Italieni 7

di Paolo Vincenti

Enrico Nascimbeni: “Ho scelto di sbagliare”

La foto di copertina è bella e vale almeno quanto il libro. Ritrae l’autore, un giovane Enrico Nascimbeni, seduto su uno sgabello, che osserva il padre lavorare con sguardo adorante. E dall’altra parte della scrivania lui, “una montagna troppo alta da scalare” per dirla con Venditti,  Giulio Nascimbeni, intento a ritoccare la punteggiatura di qualche articolo, folta chioma bianca, occhiali da vista  e bretelle.  Colpiscono l’assenza del computer e la biro convintamente impugnata dal giornalista, il giallo un po’ sbiadito della foto e l’ambiente domestico, in particolare il pesante tendaggio e il pavimento anni Settanta. Enrico all’epoca della foto era un promettente cantautore, il padre invece una firma di punta del Corriere della Sera, nonché fine letterato e biografo di Eugenio Montale (al quale Enrico Nascimbeni ha dedicato “Eugenio”, uno dei suoi pezzi più ispirati). Un rapporto di lunga frequentazione legava il Premio Nobel per la letteratura alla famiglia di Enrico, la cui casa era frequentata anche da altri grossi calibri del panorama culturale italiano, come Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Il rapporto viscerale con il padre è spesso al centro della produzione artistica di Nascimbeni, confermato da tante canzoni, fra le quali “Mio padre adesso è un aquilone”, che sembra sia ispirata dalla poesia di Luciano Luisi: “ Ora sei calmo, finalmente, hai pace./ So che sei morto, non ho più paura/ che tu debba morire, non ho più / paura del tuo cupo, lungo rantolo / che dilatava i muri della stanza, / del tuo respiro che chiedeva aiuto / al fiato del mio petto / del grido dei tuoi occhi a supplicarmi /”. Il rapporto con il padre ritorna anche in questo libro che ho fra le mani, sorta di scombiccherato diario personale, dal titolo coraggioso: “Ho scelto di sbagliare” (Il Leggio editrice 2017). Imprescindibile è a figura di Giulio Nascimbeni, “padre e profeta” come dice Giusi Verbaro, figura reale, presenza tangibile nei giorni, ma anche inevitabilmente idealizzata; e ora che Enrico è diventato suo coetaneo, “ho gli anni di mio padre, ho le sue mani / quasi: le dita specialmente, le unghie / curve e un po’ spesse”, sembra voler dire, con Raboni.  Molti sono i ricordi famigliari che legano l’autore alla sua infanzia, all’adolescenza trascorsa in un piccolo paese di campagna, ai genitori, ai nonni, anche alle sue donne. Tutto il libro è colmo di quelle “insepolte preistorie d’infanzia”, per citare sempre la Verbaro, e “assenze immedicate” che “tornano al giro frettoloso di brevi adolescenze” e sembra che lo facciano per “oggettivare il come il quando ed il perché” di una esistenza ripiegata sulle memorie lariche di un passato che ancora appartiene e pertiene. Il libro di Nascimbeni trova la sua ragione fondazionale nel memento, libera scelta imposta, direi, con un ossimoro, perché non c’è scampo per alcuni, quasi condannati al ricordo, ad un eterno “presentizzare” il passato. Certo, un libro come questo è poco contemporaneo, addirittura anacronistico, dacché  la nostalgia che abita l’universo poetico dell’autore non è facile caglio per i lettori di oggi. Lui se ne frega, si vede.  La coltiva, quasi fosse train de vie per sfuggire alla noia dell’oggi, alla banalità dei giorni irregimentati e incolori, alla falsità, al calcolo dell’interesse. Gli artisti vivono così, a metà strada fra terra e cielo, come gli uccelli di Aristofane, in una loro eterna Neffalococcugia.

