Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) VIII

di Gianluca Virgilio

Disciplina e legge. La differenza è spiegata bene da Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005: “Anche il meccanismo disciplinare stabilisce in permanenza il lecito e il vietato, perché l’oggetto proprio della disciplina non è ciò che non si deve fare, ma ciò che va fatto. Una buona disciplina è quella che vi dice, in ogni momento, che cosa dovete fare. E se si prende come modello di saturazione disciplinare la vita monastica – che ne è stata il punto di partenza, la matrice –  si vede che nella sua forma perfetta ciò che fa il monaco è interamente regolato dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, mentre quel che resta indeterminato non è detto e perciò è vietato. Nel sistema della legge l’indeterminato è permesso, mentre nel sistema disciplinare ciò che è determinato corrisponde a ciò che va fatto e perciò tutto il resto, essendo indeterminato, è vietato.”

Mi chiedo se noi viviamo in un regime disciplinare ovvero legale. Siamo soliti pensare di vivere in un regime legale. C’è qualcosa di indeterminato (vs non previsto dalla legge) che l’uomo comune possa fare? Se mi guardo intorno, vedo che ogni ambito della vita è regolato dalla legge e che nulla è lasciato nell’indeterminato. L’eccesso legislativo (quale uomo, che non sia un navigato leguleio, può dire di conoscere tutte le leggi?) con il suo seguito di regolamenti applicativi nei diversi campi sociali, rende difficile per l’uomo comune stabilire che cosa vi sia al di fuori della legge, quel tutto il resto, di cui parla Foucault. Non nego che qualcuno possa rinvenire un ambito extra legem, dentro il quale sia possibile agire senza contravvenire alle leggi (chi sarà mai costui, se non qualche super-ricco che disponga di un esercito di avvocati alla ricerca di nuove zone di caccia e razzia?), ma l’uomo comune rimarrà sempre stretto nella maglia della rete legislativa, che gli ordina in ogni momento della sua vita che cosa deve fare; sicché quest’uomo, cioè quasi tutti gli uomini, di fatto non vive in un sistema legale, ma in un sistema disciplinare, dove tutto è determinato, sebbene poco importi che il resto sia vietato. Potrebbe anche non esserlo, per l’uomo comune non cambierebbe nulla. La disciplina si è sovrapposta alla legge, creando un nuovo schiavo, molto diverso da quello dell’antichità. Penso a Plauto e al suo servus callidus, inventore di mille trovate narrative, infinitamente più libero dello schiavo moderno, ovvero dello schiavo disciplinato, lo schiavo-automa. Lo schiavo del nostro tempo crede di vivere in un sistema legale, mentre è solo un moderno monaco cui è stato sottratto tutto il resto, ovvero quanto un tempo, essendo indeterminato, gli era severamente vietato.

In conclusione, questo e non altro vogliamo dire quando affermiamo quasi compiaciuti che la nostra vita è disciplinata dalla legge.

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Sotto la doccia. Il potere degli uomini è sempre stato fondato sulla capacità di disciplinare l’acqua: il potere delle civiltà idrauliche della Mesopotamia, dell’Egitto, dell’India e della Cina, ecc. Ho pensato a tutto questo mentre facevo la doccia per riavermi dalla calura estiva e improvvisamente ho capito quanto grande sia il potere che ci pervade, se ci è concesso di fare comodamente una doccia nelle nostre case. Da dove arriva quest’acqua benedetta, chi l’ha potabilizzata, incanalata, condotta, anche da molto lontano, fino al tubo della mia doccia per il mio benessere? Un tale potere non può che essere immenso, paragonabile solo a quello distruttivo della bomba atomica!

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Illusioni. Dei genitori sono fieri che la propria figlia si sia laureata in una rinomata università privata e che ora sia subito richiesta dalle grandi aziende multinazionali, che la manderanno qua e là per il mondo, per un magro stipendio  – ma si può far carriera! -; sono fieri, ma anche un po’ tristi, perché questo vuol dire che non rivedranno più la propria figlia o la rivedranno saltuariamente. Penso ai sacrifici dei genitori, che si sono svenati per mantenere la figlia nella rinomata università privata ed ora la consegnano ad un’azienda che la sradicherà dalla sua terra e ne farà una schiava intellettuale al proprio esclusivo servizio. Questi genitori si sono pentiti e già rimpiangono la lontananza della figlia asservita. Troppo tardi. Il moderno capitalismo ha ritirato la sua rete!

