Un viaggio nel tempo ovvero Cultural Tour. Ospiti illustri di Puglia: una collana dell’Editore Kurumuny di Calimera

di Gianluca Virgilio

Angelo Semeraro, che tutti ricordano come fondatore ed artefice del corso di laurea di Scienze della Comunicazione dell’Università del Salento oltreché come insigne studioso, prima di lasciarci nello scorso maggio ci ha fatto un ultimo dono, la collana editoriale Cultural Tour. Ospiti illustri di Puglia, pubblicata nel 2017 presso l’Editore Kurumuny di Calimera. Si tratta di una serie di libretti di formato tascabile, estratti dalla letteratura odeporica riguardante la Puglia e in particolare il Salento, ben curati e contestualizzati dallo stesso Semeraro e recanti tutti una Nota sull’Autore e alcuni una Nota critica affidata a studiosi di vaglia come Franco Martina (Guido Piovene, Dall’Adriatico allo Jonio), Maggie Armstrong (Craufurd Tait Ramage, Gallipoli Leuca Castro), Giovanni Dotoli (Bari), ecc. Raramente ogni libretto supera le quaranta pagine e, ove si tratti di autore di lingua inglese, viene fornito anche l’originale leggibile capovolgendo il libro (è il caso, per esempio, del già citato Ramage e di Janet Ann Ross, Imbelle Tarentum). È evidente che si tratta di un’operazione editoriale che va incontro alle esigenze del turista moderno, i cui tempi brevi e veloci non sono certo quelli del viaggiatore del Gran Tour, che viaggiava a dorso di mulo o, nel migliore dei casi, in carrozza. Pertanto, con una spesa minima (tre euro a libretto), l’odierno visitatore del Salento potrà apprendere quanto i suoi più lenti predecessori, in anni ormai lontani, hanno visto e scritto sulla nostra regione, in particolare da Bari in giù, con una predilezione, non so se di quei viaggiatori o piuttosto del curatore e dell’editore, per la vecchia Terra d’Otranto, che oggi chiamiamo Salento, ovvero le province di Lecce, Brindisi e Taranto. La collana nel suo insieme, di cui si dirà per excerpta, è utile anche al lettore stanziale, che desideri fare un viaggio nel tempo per vedere come erano i luoghi nei quali oggi viviamo, quali le persone che li abitavano e quali trasformazioni sono intervenute dal Settecento ad oggi.