Tecnicamente il libro si definisce un prosimetro, ossia un mix di prose e versi: alle parti più agevolmente narrative si giustappongono delle parti liriche che, se poesie in senso stretto non sono, e passi per l’a capo malandrino, si possono definire prose liriche. Una scrittura frantumata, impressionista sì, evocativa, nostalgica, che nulla concede all’artificio o alla moda letteraria, e che definirei naïve, infantile, ingenua. Una scrittura poco sorvegliata: l’autore affida alla pagina umori saperi sapori pensieri e costernazioni, secondo quella famosa tecnica dello stream of consciousness, il flusso di pensieri di joyciana memoria. La narrazione è spezzata, “svaccandrata”, per usare un termine di Nascimbeni, elisi i nessi sintattici e a volte anche grammaticali. Inesistente un progetto prestabilito, nessun preimpostato disegno, nessuna revisione posteriore, salvo quella strettamente necessaria delle regole editoriali di pubblicazione, nessuna tenuta d’insieme, ché anzi il libro  sembra frutto di assemblaggio di materiali vari ed eterogeni, una sorta di zibaldone ricomposto. Se c’è un referente letterario cui posso accostarlo è senz’altro Kerouac, ma anche Burroughs e in genere tutta la beat generation, per quel rappresentare la realtà attraverso schizzi, per rapide annotazioni, seguendo l’onda dei propri disordinati pensieri e con un linguaggio colloquiale.  Infatti il linguaggio è basso, vicino al parlato, con frequente inserimento di termini gergali. Centrale, nella narrazione, è un divano verde sul quale scorre tutta la vita del protagonista. L’autore è diegetico, narra in prima persona, e questo iper soggettivismo, l’autobiografismo, che poi rappresenta il grenze  fra il suo personale punto di osservazione e il mondo esterno, sono la cifra anche della produzione musicale di Nascimbeni. È la spontaneità di cui si diceva che sottrae la sua pagina a qualsiasi oscenità, ad ogni scabrosità che potrebbe derivare da un atteggiamento precostituito, dalla posa, da cui invece l’autore è lontano. L’autoreferenzialità è demistificata, l’intimismo è assolutorio, la mancanza di un ordine è ordine. Quando il vuoto sembra deflagrare, l’autore scrive, nel vano tentativo di colmarlo. La sua è una scrittura delle piccole cose, degli eventi minimi, dell’istinto selvaggio a fatica imbrigliato, del moto immoto, della visione estatica appena un attimo prima lasciata.

GIUGNO 2017

 

 

I miei amici cantautori: Renzo Zenobi

 

“Tu su quei giorni pomeriggi invernali finiti

costruivi il tuo mondo e parlavi più forte

come tutte le ragazze dietro un angolo per caso incontrato…”

(“Io e te su quei giorni”  – Renzo Zenobi)

Chi conosce Francesco De Gregori e ne ha amato i primi dischi, sa che quei brani degli esordi sono caratterizzati da una strumentazione forse eccessiva ma accattivante con il suono della chitarra a dominare. Chi ha amato quegli arpeggi, in pezzi come “Alice”, “Le strade di lei”,“Niente da capire”, “Cercando un altro Egitto”, “Giorno di pioggia”,  forse saprà che l’autore di quei virtuosismi è Renzo Zenobi, cantautore italiano sempre rimasto ai margini dello showbiz ma dotato di straordinario talento. Il suo destino è stato quello di brillare di luce riflessa, non certo per mancanza di qualità e capacità proprie, ma forse per una strana combinazione di fattori, non ultimo dei quali una innata timidezza che ha reso il Nostro persona schiva, poco incline ad esporsi, ad esibirsi in pubblico. Chi intraprende la carriera artistica, infatti, o è dotato di una buona dose di narcisismo, oppure resta ai margini, se non sgomita per apparire, se non fa carte false pur di arrivare. Zenobi fa parte di quell’ambiente romano, il Folk Studio, che fu agli inizi degli anni Settanta fucina di talenti, perché sfornò tutti i cantautori storici della scuola romana: De Gregori, Venditti, De Angelis, Lo Cascio, eccetera. Ma Zenobi, bravissimo chitarrista, ha legato il proprio nome pure a quello di colleghi più fortunati e famosi di lui, come Dalla, Ron Conte, Nada, e compagnia cantante. È Edoardo De Angelis, altro misconosciuto ma valoroso cantautore italiano, che lo chiama a suonare la chitarra acustica nel primo disco da solista di Francesco De Gregori “Alice non lo sa e poi nei successivi e anche nell’album La mia donna di Giorgio Lo Cascio.

