del caso e inscritta in una griglia di rigorosa razionalità. Può sembrare che questo contrasti con il piacere di leggere, ma l’avventura della navigazione nel mare della scrittura esige strumenti adatti, carte nautiche precise, che indichino con sicurezza la rotta. Anche l’avventuroso Ulisse dantesco, che sembra andare a spasso un po’ a casaccio mentre ancora corre le acque del Mediterraneo, ha però una meta precisa che si prefigge di raggiungere: quel «mondo sanza gente» collocato probabilmente nell’oceano australe.

I due esempi che ho fatto, quello del formaggio che attende il suo cliente e quello delle modalità di lettura di un’opera particolare come un’enciclopedia (e nella fattispecie di una particolare enciclopedia strutturata in maniera meno tradizionale) hanno offerto, credo sufficientemente, quella che è l’idea di lettura di Calvino. Ma Calvino è uno scrittore, e uno scrittore avrà un suo particolare modo di leggere che esula dalle abitudini del lettore comune o, anche, di un esperto lettore di professione. Si tratta di sorprendere il lettore/scrittore Calvino quando è disposto a confessare quali tratti caratterizzanti oltre quelli ricordati, gli siano propri e siano frutto, comunque, non solo di un’esperienza strettamente personale ed abbiano una destinazione larga: eventualmente, un pubblico di lettori disposti ad accogliere quell’idea di lettura ed a farla propria).

Calvino scrive, in un saggio dal titolo Il libro, i libri: «Continuo ad appassionarmi nel leggere libri soprattutto se sento che non saprei mai scrivere niente del genere, e provo a confrontarmi con i loro autori, a comprendere cosa mi rende differente da loro, cosa hanno loro che io non ho. Questo pensiero funziona in me come una sfida». Salvo che per la professione dello scrivere, questa modalità di lettura/confronto attraverso la quale si scopre quel che ci manca, può essere accolta anche dal lettore comune come un arricchimento del proprio esercizio del leggere.

A questo tratto del discorso è pertinente un codicillo. Parlando della evoluzione dei mezzi della scrittura, riflettendo sull’invasione di sistemi di scrittura lontani da quelli tradizionali (qualcuno che ha l’età giusta per farlo potrebbe ricordare quando si scriveva con un pennino che si intingeva frequentemente nell’inchiostro!), Calvino suppone, come di fatto oggi accade, che un libro uno se lo possa costruire a casa sua, per proprio conto, con l’uso di un più o meno sofisticato personal computer. Anche le biblioteche, annota, potrebbero cambiare e potrebbero contenere solo microfilms modificando radicalmente quella che è stata una caratteristica fondamentale della civiltà del libro: la forma del volume, la disposizione della scrittura e dei margini, gli spazi tipografici, i tipi di carta, ecc. E non può fare a meno di chiedersi: «Cambierà il nostro modo di leggere?».

Calvino non azzarda una risposta. Non è prevedibile in che modo possa avvenire il cambiamento. Però se si volge al passato trova che in un tempo lontano è avvenuta una «rivoluzione importante del modo di leggere», illustrata da un episodio testimoniato da sant’Agostino, che lo racconta nel libro VI delle Confessioni. A Milano Agostino, andato a trovare il vescovo, Ambrogio, lo trovò che leggeva, ma leggeva in un modo inconsueto: leggeva «solo con gli occhi e con la mente.» Agostino aveva esperienza di scuole e di studiosi importanti, ma quel modo di leggere fu per lui un’autentica rivelazione. Perciò: è vero che non possiamo prevedere come si modificherà il nostro modo di leggere, ma ogni sviluppo dello strumentario tecnologico ci offrirà possibilità nuove. Cambierà il modo di leggere ma non verrà meno quella che resta un’esigenza primaria: leggere. Quanto al modo di leggere, Calvino opterà per la lettura silenziosa, per il modo più personale di leggere. La lettura silenziosa è adeguata al ritmo interno di consonanza del lettore con il libro ch’egli legge. Respinge, perciò, la lettura fatta da altri, ad alta voce. Scrive:

 

Ascoltare qualcuno che legge ad alta voce è molto diverso dal leggere in silenzio. Quando leggi, puoi fermarti o sorvolare sulle frasi: il tempo sei tu che lo decidi. Quando è un altro che legge è difficile far coincidere la tua attenzione col tempo della sua lettura: la voce va o troppo svelta o troppo piano.