Un abisso si apre nella nostra mente quando, per esempio, vediamo con gli occhi dello svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins, Terra d’Otranto. Viaggio nel Regno di Napoli, quanto rimane, ancora nell’aprile del 1789 (quale anno!), della famosa foresta di Supersano: “non incontrammo che pascoli, costeggiati nell’interno da foreste … la foresta di Supersano” (pp. 11-12), oggi del tutto scomparsa; e quando lo scozzese Craufurd Tait Ramage, Gallipoli Leuca Castro, ci racconta – egli viaggia nella primavera del 1828  – che “Il miglior olio di tutta Italia viene prodotto nelle campagne intorno a Gallipoli e viene esportato in Inghilterra a bordo di navi inglesi” (p. 14): l’olio lampante, utilizzato per l’illuminazione pubblica della città di Londra; e ancora quando apprendiamo dal francese Jean B. Claude Richard Abate di Saint-Non, Viaggio pittoresco nella Magna Grecia, che nella primavera del 1779, nel brindisino, le strade erano impraticabili e bastava una pioggia per far sprofondare i muli nel fango. Dove oggi masse più o meno disciplinate di turisti si imbarcano per l’Albania o per la Grecia, allora era raro vedere un viaggiatore (“un viaggiatore a Brindisi è un evento insolito” p. 10). Gli alberghi, poi, lasciavano molto a desiderare (l’albergo “sembrava più una scuderia che altro” p. 11). Lamentele queste che tutti i viaggiatori tra Sette e Ottocento ripetono in continuazione. In mancanza di alberghi, si alloggia presso i monaci dei conventi, sempre molto ospitali, incontrati lungo la strada. Il che varrà loro la riconoscenza di Carlo Ulisse De Salis Marschlins, che a dorso di mulo arriva fino a Leuca, sostando e rifocillandosi appunto in più di un convento. Oltre ai tanti meriti degli ordini monastici v’è anche quello di dare ricetto ai viaggiatori: “Anche oggi il viaggiatore desideroso di raccogliere utili cognizioni, e di seguire il cammino della scienza, fallirebbe nel suo proposito, in più di un paese ancora mezzo barbaro d’Europa, se i conventi ospitali non lo accogliessero e non lo assistessero, onde egli raggiunga il suo fine.” (Terra d’Otranto. Viaggio nel Regno di Napoli, p. 23). Marschlins ha per “principale obiettivo” del suo viaggio “la ricerca e la conoscenza dei diritti Baronali” (p. 36), ch’egli enumera senza tralasciare il diritto di condanna a morte e quello di “cuneatico, di godere per primi ogni sposa nella prima notte di matrimonio e benché questo diritto non  venga ormai richiesto in natura, una certa somma in denaro può domandarsi in sua vece.” (p. 39). Il discorso di Marschlins si inserisce a pieno titolo nel dibattito sul ruolo della nobiltà che caratterizza il XVIII secolo. La sua critica va alla nobiltà parassitaria di Terra d’Otranto che si è inurbata nella capitale, Napoli, abbandonando la cura delle campagne e riducendo in miseria il ceto dei contadini. Ecco quale vita conducono i baroni inurbati: “Ma dacché hanno cominciato ad assaporare i piaceri della capitale e della Corte, ed a barattare i loro gloriosi ed antichi castelli per le moderne case di carta pesta; ed i nobili divertimenti della caccia, per gl’insensati giochi d’azzardo; e ad avere equipaggi dorati dove si gloriano di far parata di se stessi lungo le vie della capitale, dissipando oziosamente il loro tempo; e dacché invece che alla tavola ospitale, dove il ricordo delle gesta gloriose degli antenati risuonava insieme al tintinnio dei bicchieri, le loro serate si passano in teatri ammorbati di vapori asfissianti, dove ninfe devote alla prostituzione, con le loro movenze voluttuose, e gli abiti e le parole, snervano le menti dei giovani più equilibrati, e trasformano i discendenti dei più prodi cavalieri in tante bertucce imbellettate e ciarloni senza cuore, i forzieri di ferro non sono più ricolmi di oro, e il tesoro è rimpiazzato da liste di debiti, per cui sono impegnate le entrate di parecchi anni ancora da venire.” (pp. 44-45). Certo, esistono delle eccezioni (il principe di Francavilla), ma, appunto, sono eccezioni. Questo è lo stato di profonda decadenza della nobiltà alla fine del Settecento. Più di un secolo e mezzo dopo, nel caldo luglio del 1959, Pier Paolo Pasolini, al termine de Il viaggio jonico, scoprirà sullo scoglio sotto il faro di Leuca, che nell’immaginario collettivo divide il mare Jonio dall’Adriatico, l’icona funebre (il barone C.) della fine di quel mondo: “Scopro una specie di abisso, che fende lo scoglio fino alla schiuma del mare. “Proviamo a scendere” dico. I ragazzi fanno strada: ci caliamo, a piedi scalzi: giungiamo a una specie di terrazzerà [sic] naturale, liscia scura. Lì c’è un cadavere. Enorme, giallo, glabro. Al nostro arrivo il cadavere si muove, ci guarda, e, senza dir nulla, comincia a vestirsi, la canottiera, la maglia, i calzoni, i pedalini, i sandali. “Buongiorno!” dice, se ne va, inerpicandosi, polemico, misantropo, leggero. “È il barone C.” mi dice, piano, uno dei ragazzi” (pp. 15-16). E noi comprendiamo che in quel “cadavere” ambulante è il punto terminale della parabola discendente che ha percorso la nobiltà nel lungo processo di decadenza, anche in Terra d’Otranto.

Come eravamo ce lo dice ancora Pasolini in visita a Taranto, in una pagina che potrebbe figurare tra le scene dei suoi Comizi d’amore: “Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti. File di “camerini”, come qui si chiamano le cabine, sulle palafitte, traballanti, sconnessi, aperti a tutti i venti (e a tutti i ladri). Nello specchio d’acqua che c’è in mezzo, si svolge ogni giorno il vero, clandestino spettacolo: il bagno delle donne. Vedi file di ragazzetti, giovani e uomini alle ringhiere in pezzi, poi ti avvicini, e ti accorgi che stanno guardando le donne che prendono il bagno. (…) Loro ignorano tutto: sguazzano nell’acquetta a loro riservata, bassa, blu, e pensano al loro futuro di madri, dopo la breve tragedia dell’amore, che sta per venire.