Nel 1975 pubblica il primo album “A Silvia”, intitolato come la sua canzone più conosciuta e apprezzata. L’album è prodotto da De Gregori che stimava molto Zenobi e che infatti lo presentò ad Ennio Melis della RCA, importante produttore discografico di quegli anni.

Nel 1976 pubblica “Chiari di luna” con la copertina disegnata da Francesco De Gregori e con canzoni molto interessanti come “E sei di nuovo solo” e “La musica”.  L’anno successivo Zenobi pubblica “Danze,” nel quale Paolo Conte suona il pianoforte ed il kazoo e collabora anche agli arrangiamenti, insieme a Lilli Greco, musicista molto noto nell’ambiente, citato anche da De Gregori nella canzone “Marianna al bivio” (“Lilli Greco non capisce ma che Dio lo benedica fra un bicchiere e una bistecca mi diverte”). In questo album, la canzone più notevole è proprio quella che dà il titolo all’album. Nei primi dischi, bisogna dire, Zenobi canta proprio come De Gregori, il timbro è lo stesso, non so se Zenobi possa considerarsi un suo epigono, o se invece fu De Gregori che si ispirò a Renzo. Fatto sta che le due voci sembrano interscambiabili come anche i testi delle canzoni, molto onirici, vicini al non sense. Stesso tipo di musica, stesse atmosfere molto rarefatte, simile ispirazione. E d’altro canto, una scuola viene definita tale proprio perché si crea una contiguità fra artisti, con reciproci scambi, si respira la stessa aria e si finisce per contaminarsi, ispirarsi vicendevolmente. Pensiamo alla scuola genovese dei De Andrè, Fossati, Paoli, Bindi, Tenco, oppure alla scuola emiliana dei Guccini, Bertoli, Dalla, Stadio, Carboni, Ligabue. Così per la scuola romana dei Venditti, De Gregori, De Angelis, Baglioni, Minghi, Lando Fiorini, Renato Zero. Nel 1978 pubblica “Bandierine”, con gli arrangiamenti di Ennio Morricone e grande uso dei cori (eseguiti da  I Cantori Moderni di Alessandroni) e canzoni interessanti come “E ancora le dirai ti voglio bene” e “Una sera d’estate”.

Nel ‘79 esce una raccolta intitolata “Silvia”, come la sua canzone più famosa. Questo disco viene prodotto da Lucio Dalla. All’album, che oltre ai vecchi successi, contiene anche l’inedito “Che stella che sei”, nel quale suona il sax Dalla, collaborano gli Stadio e anche Nada; ma  la collaborazione con Dalla prosegue nell’album del 1981, “Telefono elettronico”, dove nella title track Dalla duetta anche con Zenobi: anche a questo disco partecipano gli Stadio. Sempre nel 1981, scrive il testo per “Si andava via”, eseguita da Ron nel suo LP “Al centro della musica”. L’anno dopo viene pubblicato “Aviatore”, con la collaborazione di Marco Manusso e Piero Montanari, con canzoni molto ispirate, come “Temporale”, “La fine di una storia” e la stessa “Aviatore. Dopo questo disco, Zenobi si ritira per qualche anno dalla carriera musicale e fa altre cose, ma nel 1993 ritorna alla discografia con “Zenobi” con canzoni come “Non avere paura”, “Vecchia canzone”, “Pattinatori” Nel 1995 esce  “Proiettili d’argento (per un cuore di lupo)”, cui collabora Lucio Dalla. Ma Zenobi scrive anche per altri artisti come Ornella Vanoni e Ron.

Nel 2012 vince il Premio Amilcare Rambaldi alla carriera e nel 2013 viene pubblicato il nuovo album del cantautore, “Canzoni da leggere, disco di inediti più due rifacimenti di vecchi brani (“E ancora le dirai ti voglio bene” e “La fine di una storia”) allegato ad un libro contenente i testi di tutte le canzoni di Zenobi e con la prefazione scritta da Claudio Baglioni, (Arcana editrice).