 

Il rapporto ideale è a due: da una parte il libro, dall’altra il lettore. Le parole del libro suggeriscono pensieri ed immagini da cui scaturiscono altri pensieri ed altre immagini in una proliferazione sempre più vasta, fino a che l’itinerario che si forma da questo complesso si allontana tanto dal libro  – dal libro che si legge –  da far perdere di vista il libro stesso. Questo può voler dire che il libro ha concluso una sua funzione mediatrice ed attivatrice di una autonoma capacità di produzione fantastica riconosciuta al lettore. Il lettore è diventato, a sua volta, produttore di testi. La letteratura è una forza generatrice.

 

Il lettore-personaggio

Tanta attenzione all’atto del leggere ed alle eventuali tecniche e scelte di lettura si spiegano e si giustificano col ruolo che Calvino attribuisce spesso al lettore: il lettore, implicitamente o esplicitamente, è sempre un personaggio.. Talvolta, come in Se una notte d’inverno un viaggiatore, è il Protagonista. Questo ruolo del Lettore-protagonista-personaggio coinvolge il lettore in un gioco nel quale l’autore lo attira. In realtà, anche il lettore  – per così dire –  “esterno” alla narrazione ha un’importanza decisiva. Ogni libro ha un senso, ma, letto, esso acquista anche il senso che gli dà il lettore, è caricato delle responsabilità che il lettore gli scarica addosso. Le risposte che un libro offre alla nostra ricerca sono sostanzialmente quelle che noi, attraverso le sue pagine, riusciamo a darci. Il libro ha un valore in sé: ogni lettore, poi, per il fatto di leggerlo nel modo in cui lo legge aggiunge un proprio valore, lo arricchisce, lo modifica; ne altera, interpretandoli, i significati; lo sottopone ad una revisione da lettore che comporta aggiunte, correzioni, diversioni dalla linea che esso, per sé, traccia e vorrebbe far seguire.

Un eccezionale personaggio-lettore è, nella storia della letteratura occidentale, don Chisciotte. Quegli che al colmo della sua immedesimazione con i personaggi dell’immaginario cavalleresco si andrà metamorfosando nell’aspetto del Cavaliere dalla Triste Figura, ci viene presentato, all’inizio del romanzo, semplicemente come un lettore. Un lettore che entra talmente nelle sue letture da esserne profondamente segnato, da non poter sfuggire alla presa che l’immaginario di quelle letture esercita sulla sua mente. Il passaggio dal personaggio-lettore al Cavaliere che si mette sulle orme di illustri predecessori è un fatto “normale”; entra, direi, subito nell’orizzonte di attesa del lettore dell’opera.

Nemmeno il personaggio-lettore don Chisciotte, però, si lascia imporre totalmente la linea dei suoi libri. Ammira l’Ariosto, ma non può fare a meno di muovere degli appunti critici ad Angelica, troppo corriva, a parer suo, a cedere alle lusinghe amorose d’un semplice fante o d’altri. Quando decide di imitare Amadigi di Gaula, uno dei suoi eroi preferiti, dice che lo farà ma senza l’oltranzismo di cui ha dato prova quel protagonista di un romanzo famoso.

Al lettore di romanzi don Chisciotte capiterà di trovarsi nella condizione sorprendente del personaggio le cui imprese sono diventate oggetto dell’altrui lettura. Come egli leggeva di Amadigi, di Orlando e di tanti altri cavalieri, ci sono ora lettori che leggono la sua storia ed egli stesso è in condizione di leggere ciò che di lui si narra. Il personaggio-lettore don Chisciotte s’accorge, così, di essere entrato in un libro, d’essere letto, non solo, ma d’avere egli stesso la possibilità di leggersi.