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Come si viaggia oggi. Abbiamo prenotato in internet un appartamento in una città europea, utilizzando la carta di credito. La somma è stata immediatamente incassata. Ci è stato dato l’indirizzo, un codice di accesso all’edificio, un codice per ritirare le chiavi da una cassetta, e siamo stati informati sul nome della stanza, tutto online. Arrivati in loco, non sapevamo come fare, ma per fortuna una gentile turista americana, che conosceva la procedura, ci ha aiutato.

Terminata la vacanza, abbiamo lasciato l’appartamento chiudendo a chiave la porta alle nostre spalle; poi, utilizzando un codice, abbiamo aperto una cassetta all’ingresso dell’edificio, vi abbiamo depositato la chiave e siamo andati via, senza stringere la mano o guardare negli occhi nessuno; il tutto in modo molto asettico. Morale della favola: non sappiamo chi ci ha affittato l’appartamento in cui abbiamo alloggiato. Deduzione: gli uomini vanno inventando sempre nuovi modi per vedersi quanto meno è possibile.

Altro esempio. Il treno di molte metropolitane delle grandi città è teleguidato da un sistema informatizzato. Viaggiare in un treno guidato da qualcuno che ci rimane invisibile o da un computer suscita in me un pensiero analogo di grande estraneità tra gli uomini. La tecnologia rende superfluo il contatto sensoriale diretto.

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Nella metropolitana di Londra, tra mille volti di passeggeri sconosciuti. C’è chi sta chino sul cellulare, molti dormono a qualsiasi ora del giorno, morti per la stanchezza. Sono i volti di ogni etnia, belli o brutti, riposati o stanchi, incattiviti da un’esistenza difficile o compassionevoli, sono i volti di mille persone, ma in realtà quello che io vedo è un grande gigantesco unico corpo dai mille volti che il treno sballotta con uno sferragliante movimento sopra le rotaie sulla superficie o nelle budella di una città che esso stesso ha costruito per muovercisi dentro nel modo più rapido e comodo possibile. L’affidarsi di centinaia di passeggeri nell’Underground ad una sola macchina (fosse anche un remoto computer), che dispone delle loro vite, mentre il treno stride paurosamente sugli scambi, sfiorando altri convogli che corrono a cento all’ora in senso contrario, la fiducia che non ci sia alcun pericolo in vista, che tutto andrà bene e si arriverà a destinazione incolumi, questa fiducia che si legge nelle movenze di chi sfoglia il “Metro” o l’”Evening Standard” della sera e in chi si bacia e s’abbraccia in un canto o in chi dorme sul sedile con le cuffiette alle orecchie; ebbene, questo cieco affidarsi è la prova che siamo un sol corpo e come un sol corpo ci muoviamo.

Tutto questo non si comprende molto bene se si vive in un piccolo paese.

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Benjamin R. Barber, Consumati, Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino 2010, p. 166, descrive bene il rapporto giovani-adulti nell’era del consumismo globale: “Il marketing trasforma Peter Pan nel proprio pifferaio magico: finge di liberare i giovani dai vincoli della disciplina adulta per imporre loro la disciplina del mercato del consumo. Con la sua musica, il pifferaio magico di Hamlin incantava i bambini trascinandoli lontano dal villaggio perché i genitori non intendevano pagarlo per averli aiutati a liberarsi dai topi; il pifferaio magico del consumo li attira con lusinghe cercando di eludere il controllo dei genitori, i “custodi” che si oppongono al loro ingresso nel tempio del consumo. Così come un tempo fece il pifferaio magico, il mercato oggi finge di dare potere ai bambini che seduce, dicendo loro che saranno resi potenti dall’esautorazione dei grandi. Una volta liberati da genitori possessivi, di fatto, vengono imprigionati in un unico, grande ipermercato della mente infantile.”