Una voce molto limpida, simile a quella di Claudio Lolli, i testi sono molto particolari, vagamente poetici, sospesi fra impegno e leggerezza, non sempre i versi hanno senso compiuto ma spesso sembrano seguire la musica, esserne trasportati come un fiume dalla corrente. In questo caso la corrente è quell’atmosfera dolce, vagamente sognante, che Zenobi crea nelle canzoni, in cui testo e musica sono bilanciati senza che l’uno soverchi l’altra, come spesso accade nelle prime produzioni dei cantautori più famosi, forse per un’urgenza di dire che portava i maggiori a comunicare a discapito di melodia e orecchiabilità.  Zenobi infatti è prima di tutto un musicista e in second’ordine paroliere. E anche le numerose collaborazioni con colleghi illustri confermano che la ricerca espressiva di Zenobi ha proceduto senza inciampi come di chi voglia comunicare ai propri ascoltatori soprattutto attraverso la musica, intesa come forma artistica completa, espressione creativa a tutto tondo.

GIUGNO 2017

Fine della storia

“Sono un ragazzo sincero da dove cresce la palma

sono un ragazzo sincero da dove cresce la palma

e prima di morir io chiedo un verso puro dall’alma

Guantanamera, guajira guantanamera

guantanamera, guajira guantanamera”

( Guantanamera – Tradizionale- Zucchero)

 

“Storia di un viaggio”: così titola Dario Melissano la Premessa al suo libro fotografico “Fin de la historia”,  edito da Lumera Libri (2017). In effetti il volume testimonia il viaggio fatto dall’autore nel novembre 2016 a Cuba, in occasione dei funerali del Presidente Fidel Castro. Nove giorni di lutto nazionale, per quello che può essere considerato un simbolo dell’isola caraibica, che si sono conclusi con la grande parata a L’Avana, in Plaza de la Revolutiòn,  e poi col corteo che ha condotto il feretro di Fidel al cimitero di Santiago de Cuba, sua città natale.  Fin del la historia, dunque, perché davvero la scomparsa del grande leader della rivoluzione comunista cubana segna una svolta nella storia politica della nazione, dopo che il potere era stato preso nel 2006 dal fratello Raul in seguito ai problemi di salute di Fidel e al suo ritiro dalla vita pubblica. Dario Melissano ha voluto trovarsi lì, in quel frangente così importante, all’incrocio della storia e dei destini diremmo. Ha portato con sé i ferri del mestiere, ossia la macchinetta fotografica, ed ha iniziato a scattare. Ha ripreso alcune momenti di grande pathos per la scomparsa di colui che nel bene e nel male ha segnato l’isola di Cuba, baluardo del regime comunista, emblematicamente trasformata fin dall’invasione della Baia dei Porci del 1961, con l’embargo tuttora vigente, in una piazzaforte della resistenza anti imperialistica americana.

Dario Melissano, che vive ed opera a Corigliano d’Otranto, è fotografo, regista, scrittore. Molto impegnato nella difesa del nostro territorio e nella salvaguardia delle sue tradizioni, ha realizzato numerosi cortometraggi coi quali ha partecipato a concorsi e mostre.  Ha esposto le sue fotografie in diverse occasioni, anche in personali, in vari comuni della provincia di Lecce. È stato coautore, nel 2013, insieme col pittore Luigi Latino, della performance “Paura e potere”.  Le foto raccolte nel presente libro sono state esposte nella mostra collettiva d’arte contemporanea organizzata dall’Associazione Culturale “La Fornace”, tenutasi a Galatina dal 25 giugno al 15 luglio 2017.