I maschi, intorno, al sole bruciante, trionfale, danno intanto inizio, davanti ai miei occhi, allo spettacolo del brulichio infinito, che mi accompagnerà d’ora in poi, per tutta la costa pugliese. Ogni altro brulicare già a me noto è nulla, in confronto a questo. Sono svelti, stretti di anca, grandi di occhio, lunghi di naso: un’elica gli gira dentro, l’elica del sesso, della curiosità, della voglia di esistere.” (pp. 11-12).

A Taranto era giunta molti anni prima l’inglese Janet Ann Ross, nella primavera del 1884, e vi aveva incontrato il giovane archeologo galatinese Luigi Viola (classe 1851), già impegnato nell’opera di recupero dei reperti superstiti greci. In Imbelle Tarentum la Janet descrive la processione del Venerdì Santo, ma soprattutto la sua attenzione è attratta dai ricordi dell’età antica e dal rituale del tarantismo. Il paesaggio marino la attrae irresistibilmente tanto che, dice, “si è tentati di provare rimorso per il fatto che un luogo così tranquillo e ricco di ricordi classici sia destinato a diventare un arsenale e un porto trafficato” (p. 30). La stessa osservazione farà molti anni dopo (1956) Guido Piovene, Dall’Adriatico allo Jonio, quando dirà che “la marina [militare] è il sostegno e insieme la croce di Taranto.” (p. 26). Né la Janet né Piovene avevano visto lo scempio che avrebbe provocato dall’ILVA a partire dalla metà degli anni sessanta! Entrambi vedono le grandi coltivazioni di mitili del Mar Piccolo, dove a lunghi pali sono legate corde interminabili di cozze nere. Anche questo, oggi, è un mondo finito a causa dell’inquinamento ambientale. Bella la descrizione che Piovene ci dà della vecchia Taranto: “Per riparare l’interno della città dagli attacchi nemici, forse dal vento e dal calore, le abitazioni lungo il porto formano un muro ermetico, ed i vicoli aperti perché si possa entrarvi, molto più stretti delle calli più strette di Venezia, piuttosto che vicoli sono interstizi, fessure tra una casa e l’altra, quasi fossero tagliati con una lama. La città interna è chiusa come in un guscio d’uovo.” (p. 29).

A Taranto Piovene giunge dopo aver visitato Bari e la Valle d’Itria. Segnalo in Bari la pagina sull’”orientalismo” barese: “Fondamentale carattere levantino è l’essere portati in modo quasi esclusivo al commercio. Anche le industrie dei baresi sorgono quasi sempre collegate al commercio; il vero scopo è trafficare, l’industria fornisce i prodotti. Invece per l’industria pura mancano il gusto, il mordente, la disposizione a rischiare.” (p. 8), il che spiega bene la fortuna della Fiera del Levante. V’è dell’orientalismo anche nella “segretezza di cui rimane ancora avvolta la vita femminile”: a Bari anche “l’amore prende i caratteri dell’Oriente” (p. 8); come in Oriente, infatti, le donne si vedono poco per strada, nei ristoranti o nei bar. In generale, la vita di strada a Bari è un po’ spenta, tanto da farla assomigliare a una città del nord, mentre  Taranto “è vivace e mossa; la sua vita stradale è euforica; vi spira un’aria esilarante, stimolante, direi cantabile” (Dall’Adriatico allo Jonio, p. 22). In generale, Piovene procede per accostamenti e confronti e contrapposizioni. Per esempio: “Commerciale e borghese, [Bari] ha scarse tradizioni di aristocrazia baronale e terriera, a differenza, per esempio, di Lecce e Brindisi.” (Bari, p. 9). La nuova Bari, le cui strade sono solo “un passaggio, con funzione soltanto pratica, non un salotto e un palcoscenico” (Bari, p. 10), e qui Piovene pensa a Lecce, come si dirà. Nelle strade di Bari vecchia è possibile non solo vedere “lo stupendo romanico pugliese, tinto d’influenze orientali” (Bari, p. 11), ma anche sentire il profumo delle “budelle d’agnello, arrostite e vendute all’aria aperta, che diffondono il loro odore nelle viuzze senza vento” (Bari, p. 12). E poi Bari ha “La Gazzetta del Mezzogiorno”, la Casa editrice Laterza, l’Università, ma ha anche, nella sua provincia, una classe di rentier che non investono: “Poiché molte famiglie proprietarie hanno la loro sede principale in altre regioni, le rendite delle loro terre e dei loro commerci non sono spese nella Puglia; oppure, messe nelle banche, fuggono verso il Nord…” (Bari, p. 19), lasciando in miseria la folla dei braccianti.