È uno di quei passaggi fatto per dare ala all’immaginazione di scrittori pur tanto diversi tra loro ma vicini nell’esplorare le possibilità che una storia, che si crede fissata per sempre in un suo ordine e in una sua forma, offre di nuove invenzioni e prosecuzioni, di nuovi itinerari fantastici. Di nuovi libri possibili. Di nuovi scenari che si mostrano progressivamente  (ed inesauribilmente) agli occhi del lettore, che vede aprirsi un sipario dietro l’altro su una scena sempre nuova pronta a suscitare un’impensata meraviglia.

La Lettrice di Se una notte d’inverno un viaggiatore, Ludmilla, «legge sempre un altro libro […], un libro che non c’è ancora, ma che dato che lei lo vuole, non potrà non esserci».

Anche don Chisciotte, probabilmente, ha la segreta aspirazione di finire in un libro. Cervantes realizza questa sua segreta aspirazione quando, nella seconda parte dell’opera, consente al Cavaliere di conoscere, trasposte nella scrittura, le avventure delle quali fino a quel momento è stato protagonista (e l’ho ricordato). Non solo. Egli può commentare il punto di vista dell’autore nel raccontare la sua storia, correggendo eventuali inesattezze, attenuando la portata di situazioni in cui il cavaliere è raggirato o bastonato, modificando in questo modo, e in qualche modo, l’assetto stesso di quella storia.

Ciò che accade a don Chisciotte, a un personaggio che viene a contatto con un libro che racconta le sue peripezie, accade, sia pure in misura appena avvertibile, al protagonista dell’Odissea, Ulisse, come ricorda lo stesso Calvino in un saggio sul fantastico, il patetico e l’ironia. Scrive Calvino:

 

Ulisse alla corte dei Feaci ascolta un aedo che canta le sue traversie (come se l’Odissea fosse già in circolazione) …

 

Questo ricordo del grande poema antico ci porta nell’area della lettura dei classici; anzi, di Calvino lettore di classici. Che tipo di lettore sia Calvino lo abbiamo potuto capire da quel che abbiamo detto fin qui: un lettore che ama l’atto del leggere come un fondamentale atto di vita che ci consente di vivere avventure diverse da quelle che ci propone la vita e soprattutto da quelle che la vita non potrebbe mai darci. Questo è solo un aspetto della lettura dal punto di vista di Calvino. C’è anche quello della lettura come passione alla quale si cede consapevolmente e della quale consapevolmente si accettano i rischi e le conseguenze. Perché una vera lettura non è mai un’operazione pacifica; come qualunque opera di ri-creazione chiede al lettore di assumersi un ruolo parallelo a quello dell’autore. Il lettore che ricrea ciò che legge è pari allo scrittore che crea.

 

Calvino legge i classici

Al di fuori di affermazioni suggestive e di salti nel fantastico gratuito, vediamo concretamente come Calvino legge i classici, qual è il suo atteggiamento nei loro confronti, che cosa ricava dalla loro lettura. Piuttosto che per linee generali si può puntare su degli esempi. Uno lo trovo nella prima delle celebrate Lezioni americane, quella dedicata alla Leggerezza.

Calvino ricorda che ai suoi esordi di scrittore imperativo per lui come per ogni altro giovane scrittore era il rappresentare il nostro tempo. Ma avvertiva un divario insanabile tra la pesantezza della vita e «l’agilità scattante e tagliente» ch’egli voleva realizzare nella propria scrittura. Avvertiva una sorta di pietrificazione del mondo alla quale voleva sfuggire. E gli veniva in mente, per averlo letto nelle Metamorfosi di Ovidio, il mito di Perseo e di Medusa.

Perseo è colui che ha vinto Medusa; le ha reciso la testa terrificante i cui capelli sono un viluppo di serpenti. Non è l’unica impresa di Perseo; egli vince un mostro marino e libera Andromeda, che doveva essergli offerta. Massacrato il mostro, osserva Calvino, Perseo «si accinge a fare quello che ognuno di noi farebbe dopo un lavoraccio del genere: va a lavarsi le mani». Ma ha il problema di dove posare la testa di Medusa. Con inaspettata delicatezza, Perseo prepara un letto di foglie e di piante marine e vi depone la testa mostruosa. «Mi sembra», commenta Calvino, «che la leggerezza di cui Perseo è l’eroe non potrebbe essere meglio rappresentata che da questo gesto di rinfrescante gentilezza verso quell’essere mostruoso e tremendo ma anche in qualche modo deteriorabile, fragile.» I rami sui quali posa la testa di Medusa si trasformano in rami di corallo, di cui le ninfe corrono ad adornarsi. Si realizza così, nella poesia ovidiana, un incontro d’immagini in cui vivono fianco a fianco la grazia e l’orrore. Un accostamento simile Calvino rileva in un testo di Montale, Piccolo testamento, in cui alla presenza d’un Lucifero dalle ali di bitume s’oppone quella di una minima traccia luminosa. Conclude Calvino:

 

Ecco che per riuscire a parlare della nostra epoca, ho dovuto fare un lungo giro, evocare la fragile Medusa di Ovidio e il bituminoso Lucifero di Montale.

 

Il procedimento del lettore Calvino è non solo quello di rinvenire in un testo antico una rappresentazione dell’idea di leggerezza, ma anche quello di creare un cortocircuito tra la favola antica e le moderne rappresentazioni di un buio orrore al quale si oppone il baluginio della speranza.

Il mondo delle favole antiche (in questo caso di Ovidio) è, però, insufficiente per quello che è l’orizzonte di ricerca di Calvino. Egli si indirizza, allora, verso un altro classico della latinità che soddisfa alla sua passione per la scienza. Individua questo testo nel De rerum natura di Lucrezio, «la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero». Lucrezio «è il poeta della concretezza fisica vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi». Filosofia e scienza presiedono alla visione del mondo che hanno Ovidio e Lucrezio, ma «in entrambi i casi la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi linguistici che sono quelli del poeta, indipendentemente dalla dottrina del filosofo che egli dichiara di voler seguire».

In questi antichi, esemplari autori, Calvino, da lettore/scrittore cerca, ovviamente, la realizzata leggerezza.

Due altri esempi sono rintracciati, da Calvino, in due autori che sembrano antitetici e, invece, sono più vicini di quanto si possa immaginare. Si tratta di Ludovico Ariosto e di Galileo Galilei, scrittori ammirati ed amati da Calvino per il loro magistero stilistico. Galilei ha rappresentato, nelle semplificazioni ovvie del riportare a formula semplice una realtà complessa, il rigore della scienza, la struttura geometrica del pensiero e dell’espressione; Ariosto, invece, il libero disfrenarsi dell’immaginario in un sovrapporsi ed inseguirsi di vicende fantastiche difficilmente riportabili ai dati della realtà che l’uomo sperimenta.

Quali le ragioni della preferenza per questi classici, che sono i “classici” della letteratura moderna, è Calvino stesso ad esporle con la solita chiarezza. Egli osserva che Leopardi ammirava la prosa di Galilei «per la precisione e l’eleganza congiunte». Egli, a sua volta, ammira Galilei per il suo usare il linguaggio «non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica». L’ammirazione non nasce dalle conquiste scientifiche dello scienziato toscano, o non solo da quelle; nasce dalla seduzione letteraria che la sua prosa esercita. Quando Calvino aveva affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano, suscitando la scandalizzata reazione di Carlo Cassola, che aveva sbottato: come, credevo fosse Dante!, intendeva, come precisò, assegnare a Galilei la qualifica di più grande scrittore in prosa, superiore allo stesso Machiavelli. Ma lo incanta in Galilei la coscienza della possibilità di riportare nella scrittura la varietà e la totalità del mondo grazie alle combinazioni consentite dal vario disporsi di uno strumento estremamente semplice ed estremamente complesso nello stesso tempo: l’alfabeto, la più grande invenzione dell’ingegno umano. Osserva Calvino: «Quando parla dell’alfabeto, Galilei intende […] un sistema combinatorio in grado di render conto di tutta la molteplicità dell’universo». Il punto di partenza, naturalmente, è proprio nell’alfabeto in senso proprio, nella magia di quelle lettere, consonanti e vocali, dalla cui unione nasce la parola, nasce la possibilità di dar voce alla inesauribile ricchezza della vita.

Sono, queste, indicazioni veloci, che però mostrano quale sia l’approccio di Calvino ai classici. Un altro esempio eccellente è costituito dall’Ariosto; Calvino si farà “raccontatore” del poema ariostesco in un libro che intende avvicinare a quel poema lettori forse sgomenti dalla vastità dell’opera poetica.

