Il sale della critica: la scrittura autobiografica in Mario Marti

di Gianluca Virgilio

Ha del miracoloso la fecondità del principe degli italianisti salentini e decano di quelli, suppongo, di tutta la Penisola, Mario Marti. A novantasette anni suonati, che saranno a maggio novantotto, egli ci regala – a distanza di tre anni dall’ultimo Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica, Galatina, Congedo, 2009 – un altro libro, che, come sempre, è una nuova ghiottoneria: Il trilinguismo delle lettere “italiane” e altri studi di italianistica, a cura di Marco Leone, Congedo Editore, 2012, pp. XII-168. Qui Marti nella composizione del libro si è fatto aiutare da Marco Leone, che firma l’Introduzione (pp. V-XI), nella quale il giovane ricercatore leccese riassume il contenuto dei singoli saggi.

Davanti al lettore appare subito, dunque, una sorta di lanx satura, un piatto ricolmo di primizie, ch’egli potrà delibare a piacere leggendo il volumetto, come sempre ben rilegato dall’editore Congedo di Galatina, che gli ha assegnato il numero XIX della collana Humanitas, collezione di studi e testi di Scienze Umane, curata dallo stesso Marti. In effetti, questo modo di offrire al lettore i risultati dei propri studi¸ raccolti a distanza di due, tre, quattro anni dal loro primo apparire, credo che sia una caratteristica dello studioso soletano (“Soleto, che, se non è il mio paese (di nascita), è sicuramente il paese mio (di parentela, di cuore, di ricordi)” p. 147). Anche in questo caso, come il lettore potrà evincere dalla Nota bibliografica posta in calce al libro, i quattordici saggi qui riuniti hanno visto la luce in riviste nazionali, come il “Giornale storico della letteratura italiana”, che continua ad essere condiretto da Marti, o locali, come “Apulia” del compianto Aldo Bello e “Alba Pratalia” di Rosario Jurlaro, o in altre sedi collettanee, in un arco di tempo che va dal 2009 al 2011, con l’eccezione del secondo saggio della raccolta, La Vita Nova di Guglielmo Gorni (pp. 25-35), che è del 1997.

Il primo saggio, Il trilinguismo delle lettere “italiane”, del 2011, dà il titolo al libro e può essere letto come la parola definitiva di uno storico della letteratura “italiana”, che ha indagato per una vita intera i testi della nostra letteratura nazionale; concludendone che “la storia delle lettere “italiane” è ovviamente una e unitaria, ma con irrefutabile evidenza anche triplice nel suo volto linguistico riconoscibile nel tradizionale e consolidato uso dell’italiano letterario, della sempre autorevole lingua latina e nell’antica presenza e varietà dei vari dialetti” (p. 23). Di qui la necessità di rivedere le nostre storie letterarie, che troppo spesso hanno privilegiato le opere scritte in lingua italiana a quelle, pur sempre italiane, ma scritte in lingua latina o in dialetto (di qui il virgolettato dell’aggettivo “italiane” presente nel titolo).

I saggi numero 2, 3, 4 e 5 sono dedicati a Dante, rispettivamente alla Vita Nuova, al Convivio, al “Cocito” infernale e a Purgatorio II. Qui entriamo nell’officina di Marti dantista, indagatore delle opere cosiddette minori e della maggiore. Anche in questo caso Marti sembra dire l’ultima parola sul poema dantesco. A suo avviso, esso deve essere letto in chiave autobiografica, come “una sorta di grande, personale rivalsa dell’esule rispetto al reale fallimento politico (uomo di parte)” (p. 60), che lo indusse a scrivere la Divina Commedia. E si scopre con piacere come, a distanza di cinquant’anni, il giudizio espresso da Marti nella celebre lettura del canto di Catone e Casella (La tematica del canto di Casella in Dal certo al vero. Studi di filologia e di storia, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962, pp. 75-100), sia ribadito in queste pagine, laddove l’autore spiega che “l’etimo primo di tutto l’episodio non è … edonisticamente idillico; ma piuttosto drammatico” (p. 74).

