110 anni fa la nascita di Francesco Politi, spirito salentino tra i più aperti e ricchi di inquietudini del Novecento

di Gigi Montonato

Il 14 settembre 1907, 110 anni fa, nacque in via Vanini a Taurisano Francesco Politi, primogenito di cinque figli; a lui seguirono tre sorelle e un fratello. Famiglia importante la sua, della piccola borghesia terriera e impiegatizia. Il padre, Luigi, era un amministratore di proprietà agricole. La madre, Concetta Baglivo, era un’insegnante elementare. La nonna materna, Angiola Leone di Casarano, era un’ispettrice scolastica. Un ambiente famigliare grave e rigoroso. Francesco era destinato a conferire alla famiglia, attraverso i suoi successi professionali, lustro e benessere, come a quei tempi era nelle aspirazioni delle famiglie borghesi. Fu avviato agli studi e si può dire che dall’età di undici anni in poi trascorse la sua vita lontano da Taurisano. Vi ritornava per brevi periodi all’anno. Nel poco tempo andava a visitare i suoi luoghi dell’anima: una campagna, un muretto di pietre a secco, un albero, un trullo, un vecchio contadino. Traeva ispirazione e si ricaricava di aria natìa prima di affrontare un altro lungo addio.

Non gli fu facile trovare l’ingresso della carriera. A Lecce si era maturato al Liceo Scientifico, che, per la riforma Gentile, consentiva l’accesso solo ad alcune facoltà universitarie. Dovette conseguire la maturità classica al Liceo “Cavour” di Torino. Anche l’indirizzo universitario era stato incerto. All’Università di Genova si era iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza. Si laureò in Lettere all’Università di Firenze.

Fu professore di liceo a Bressanone, prima di intraprendere la carriera diplomatica. Nel Trentino era stato attratto da uno zio materno, Francesco Baglivo, medico chirurgo e veterinario, che era stato colà insignito di medaglia d’oro dall’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe per i suoi studi sull’afta epizootica. Quel soggiorno gli cambiò la vita, studiò e apprese la lingua tedesca, che gli avrebbe aperto le porte alla carriera. Fu dirigente degli istituti italiani di cultura, a Vienna, a Bucarest, a Berlino, prima della guerra; a Marburg Lahn e a Monaco di Baviera dopo; dirigente della “Dante Alighieri”, per la quale tenne numerose applauditissime conferenze in diverse città e capitali europee.

Contemporaneamente coltivò le belle lettere, la poesia in particolare, tedesca, ma anche inglese e francese. Fu professore ospite all’Università di Monaco e poi docente di Letteratura Tedesca e Filologia Germanica alle Università di Bari e di Lecce.

I suoi grandi interessi culturali furono il Minnesang, Shakespeare, Schiller, Keats, Weinheber; ma anche Nietzsche poeta, Poe, Shelley, Heine, Rilke, di cui produsse traduzioni bellissime ed intense.

Negli ultimi tempi si produsse in una serie di traduzioni in dialetto dei più importanti autori italiani e stranieri di ogni tempo, nell’intento di dimostrare ca cùntine puru iddi comu nui, che il linguaggio della poesia è universale, ma anche che il dialetto è così ricco da esprimere qualsiasi sentimento.

In un saggio di traduzioni oraziane diede un’interpretazione più colorita del grande poeta latino, con inserti gergali e dialettali nello scorrere in lingua, proponendo un Orazio vivo. Sugli autori citati pubblicò libri con le più importanti case editrici, fra cui Laterza e Garzanti; e saggi su diverse riviste specialistiche.

Come spesso capita a chi vive in giro per il mondo, il pensiero per la piccola patria, il luogo natìo, finisce per diventare il riferimento costante della vita. Così Francesco Politi ebbe sempre nel cuore il suo paese, la sua gente, i personaggi tipici, indimenticabili fino alla loro mitizzazione, fino a trasfigurarli nelle invenzioni dei grandi poeti. La Bella Elmiera di François Villon è la Paula Paccia, personaggio della sua infanzia taurisanese. E pur dando all’esistenza una dimensione alare – Pinnis nido maioribus era uno dei suoi motti preferiti – rimase nella mente e nel cuore profondamente salentino.