Da Taranto a Lecce, dove Piovene giunge nella prima decade del maggio 1956, in coincidenza con le celebrazioni del Congresso Eucaristico. Egli legge subito Lecce come “l’antitesi di Bari: Bari è borghese ed trafficante; il carattere dei leccesi inclina invece va una gentilezza un po’ ironica, a un distacco intellettuale (…). Lecce conserva un nucleo di nobiltà locale, vecchie famiglie aristocratiche le cui sostanze, in parte, resistono ai tempi…” (Dall’Adriatico allo Jonio, p. 34), e presenta uno stacco troppo grande “tra la classe alta e il popolo, con poca borghesia intermedia” (p. 35). Osservazione giusta, ma accompagnata da una certa reticenza dell’autore, che, come giustamente rileva Franco Martina nella sua Nota critica, omette “almeno un accenno alle proteste e alle rivolte contadine” (p. 61) degli anni precedenti, con le quali si chiedeva una maggiore giustizia sociale.

Ed ecco lo spazio urbano leccese disegnato negli ultimi secoli dall’aristocrazia agraria salentina: “Se si entra nella parte vecchia, le molte chiese barocche e i palazzi barocchi, ora di faccia ora di sghembo, in piazzette e stradine, e disposti tra loro in angoli di gusto scenico, si direbbero una serie di piccoli teatri. Tutto sembra disposto e ornato per un lieve gioco teatrale…” (p. 38). Così Santa Croce è un “tempio-teatro” (p. 42). Fatto è che il barocco leccese “non è strutturale, tanto che, nelle chiese, accetta per lo più la forma delle chiese romane del secolo XVI; ma la nasconde sotto una cascata d’ornamenti…” (p. 40). Dunque, il barocco come un rinascimento camuffato, dissimulato, coperto, nascosto dietro un infinito numero di orpelli. Non è un caso che questa mistificazione non era piaciuta affatto a Jean B. Claude Richard Abate di Saint-Non, Viaggio pittoresco nella Magna Grecia, che nella primavera del 1779 giunge a Lecce portando con sé uno spirito antibarocco e neoclassico che gli fa disprezzare gran parte dei monumenti leccesi. Dopo aver attraversato da nord “l’eterna pianura triste come gli ulivi che la ricoprono” (p. 21), vede Lecce e così severamente la giudica: “Questa città sarebbe una delle più belle esistenti se fosse stata costruita con un po’ di gusto in più, poiché la bellezza della pietra e dei materiali usati le donano la più bella apparenza ma l’uso che se ne è fatto è detestabile: tutti gli edifici sono sovraccarichi della più brutta e inutile scultura”. Relatività del gusto e della sensibilità soggettiva, si dirà; ed invece qui è in ballo qualcosa di più, un certo modo di organizzare lo spazio urbano che identifica una civiltà differenziandola da ogni altra. Così oggi, in epoca di revival neobarocco, nessuno darebbe ragione all’Abate di Saint-Non come stenterebbe a capire l’impressione mortuaria di Pasolini davanti al “cadavere” del barone C.

Insomma, senza pretese esaustive, penso che questa collana sia davvero molto istruttiva. Ci insegna a guardare alla storia della Puglia e in particolare del Salento con gli occhi dei viaggiatori di provenienza e tempi diversi, cioè col distacco, che inevitabilmente manca allo stanziale come al turista mordi e fuggi, entrambi vittime molto spesso di una narrazione acritica, appiattita sul presente, veicolata a scopi turistico-commerciali, e dunque incapace di raccontare la storia vera di un luogo.

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