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A tutti i conferenzieri di questo mondo, suggerisco di tenere in seria considerazione quanto afferma a questo proposito F. Dostoevski, I demoni III, i, Einaudi, Torino 1974, p. 469: “In generale, ho osservato che, si trattasse anche di un supergenio, in una pubblica riunione letteraria di carattere leggero, non si può occupare impunemente l’attenzione della gente per più di venti minuti.”

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La terrazza di una casa abitata da africani è sempre piena di panni colorati che svolazzano al vento, mentre le terrazze degli europei sono spoglie oppure offrono alla vista ben pochi sbiaditi colori (solo d’estate, alcune diventano giardini). Osservazione fatta guadandomi intorno sulla terrazza di casa mia.

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Mediazione sullo scrivere di Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, Mondadori, Milano 1992, p. 107: “Scrivere, quando è un fatto come si deve, (come potete star certi che ritengo di fare io) è solo un modo diverso di conversare: come nessuno, che sappia il fatto suo, in buona compagnia, si azzarderebbe a dire tutto; – così nessun autore, che comprende i giusti confini del decoro e della buona educazione, pretenderebbe di pensare tutto: il rispetto più autentico che possiate dimostrare all’intelligenza del lettore, consiste nel fare amichevolmente a metà, e lasciargli qualcosa da immaginare, a sua volta, al pari di voi.”.

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Il desiderio di evadere dalla realtà consueta è la prima motivazione di un viaggio di piacere. Desideriamo evadere perché la vita di tutti i giorni è insoddisfacente, e lo è perché vi è in essa un che di alienante. Noi non facciamo mai quello che realmente vogliamo o sentiamo di fare, ma solo quello che dobbiamo fare. Così il luogo dove viviamo non ci appartiene, perché in esso noi dobbiamo risiedere per assolvere al nostro dovere. Viaggiare significa, dunque, andare verso un tempo ed uno spazio sottratti alla costrizione. E già lo stesso progettare un viaggio ha sulla psiche un forte potere liberatorio.

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Come funziona il mercato del consumo lo spiega bene Benjamin R. Barber, Consumati, Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino 20109, p. 187: “Il mercato non ci dice cosa fare, ci dà ciò che vogliamo, dopo averci “detto” che cosa vogliamo e averci aiutato a volerlo (questo è il marketing)”.

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Strana sensazione, che mi accompagna già da molti anni: quando scrivo mi sembra di togliere tempo alla lettura, quando leggo penso che dovrei dedicarmi alla scrittura. Se, per miracolo, fosse possibile leggere e scrivere contemporaneamente…! Ma forse è proprio questo che accade quando scrivo e quando leggo! E non me ne accorgo.

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Come cambiano le abitudini. Fino a qualche tempo fa, la prima cosa che facevo la mattina, appena sveglio, era di accendere il televisore per ascoltare le notizie del giorno; e dunque la mia colazione era farcita di stragi, terroristi, naufraghi, guerre, omicidi, e facce di politici… Ora non più: lascio spento il televisore e mi limito all’ascolto dei rumori della casa o provenienti dal giardino, dalla strada e dalle case vicine. Credo che questo sia un modo più naturale e sicuramente meno violento di aprire la mente al mondo.

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Francesco Jovine, l’autore de Le terre del Sacramento, a Galatina nel novembre del 1948: “Mi capitò l’anno scorso di novembre a Galatina in Puglia. Chiesi a una povera donna che mestiere facesse il marito. Mi disse: “Fa l’abbracciante”. Quando si accorse che non avevo capito, aprì le braccia con un gesto amoroso e patetico insieme. Aggiunse: “Vuol dire che abbraccia ogni lavoro”.

Il gruppo che mi stava intorno assentiva col capo. Si comprendeva che se tutti i presenti avessero dovuto definire la loro vita, nei suoi caratteri essenziali, avrebbero allargato le braccia con quella stessa aria dolente.” (il brano si legge in F. Jovine, Scritti critici, a cura di Patrizia Guida, Milella, Lecce 2004, pp. 664-665; già pubblicato ne “L’Unità” dell’11 giugno 1949 col titolo L’abbracciante).