Ma che cos’è che rende particolarmente gustoso questo piatto ricolmo di primizie? Il sale lo individuerei in quei brani, per dirla con le parole di Leone, “spostati sul piano della reminiscenza e della notazione autobiografica” (p. X), in cui l’autore parla di sé. Un assaggio lo abbiamo già a p. 75, laddove Marti rievoca l’acquisto nel 1941, in una libreria di Salerno, del Leopardi di Michele Saponaro, situazione che diviene l’inizio del suo ragionamento critico sul narratore di San Cesario; oppure quando spiega all’amico Maurizio Nocera che cosa sia per lui l’amore per Dante o per Leopardi: “ ‘amore’ per me ha significato sempre impegnata esegesi critica, attenta decifrazione storica, singolare decrittazione biografica, insomma alto e  severo impegno di lavoro e, all’occasione, ragionevole filologia” (p. 99); e soprattutto “negli ultimi due saggi, prima dell’Appendice”, come nota ancora Leone, ovvero nei capitoli 12 e 13, rispettivamente intitolati Decenni di vita con Raffaele Spongano (pp. 125-133) e In memoria di Emilio Bigi: un “compagno d’arme” (pp. 135-142). Qui davvero il critico si trasforma in narratore che parla di sé, e non certo per vanità, ma perché sente che quanto è vero per l’amore degli scrittori (la “decrittazione biografica”) vale anche per la propria opera (l’autobiografia) che non è nata in un deserto, ma nel fecondo scambio con altri studiosi (Spongano, Bigi). Di qui, per esempio, il retoricamente sostenuto inizio del necrologio di Bigi, non mero orpello, ma intensa offerta di parole che si vorrebbero “memorabili”: “Memorabili pagine, il più possibile solide e incisive, le più felici della mia carriera di studioso, vorrei scrivere, al di sopra delle mie modeste capacità, per testimoniare, in questa occasione di omaggio alla memoria di lui, la mia salda, diuturna amicizia per Emilio Bigi, uomo di incredibile equilibrio spirituale e di sempre limpida, rassicurante serenità” (p. 135).

E’ qui che noi sentiamo come il critico che discetta e distingue, il professore che promuove o boccia a seconda dei casi – e in questo libro gli esempi non mancano: Vittorio Bodini e Pietro Gatti, ma non ne parlerò per non privare il lettore del suo piacere – sia anche e direi soprattutto scrittore, ovvero testimone di un’epoca non breve, il Novecento italiano, che ha attraversato per intero, leggendola attraverso la specola della storia letteraria italiana.

Così, quando, a proposito dell’amena lettura di Amori e nozze nel Salento della “Belle Epoque”, Marti racconta di aver avuto “un tuffo al cuore” al pensiero di come ai poveracci che si sposavano toccassero in sorte “solo scarne notizie dall’albo anagrafico del Comune”, mentre i ricchi avevano (come hanno) l’onore delle cronache; e che in quella occasione, scrive Marti, “mi si slargò fatalmente la visuale storica, coinvolgendo implicazioni anche autobiografiche. L’altra faccia della medaglia. E mi sovvenne, come in un lampo, il ricordo di mio padre e di mia madre…” (p. 150), la cui condizione era di poveri, ma onesti lavoratori; noi sentiamo che qui la ragione critica si fonde con quella storica e infine con la ragione autobiografica. E’ la prova che l’indagine critica non può mai ridursi all’applicazione di schemi teorici prefissati, ma nasce sempre da solide motivazioni autobiografiche che nella storia si inverano, dando origine al racconto.

Le vie della letteratura sono infinite: questa credo che sia quella percorsa da Mario Marti.

[“Il Paese Nuovo” di giovedì 1 marzo 2012]

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