Ogni lettore, nello scegliere le sue letture, ha un suo speciale criterio di scelta, una giustificazione profonda. La scelta non è senza conseguenze per il lettore comune; tanto meno lo è per il lettore/scrittore. Calvino espone quella per lui fondamentale: «lo spirito ariostesco per me ha sempre voluto dire spinta in avanti, non voltarmi indietro. E poi, penso che tali tracce di predilezione siano abbastanza vistose per lasciare che il lettore le trovi da sé». È il caso di ricordare, di Calvino, un’opera “ariostesca” come Il castello dei destini incrociati?

In Ariosto Calvino rispecchiava la propria tensione sperimentale, il gusto del fantastico cui era sotteso un disegno razionale, l’abbandono al gioco e la mascherata osservanza delle regole. L’Orlando Furioso gli piaceva come opera aperta. Dante aveva posto esatti confini alla sua Comedìa: nulla vi si poteva aggiungere, né avrebbe potuto farlo il poeta stesso per la struttura rigida sottesa al racconto del viaggio ultraterreno. Ariosto può accrescere di episodi il poema, o detrarre, o mutare inventando nuove situazioni. Calvino ha un suo modo netto di definire la sostanza di un simile procedimento, e scrive che «l’Orlando Furioso è un poema che si rifiuta di cominciare e si rifiuta di finire». Si può vedere come questa decisione, questo rifiuto, siano attribuiti non all’autore ma direttamente al poema, come se questo avesse acquistato tanto di autonomia da poter decidere su se stesso.

Si rifiuta di cominciare, ci spiega Calvino, perché si presenta come continuazione dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo; e si rifiuta di finire perché l’Ariosto non finisce mai di lavorarci.

Attira il lettore Calvino oltre che la seduzione della poesia ariostesca la tecnica di costruzione del poema. Ariosto mette in scena una gran quantità di personaggi; li caccia in situazioni non facilmente districabili nella misura di un canto e deve, dunque, dislocarne le peripezie in vari canti. Con una straordinaria tecnica di montaggio, Ariosto domina la situazione con assoluta padronanza: «quando due personaggi s’incontrano […] il racconto, che stava seguendo il primo, se ne distacca per seguire il secondo», annota Calvino; né Ariosto esita a ricorrere a tagli netti «che interrompono l’azione nel bel mezzo di un canto».

Su osservazioni così precise e pertinenti, che riguardano la strutturazione del poema nel suo insieme o in segmenti costituiti da singoli canti, si sofferma Calvino da scrittore che scruta il lavoro di un predecessore illustre, di un collega famoso ed ammirato. Si trova, come s’accorge,  a fare i conti con un’opera che sfugge ad ogni tentativo di incapsulamento in una formula. Confessa:

 

Definire sinteticamente la forma dell’Orlando Furioso è […] impossibile, perché non siamo di fronte a una geometria rigida: potremmo ricorrere all’immagine di un campo di forze, che continuamente genera al suo interno altri campi di forze. Il movimento è sempre centrifugo; all’inizio siamo già nel bel mezzo dell’azione, e questo vale per il poema come per ogni canto e ogni episodio.

 

Il poema è come un grande gioco; Calvino così dice ma, nel momento in cui lo dice, prova il bisogno di avvertirci: «… non dobbiamo dimenticare che i giochi, da quelli infantili a quelli degli adulti, hanno sempre un fondamento serio: sono soprattutto tecniche di addestramento di facoltà e attitudini che saranno necessarie alla vita».

Calvino lettore di un classico come l’Ariosto si spinge, sia pure per un momento, a proporre la correzione di un verso, dove la parola lato, ripetuta due volte nei vv. 7-8 di un’ottava, sembra un errore o una distrazione o una mancata revisione facilmente sanabile. È chiaro che Calvino è anche un lettore-filologo e non collocherebbe in quel testo la suggerita correzione, ma l’averla suggerita mostra che un lettore (e in questo caso Calvino come lettore di classici) è sempre un collaboratore di chi ha scritto.