Difficile rendere le immagini di una città feticcio, una città icona per eccellenza come Cuba, senza scadere nel banale, nel già visto. Eppure Melissano ci riesce attraverso la semplicità, con delle immagini minime della città simbolo, quelle della gente che si reca ai funerali di Castro, ma anche di ragazze e ragazzi che si abbracciano, di lavoratori forti e di donne ossute in preda alla commozione, di bambini che portano un fiore. Soprattutto, Melissano sfugge alla retorica ormai logora della città simbolo Cuba, con il documentare un evento specifico, per quanto mediaticamente clamoroso, ossia quello dei funerali del Leader Maximo, attraverso il breve foto libro. Fermo restando che ogni fotografia è un oggetto di senso, generato dal rapporto fra l’occhio e la mente, secondo la prospettiva semiotica di Jean-Marie Floch, ossia istituisce un rapporto di scambio fra fotografo e osservatore, lo specifico delle fotografie di Dario Melissano attiene alla tecnica del reportage, il servizio fotografico giornalistico realizzato su particolari teatri di guerra o cronaca mondiali. E consentaneo allo spirito del reportage,- in questo sembra ancorato alle teorie di Roland Barthes delle fotografie come impronte, – Melissano cerca di rendere il più fedelmente possibile le tracce dell’evento di cronaca internazionale cui ha assistito.  Lo fa, dandoci un documentario visivo di quanto accaduto nei giorni di Cuba, senza ridondanze artistiche, senza fronzoli, come lui stesso afferma, senza quella visione trasversale che è tipica della ricerca fotografica postmoderna.  Anche le foto non sono tagliate, edulcorate, ma stampate tel quels sulla pagina.

Melissano non allestisce dei set fotografici, la sua fotografia non è staged,  nulla concede alla mediazione artistica e alla plurisemanticità del messaggio visivo, egli non aspetta che accada qualcosa di straordinario per entrare in azione ma riprende il tutto con tecnica realista e ci trasmette la testimonianza di volti, espressioni, cose, per quello che essi sono o sono stati.  Indugia semmai sul dettaglio, sul particolare minimo, di soggetti ordinari, anonimi,  ed è bravo a renderci l’immagine identitaria di un popolo, quello cubano,  che continua a ridere alla vita, nonostante gli schiaffi della politica e le pedate della storia.

Grati per questo, a Dario Melissano.

AGOSTO 2017

 

Pezzulli e pezzelle

Nel centro-destra prove tecniche di ricostruzione. In vista dell’appuntamento elettorale che a grandi passi si avvicina, tutte le forze politiche cercano di organizzarsi. E anche Silvio Berlusconi, quello del Lodo Alfano, delle toghe rosse, della giustizia ad orologeria, è tornato. Forza Italia è il maggior partito dell’assemblaggio  di centro-destra insieme alla Lega Nord. Un punto percentuale divide i due partiti, ed è chiaro che entrambi i leaders, “Qualcuno Salvi” Salvini e Il Cavaliere “mascarato” (e ora pure dimagrito) puntino alla candidatura a Presidente del Consiglio. Ma, un momento, ho detto “è chiaro”? Ma non è chiaro proprio per niente! Se è una legittima aspettativa per Matteo Salvini, che guida con impegno e pugno duro la Lega Nord, che in questi ultimi anni ha fatto passi da gigante in termini di consenso popolare, è invece tragicomico per Berlusconi! Proprio il “Berlusca” nazionale, quello del caso Ruby, delle Olgettine, a ottant’anni suonati, vorrebbe puntare alla leadership del centro destra? Berluscazz, quello del “kapò” a Schultz, delle corna ai G7,  vorrebbe candidarsi a Presidente del Consiglio? Ma lo ricordate Silvio? Sto parlando proprio di lui! Quello delle battute sessiste e volgari, quello dell’amore che vince sempre sull’odio, del partito azienda, sì lui, dice che Salvini, che potrebbe essere suo figlio, deve mettersi da parte perché un partito oltranzista come la Lega Nord non può trainare il centro destra ma deve farlo un partito moderato, Forza Italia appunto, che è di centro.  Berlusconi vuole convincere le altre forze della coalizione, da Fratelli d’Italia a Direzione Italia, che il Segretario Salvini non può fare il Premier, troppo razzista e fanatico, ma deve farlo lui, più morbido e quindi più rappresentativo dell’elettorato medio italiano. Sì, proprio lui, quello che giurava sulla testa dei figli, delle mancate riforme, del berlusconismo, del partito di plastica. “Cribbio”, non c’è mai fine al peggio!

