Perché non ho partecipato e non parteciperò allo sciopero dei professori

di Ferdinando Boero

I professori universitari protestano e minacciano di far saltare gli appelli d’esame. Motivo? Da sei anni hanno lo stipendio bloccato. Prima godevano di scatti biennali automatici abbastanza consistenti. Con la crisi sono stati sospesi. Ma solo a loro. I dipendenti degli enti pubblici di ricerca, per esempio, ne godono.

Una prima forma di protesta ha riguardato il rifiuto di presentare la documentazione ai fini della valutazione della qualità della ricerca (la VQR). In questo caso la protesta è stata contro la propria Università, visto che in base alla VQR sono stati identificati i Dipartimenti d’Eccellenza. Questi prevedono sostanziose assegnazioni finanziarie a seguito di presentazione di progetti che valorizzino la qualità della ricerca e la didattica fondata su ricerca eccellente. Ora tocca agli studenti. Né le Università né gli studenti hanno deciso il blocco degli scatti, ma non è facile premere direttamente sul governo, responsabile del blocco e di una schizofrenica politica della ricerca e dell’università.

Personalmente, non ho partecipato alla protesta nella sua prima versione e non parteciperò neppure alla seconda. Non perché ritenga giusto il blocco degli scatti, ma perché ritengo ingiusto l’automatismo della loro attribuzione. Tutti gli statuti universitari sanciscono il principio della valorizzazione del merito, ma questo viene raramente messo in atto. I professori universitari non timbrano il cartellino e godono di libertà illimitata. Hanno registri da compilare, ma nessuno può controllarne la veridicità. Molti lavorano più della media di qualunque categoria di lavoratori dipendenti, ma esiste la possibilità di fare poco, anche pochissimo. Addirittura si può esercitare la libera professione usufruendo delle strutture universitarie. E molti lo fanno senza optare per il tempo parziale che, a fronte di un’attività professionale, prevede una decurtazione dello stipendio. 

Il sistema di valutazione della qualità della ricerca ha un milione di pecche, costa tantissimo, e non si propone di valutare i singoli docenti. Ma ora le regole sono queste, e nelle specifiche dei Dipartimenti di Eccellenza, per accedere a sostanziosi finanziamenti ministeriali, si chiede, ad esempio, quali siano i docenti di rilievo internazionale presenti nel Dipartimento. Il Ministero vuole i nomi, e anche le motivazioni.

La introduzione dei Dipartimenti di Eccellenza, a seguito della valutazione della qualità della ricerca, inizia a distinguere porzioni di Università in cui si fa ricerca di buon livello e porzioni in cui la ricerca è inadeguata. E’ il primo passo per distinguere aree in cui la didattica si basa su ottima ricerca (la serie A) da aree a vocazione meramente didattica (la serie B), non basate su ottima ricerca. Non ci saranno Università di serie A e  B. In ogni Università ci saranno Dipartimenti di serie A e Dipartimenti di serie B. E chi si iscrive sa che ci saranno corsi di laurea di serie A (quelli erogati nelle aree di serie A) e corsi di laurea di serie B (gli altri). A questo punto vedrei ragionevole la richiesta di attribuire gli scatti a chi ha contribuito a mettere in serie A il proprio Dipartimento. E’ possibile verificare questi risultati per i singoli docenti. Può accadere che un’area eccellente comprenda anche docenti poco produttivi. E accade ancora più frequentemente che docenti da serie A si trovino, loro malgrado, in un’area di serie B. La valorizzazione del merito consiste nel premiare chi ha risultati da serie A. Lo sblocco degli scatti sarebbe l’incentivo ideale. Chi gioca in serie B potrà dirsi contento di non vedersi licenziato e verrà comunque stimolato a migliorare, a fronte di aumenti di stipendio legati alla qualità della ricerca.

Il sindacato, però, spesso non ama queste distinzioni. I furbi, quelli che lavorano poco, fanno anche le vittime e dicono di essere discriminati. Il merito è visto come un disvalore e si chiede che i trattamenti siano uguali per tutti. Ma fare il professore universitario richiede alta qualificazione, e questa dovrebbe essere verificata di tanto in tanto, per tutta la durata della carriera. L’egualitarismo è sacrosanto nel garantire uguali opportunità alla partenza (lo dice il figlio di un portuale) ma diventa profondamente ingiusto quando il ruolo rivestito richieda alta qualità all’arrivo. Non c’è niente di più ingiusto di dividere in parti uguali tra diseguali. Don Milani applicava questo principio per difendere i diseguali più deboli, ma ora i “diseguali” sono i furbi che difendono la propria inadeguatezza.

Il vittimismo delle università meridionali è totalmente ingiustificato. Proprio perché meridionali, queste università hanno visto arrivare piogge di finanziamenti, sia per l’edilizia sia per la ricerca. Con corsie preferenziali mediate dalle regioni. I fondi europei per le regioni dell’obiettivo 1 comprendono anche sostanziosissimi finanziamenti alla ricerca. Che politiche sono state attuate, dalle singole università, per usare al meglio questi fondi? Quante cattedrali nel deserto sono state costruite, dilapidando fortune? Quanti docenti di alto livello sono stati fatti scappare a seguito di palese ostilità nei loro confronti, e favoritismi ai soliti “amici”? Ora sappiamo finalmente che il Ministero non ha interesse per il numero degli studenti. I soldi arriveranno per la presenza di Dipartimenti di Eccellenza, in base alle valutazioni della qualità della ricerca. E si chiede anche che la didattica sia impostata su ricerca di alto livello. Nuovi corsi di laurea non basati su solida ricerca, tanto per attirare studenti, non sono la strada giusta. Ogni Università deve innescare percorsi virtuosi in questa direzione. Gli strumenti per farlo ci sono, le indicazioni sono chiarissime. Chi non lo farà non avrà diritto di lamentarsi a fronte di un declassamento o di un accorpamento con università gestite da chi “ha capito”.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, sabato 22 luglio 2017]

 

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