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Viaggio non per conoscere – questo viene di conseguenza -, ma per essere altrove. Questa è la ragione per cui, quando mi capita di viaggiare, non mi do un gran da fare per vedere quante più cose è possibile, ma anzi mi sforzo di conservare le mie abitudini e mi è gradito continuare a fare quello che sempre faccio. E tuttavia traggo un piacere estetico enorme dall’essere altrove, che per me significa sentire altri rumori, altre voci, vedere una luce diversa, essere in clima diverso, vivere dentro un flusso vitale altro rispetto al consueto, tra gente che vive in uno spazio che solitamente non percorro, dunque essere in un luogo che non riconosco come familiare e per questo può darmi l’illusione molto realistica che tutto possa ancora avvenire, poiché un nuovo spazio corrisponde sempre a un nuovo tempo della vita. Essere altrove significa vivere questa illusione, ma coi piedi sempre ben piantati a terra – e infatti, come ho detto, cerco di conservare le mie abitudini –; un’illusione destinata a tramontare presto, appena tornati a casa. Solo se la vacanza è sufficientemente lunga, anche riprendere la vecchia vita può sembrarci qualcosa di nuovo.

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Ognuno di noi è testimone solo di un piccolissimo spicchio di tempo e spazio nel quale è vissuto. Leggere molti libri o viaggiare può dare l’illusione di estendere il proprio dominio sullo spazio e sul tempo. E così pure ci compiacciamo di ricordare qualcosa che sembrava perso nei recessi della memoria: siamo felici di non avere perduto ancora quello spicchio di spazio-tempo che abbiamo avuto in sorte da vivere.

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Rilegare i libri. F. Dostoevski ne I Demoni, Einaudi, Torino 1974, p. 567: Satov parla alla moglie Maria e le spiega il senso del rilegare i libri: “Perché il leggere un libro e il farlo rilegare rappresentano due distinti periodi dell’evoluzione, e lunghissimi. Lui [l’uomo] dapprima si abitua, a poco a poco, alla lettura, durante secoli s’intende, ma tratta male il libro e lo butta qua e là, considerandolo come una cosa poco importante. La rilegatura invece denota già rispetto per il libro, denota che lui non solo ha appreso ad amare la lettura, ma l’ha anche riconosciuta come una cosa seria.”

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Un terreno rimasto a lungo incolto e abbandonato, che il tempo ha reso inservibile e inabitabile, un luogo-scarto risultato dall’intersezione imperfetta di alcuni svincoli stradali, un pezzo di terra che la natura si è ripreso tra una striscia di asfalto e un’altra, appena oltre il guad-rail che delimita la carreggiata, un luogo dove l’uomo non mette piede e vi cresce il sambuco, l’ailanto o altra pianta infestante, un luogo da lungo tempo disantropizzato; un fazzoletto di terra tra un palazzo e un altro, su cui il sole passa veloce solo a mezzogiorno e vi cresce il muschio e qualche pianticella stentata: è questa la natura?

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Qualche altra citazione di Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, cit.: 1) L’episodio di zio Toby che salva una mosca con gesto misericordioso, che è per il narratore una “lezione di benevolenza universale” (pp. 111-112); 2) “finché vivrò o scriverò (che nel mio caso è la stessa cosa)…” (p. 159): ottimo esempio di congruenza del vivere e dello scrivere; 3) Sulla critica: “Di tutti i gerghi che si parlano in questo mondo gergale, – sebbene il gergo degli ipocriti possa essere il peggiore, – il gergo della critica è il più tormentoso!” (p. 177): mi vien fatto di pensare che quando il gergo dell’ipocrita è anche quello del critico, allora siamo davvero perduti…; 4) “– definire – significa diffidare” (p. 213): aforisma originalissimo, poiché rivela l’istinto che muove chi definisce: la diffidenza, ovvero la mancanza di fiducia”.

 

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