Prove generali di alleanze e coalizioni anche per il centro-sinistra e grandi manovre anche nel Movimento Cinque Stelle, in vista delle elezioni. A proposito del Movimento Cinque Stelle, che in questi giorni festeggia i dieci anni del “Vaffa day”, è tempo di bilanci per il movimento grillino, e i commenti sui media si sprecano, fra sostenitori, critici, detrattori. In particolare, a far luce sulla gestione del partito in questi dieci anni, una gestione, diciamo, molto opaca, è il libro “Supernova. Com’è stato ucciso il M5s” di Nicola Biondo ( o Bruno?) e Marco Canestrari ( o Canestrini?), in cui gli ex grillini, autori del volume, svelano segreti e magagne del movimento più famoso d’Italia.  Cogito, se i Cinque Stelle sono in genere beceri e impreparati, che dire di chi è uscito dal movimento e sputa nel piatto dove ha mangiato?

Ho sentito in radio la pubblicità del caffè Trombetta. Ma è uno scherzo? Subito mi è venuto di pensare a Totò. Mi sono scompisciato pensando all’esilarante gag in cui Totò dileggia l’onorevole Cosimo Trombetta, quel “trombone” del padre e quella “Trombetta” della sorella, che per avere sposato un Bocca, fa “Trombetta in Bocca”. Ridevo da solo in macchina e qualcuno mi avrebbe preso per pazzo se non avessi avuto l’alibi del telefonino; quindi una scena del genere, oggi con l’obbligo di dover indossare l’auricolare, è potuta passare inosservata, tutti ormai parlano al telefonino in macchina, ridendo, schiamazzando e gesticolando nel vuoto. Ma Caffè Trombetta” fa troppo ridere. Che mattacchioni questi industriali del caffè.

Ennesimo licenziamento del regista durante le riprese del film  “Star Wars”, la celebre saga fantascientifica arrivata al nono capitolo. Con quest’ultimo regista mandato via, i fallimenti salgono a quattro. Sembra che Star Wars voglia contendere il non invidiabile record della Giunta Raggi, con un numero incalcolato di assessori sostituiti in appena un anno e mezzo di vita. Sempre di alieni si tratta in effetti, i primi “americheni”, i secondi “Italieni”.

Un altro infermiere killer. Il tedesco Niels Hoegel, potrebbe avere ucciso circa 84 pazienti negli ospedali di Oldenburg e Delmenhorst, nella Bassa Sassonia. Se così fosse, l’infermiere si rivelerebbe il più grande omicida seriale nella storia del crimine tedesco. Ammazzali, questi Tedeschi!

SETTEMBRE 2017

 

48 morto che parla

“I’m death man , I’m death man walking walking…                                                                        E ora come mi presento da mi moglie poveretta, scusa sai mia cara la mia bara era un pò stretta, e ai miei figli Giulia e Marco papà è tornato perché loro sono piccoli per dirgli che papà è resuscitato, che papà è resuscitato….
I’m death man, I’m death man walking…….”

(“Son resuscitato” –  Francesco Baccini)