Si sentiva vicino alla povera gente, ai perseguitati, ai migranti, agli zingari. Del resto il suo lavorare nelle ambasciate e nei consolati lo aveva messo a contatto con tanti nostri connazionali, con tanti loro problemi. Ricordo la sua pena quando parlava della tragica vicenda di Sacco e Vanzetti in America. S’indignava al ricordo delle persecuzioni degli ebrei, che non perdonava ai tedeschi, popolo per il quale pure aveva ammirazione. Quelli – diceva – fanno la guerra e fanno la pace con lo stesso impegno e con la stessa serietà.

Amava molto gli animali. Scrisse addirittura un’epigrafe per un monumento al cane. Si arrabbiava pensando alle vivisezioni, che considerava barbarie. Ricordava le proteste della madre nei confronti di un carrettiere di Taurisano, u Ggesuè caddipulinu, che frustava a sangue il suo cavallo. Trascorse la sua esistenza cercando di conciliare le sue vocazioni letterarie e poetiche con le responsabilità istituzionali, sempre molto importanti e delicate sia prima che dopo la guerra.

Il suo profilo umano risente di questo suo portare a sintesi vocazioni e necessità, anche se evitava lagnanze ed aveva fatto suo il motto bruniano in tristitia hilaris. In lui convivevano tutte le inquietudini del Novecento. Anima sognatrice e romantica, ma anche giocosa e brillante e mistico-spirituale. Proprio quest’ultima è forse la meno nota.

A Taurisano volle lasciare il suo ricordo riconoscente. Era la terra dei suoi genitori, della sua casa, dei suoi affetti. Tra le tante iniziative da lui promosse, l’istituzione di cinque borse di studio per universitari taurisanesi, tra il 1991 e il 1996, a ricordo dei genitori. Scrisse per la casa di Giulio Cesare Vanini una nuova epigrafe in latino più aderente alla verità storica con traduzione in italiano.

Non aveva particolare attaccamento alla chiesa, ma era di una profonda religiosità; e soprattutto amava le grandi personalità del pensiero e della fede. La sua traduzione dell’Annunciazione di Rilke, che volle dedicare a Papa Giovanni Paolo II nel Natale del 1996, trasuda di spiritualità ben oltre l’accuratezza formale ed estetica.

Nel brano che proponiamo qui per la prima volta, da lui composto nel 1930, quando aveva ventitré anni, esprime un senso di mistico rapimento. L’autore, come inebriato dal paesaggio in cui è immerso e dal clima fresco del mattino, immagina di vedere San Francesco. E’ un progetto di poesia non portato a termine, probabilmente non perfezionato, in cui tuttavia è dato ravvisare la natura mistico-sognatrice dell’autore.

Ci piace associarlo a questo nostro ricordo, nella ricorrenza del suo centodecimo anno della sua nascita. Francesco Politi morì a Roma il 20 aprile 2002, all’età di 94 anni; lucido e col pensiero rivolto alla sua casa leccese e alla sua Taurisano. Dove avrebbe trovato sepoltura, ma non oblio.

Là della villa sul Belvedere

Auripollente, l’alito fresco

Della prima alba, stavo a godere

Quando m’apparve Santo Francesco.

Intorno intorno, tra miti olivi

D’un malinconico cinereo verde,

Cener di morti, verde di vivi…

Corre una bianca strada e si perde.

Tra quella pace, che pur sopito

Dolce il dì spira come un bambino,

Laggiù da un cupo frascame uscito

D’un tratto apparve un cappuccino.

Incede assorto, solenne e pare

Ch’ei neppur pieghi le membra lente

Ma lieve scorrere e trasvolare,

grave ed etereo, benedicente…

[Io] mai nell’anima, dacché fanciullo

Ruppi il mio sogno dolce di fede

E sempre vigile vagai sul brullo

Vivo deserto di chi sol vede…

[Io] mai nell’anima, dacché l’incanto

Di quel fatato perdessi eliso,

Sentii sì tenero, gagliardo tanto

Nel cuore irrompermi un divin riso…

Non so che sia, esso, che dica

alla mia mente torpida e muta…

Obbliai l’angelica favella antica…

Della mia bella Fata perduta?…

Ma un vivo solco lasciò il passare

della visione benedicente.

Nel cuore e in esso calda stillare

gonfiai una lacrima, come semente.

[“Presenza taurisanese”, a. XXXV (2017), n. 294, p. 6]

 

 

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