La sua “lettura” dà rilievo ad elementi sui quali un lettore comune potrebbe sorvolare, magari con un po’ di fastidio. Nel canto X Ariosto fa una rassegna “poetica” delle truppe inglesi. E Calvino osserva: «Descrivere una sfilata delle truppe d’Inghilterra Scozia e Irlanda potrebbe ridursi a un arido elenco se non fosse per la scommessa che il poeta fa con se stesso: riuscire a italianizzare quanti più nomi inglesi può. […] L’impresa fonetica di Ariosto diventa una nuova imprevista avventura del poema».

La ricchezza di riflessioni di Calvino sul poema dell’Ariosto mostra un aspetto che dovrebbe essere ovvio per ogni lettore: più si scava in un’opera, più ci si accorge della sua ricchezza. I dati di fondo, sui quali poi si innestano tutte le osservazioni collaterali, spesso preziose, sono quelli del massimo di strutturazione geometrica coniugato col massimo di libertà inventiva. Non è un caso, dunque, che nell’ammirazione per l’Ariosto, Calvino si trovi in ottima compagnia con Galilei. Anche lo scienziato pisano era lettore/estimatore del poeta: «il poeta preferito da Galilei», scrive Calvino, «era proprio Ludovico Ariosto: come Astolfo sull’Ippogrifo sorvola i territori della Luna con l’aiuto del libro magico, così Galileo con l’aiuto del ragionamento matematico esplora col telescopio il paesaggio lunare e lo descrive nelle sue ombre e nel suo abbagliante biancore».

Ho detto, a un certo punto di queste semplici osservazioni, che talvolta “classici” più che gli autori sono i personaggi. L’esempio più interessante di questo modo di definire un “classico” è quello di Pinocchio, il personaggio di Collodi che meritatamente si è conquistato uno spazio autorevole tra i personaggi della letteratura mondiale. Anche nel caso di Pinocchio, ciò che viene in primo piano è la percezione soggettiva che dell’opera letta l’autore fornisce.

Che cosa ha rappresentato Pinocchio per lo scrittore? L’Italia non ha avuto autori di racconti fantastici  che siano collocabili all’altezza di un Edgar Allan Poe o di un Henry James; però l’autore di Pinocchio è certamente capace, sia pure a tratti, di avvicinarsi a quelli. E Calvino cita un brano, tratto da Pinocchio, che è da «mettere sul livello delle più grandi riuscite della letteratura fantastica internazionale».

Calvino dice di Pinocchio che è «uno dei libri più famosi della letteratura italiana, un libro famoso in tutto il mondo»; e aggiunge, e questo interessa soprattutto, esso è «forse il libro che più ha influenzato il mio mondo immaginario e il mio stile, perché  – e la stessa cosa credo possono dire la maggior parte dei miei compatrioti –  è il primo libro che ho letto (anzi è il libro che più conoscevo capitolo per capitolo prima d’imparare a leggere): Pinocchio». E Calvino, accennando ai motivi della sua ammirazione per quel libro, ne sottolinea un aspetto essenziale: «In Pinocchio ogni presenza acquista una forza visiva tale da non poter essere dimenticata: conigli neri che trasportano una bara, assassini incappucciati in sacchi di carbone che corrono a salti…».

“Forza visiva”: la stessa che può essere rilevata nelle più felici invenzioni del Calvino “fantastico”. Il Calvino lettore di classici, meditando sui motivi della sua ammirazione per essi, ci offre dei suggerimenti di lettura. Non ci resterebbe, essendo egli una guida autorevole, che seguirlo: almeno leggendo o rileggendo le pagine galileiane del Dialogo sopra i due massimi sistemi dell’universo o, se questa ci sembrasse una lettura un po’ ostica, dirottando la nostra attenzione sulle pagine mirabili dell’Orlando Furioso dell’Ariosto o su quelle offerte ad un permanente senso d’infanzia libera ma non aproblematica della storia del burattino Pinocchio.

Oppure, ed è la via più giusta, scegliendo da noi i nostri “classici” e seguendo l’esempio di Calvino solo nel cercare di spremere da quelli, dalla loro eterna poesia, quanto può risultare fraterno alla nostra vita.

 

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