Sta facendo il giro del mondo virtuale la notizia del morto peruviano resuscitato dopo tre mesi. Boccaloni socialnetworkiani approvano, condividono, commentano. Lo zombie virtuale, tale Alejandro Tanatos, morto per un infarto, si sarebbe svegliato dopo tre mesi poiché grazie al grande freddo della capitale del Perù, Lima, che sorge a 1200 metri di altezza, miracolosamente la sua circolazione sanguigna si sarebbe riattivata rimettendo in moto le funzioni vitali. E il fortunato, sia pure in avanzato stato di decomposizione, sarebbe tornato dalla sua famiglia pronta ad accoglierlo a braccia aperte. Ma Sant’Isidoro di Siviglia! Ci vuole molto a capire che si tratta di una bufala? Tra l’altro, chi l’ha congegnata non ci è andato nemmeno tanto per il sottile. Lo scherzo è del tutto grossolano, volutamente rozzo, le incongruenze macroscopiche. Intanto un uomo morto da tre mesi, come quello ritratto in foto, anche se è schiattato per il male peggiore, dopo la più lunga ed atroce agonia, non si riduce così in un lasso di tempo tanto breve: scarnificato, mangiato dai vermi e con gli occhi già infossati. Quello ritratto in foto è chiaramente uno zombie, cioè un cadavere dissotterrato per qualche strano rito woodoo o magico della antica religione Inca. Seconda incongruenza: la bara non era stata sigillata? Questo revenant si è alzato ed ha aperto il coperchio ed è uscito fuori?  La bara non era stata verosimilmente tumulata? Oppure era stata lasciata fuori dal loculo per un caso fortuito e sempre per un caso fortuito il custode del cimitero si trovava a passare di lì proprio mentre il cadavere emetteva i suoi primi vagiti di rinato? E poi, terza madornale evidenza: il resuscitato si chiama Tanatos di cognome? “Morte” in greco? Ah, nomen omen, è proprio il caso di dire. Corbezzoli, che fantasia questi creatori di false notizie. Adesso Bufale.net, un sito che si occupa di smascherare le bufale, fa sapere che quella stessa foto circola già da tanto in rete, su alcuni siti di folclore “e riguarda un rito, noto come “Ma’Nene”, praticato nell’isola indonesiana di Sulawes. Con questa pratica religiosa, piuttosto suggestiva, i nativi del posto sono soliti, una volta all’anno, riesumare un proprio caro, vestirlo e ripulirlo, per portarlo in giro del paese, in modo che la gente possa toccarlo (esorcizzando la morte) e, nel contempo, chiedergli l’assistenza e la protezione per l’anno a venire. A fine evento, la salma viene riportata nel luogo dell’eterno riposo, con la popolazione locale ormai confortata dalla certezza che i propri avi veglieranno sulle loro sorti per ancora un anno”. Posto che sul web è lecito dubitare di tutto, e quindi non solo delle bufale ma anche degli smascheratori di bufale, se non si tratta della religione dell’Indonesia, di qualche altra pratica religiosa comunque si tratta. Si capisce anche che chi ha messo in giro la fake new sia italiano e probabilmente napoletano. Infatti, gli anni del resuscitato sarebbero 53 (secondo altri siti 54): questo numero nella Smorfia napoletana corrisponde al “vecchio”. Inoltre, sommando le lettere del nome dello zombi viene fuori 16, che è “il culo”, cioè la fortuna; e che fortuna deve avere uno che muore a risurgere! Mi dispiace quindi deludere i beoni della rete, adoratori del falso, scopritori dell’ovvio, cercatori della verità su Internet, mitomani compulsivi. Per il momento, dalla morte corporale non si resuscita.

I due fidanzatini californiani Joseph Orbeso e Rachel Nguyen vanno a fare trekking nel parco di Joshua Tree in California e si perdono. Poi, accorgendosi che vani sono i loro sforzi per tornare indietro, per la disperazione decidono di farla finita e si uccidono a vicenda. Posto che la follia umana non ha limiti, è come il pozzo di San Patrizio, le Vore di Barbarano, il mare di Leuca, posto pure che è meglio, anzi meno peggio, che uno spostato faccia del male a sé stesso piuttosto che agli altri, mi chiedo: questi due imbecilli non potevano andare a fare una passeggiata sul Sunset Boulevard a Los Angeles, invece che nel deserto della California?  Certo, sul Sunset Boulevard si corre il rischio di essere falciati da un carro dell’Isis, perché per ogni deficiente c’è sempre un deficiente che lo è di più, secondo la legge di Murphy, ma nel deserto senza acqua e cibo le probabilità di tirare le cuoia  sono molto più alte!  Ancora c’è gente che pensa di sfidare la natura senza esserne sopraffatto?  E poi, si regala una passeggiata nella impervia foresta ad una fidanzata per il suo compleanno? Attraversatori di deserti, sfidatori di pericoli, fidanzati in para col trekking, pattinatori dell’assurdo, perché non convincersi che è oltraggio sfidare volutamente il destino e che dalla morte non si ritorna?

OTTOBRE 2017

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