La poesia di Uccio Giannini

di Gianluca Virgilio

Uccio Giannini, Pantaleo per l’anagrafe, è nato il 23 febbraio 1928 a Galatina, dove è morto il 4 settembre 2010, all’età di ottantadue anni. Primo di dieci fratelli, il padre commerciante di biciclette e di altri articoli sportivi, la madre casalinga, si è maturato presso il Liceo Classico “Pietro Colonna” di Galatina ed ha poi conseguito l’8 aprile 1960 la laurea in Matematica e Fisica presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli. Si è sposato il 23 aprile 1962 con Maria Teresa Carrozzini, con cui ha vissuto per quarantotto anni, unito dall’amore reciproco e per la figlia Simona. Ha insegnato Matematica nelle scuole locali, divenendo preside dell’Istituto Industriale di Galatone.

E’ strano come i termini essenziali di una vita possano essere racchiusi in così poche parole, che dicono tutto e non dicono niente. Le opere di uomini, che in vita si affaticarono tanto, sembrano consumarsi e disperdersi alla loro morte, e di esse sembra non rimanere più nulla. Ma Uccio Giannini non è stato solo quello che si è detto. Egli è stato anche un poeta, poiché ha saputo rappresentare con simpatia e grande umorismo un passaggio epocale della nostra società, dalla civiltà contadina a quella consumistico-industriale, e tutto questo da una posizione periferica, quale poteva offrirgli una cittadina come Galatina, piuttosto lontana dai grandi movimenti letterari moderni.


Giannini non è stato un letterato di professione  e dunque non ha avuto mai la boria del letterato, è stato semplicemente un uomo che i familiari e gli amici amano descrivere – ad essi mi affido, non avendolo mai conosciuto di persona – come una persona tranquilla, amante degli scherzi e della convivialità, col culto dell’amicizia, entro cui concepiva il gioco poetico; un gioco che ha saputo condurre con agilità e leggerezza, senza mai cadere nel pedantesco e senza mai perdere di vista il fine e il destinatario per cui scriveva: divertire una comitiva di amici e di parenti, oppure un pubblico di concittadini, che nelle sue poesie vedeva rappresentato e deformato satiricamente il proprio mondo e la propria vita. Molti ricordano nei primi anni Ottanta le trasmissioni radiofoniche di Radio Orizzonti Activity, la domenica mattina, quando, dopo la messa, Giannini si divertiva (insieme a Ose Palmieri e Lino Bello) a far ridere gli amici che, accesa la radio, seguivano da casa i suoi mottetti dialettali, che poi avrebbero avuto la loro continuazione in famiglia, a tavola, come sano condimento del pranzo domenicale. La convivialità delle riunioni di famiglia nei giorni di festa, un compleanno, una ricorrenza religiosa, una cena con gli amici, è la cornice entro cui è nata la poesia di Giannini. Una poesia, dunque, con un destinatario preciso, il parente, l’amico, il concittadino, chiamato alla spensieratezza di un’ora, che avrebbe riso delle sue facezie e con lui si sarebbe divertito, prima di ritornare, come Giannini, alle serie occupazioni di ogni giorno.

Tra il 2002 e il 2003 Uccio Giannini raccolse alcune sue poesie in due fascicoli, intitolati Pindinguli e Zaranguli e Scisciariculi.

Pindinguli e Zaranguli contiene tredici poesie datate tra il 1979 e il 1999 e disposte in ordine cronologico.

Scisciariculi contiene trentatré poesie, datate tra il 1979 e il 2002, anche queste datate e disposte in ordine cronologico. I due fascicoli sono stati trascritti al computer su commissione di Giannini, secondo la testimonianza della moglie. Ciascuna raccolta è seguita da un elenco dei titoli delle poesie (l’elenco della prima raccolta è scritto al computer, quella della seconda è autografo).

La famiglia di Uccio, inoltre, ha rintracciato tra le sue carte altre dieci poesie, scritte a macchina. Di queste poesie solo L’arvulu de NataleConsigli a nu fiju sono datate, rispettivamente 1983 e 1991.

Forse a Giannini non passò mai per la testa di pubblicare l’intero corpus delle sue poesie, cui dava – o almeno sembrava dare – scarsa o nulla importanza. Per questo forse definì le sue poesie in dialetto galatinese (lo sono quasi tutte, eccetto pochissime in lingua italiana, che si contano sulle dita di una mano) Pindinguli, Zaranguli e Scisciariculi.

Pindingulu vale per il Rohlfs (ad vocem) frangia, pendaglio, ossia ciò che è inutile, a cui non si assegna alcuna funzione essenziale, ornamento di cui si potrebbe fare a meno (vedi la frase dialettale Ce suntu dhi pindingili ca tieni mpisi an coddhu?, detta per celia a donna che si agghinda con collane di nessun valore). Nell’accezione in cui viene comunemente usato, infatti, il termine ha valore negativo, come accessorio di poco conto, orpello inutile, ecc. Giannini lo usa, oltre che nel titolo, una sola volta, in un testo del 1983 dal titolo L’arvuru di Natale, dove i pindinguli stanno ad indicare degli addobbi che si appendono all’albero di Natale.

Sul termine zaranguli il Rohlfs non mi è d’aiuto e neppure il Garrisi (Dizionario Leccese-Italiano): entrambi non riportano la voce; ma a Galatina è conosciuta la voce zarangu, usata nell’espressione Nu n’aggiu ssaggiatu mancu zarangu, che vale Non ho mangiato neanche nienteZarangu è un niente, e zaranguli, il suo diminutivo, è un meno che niente. Il titolo Pindinguli e Zaranguli nell’insieme varrebbe pendagli e cose da nulla, una sorta di dittologia con cui il poeta ha voluto designare la materia dei suoi versi.

Il secondo titolo, Scisciariculi, significa propriamente fiori di camomilla (si veda anche qui il Rohlfs, ad vocem), una pianta molto comune nelle nostre campagne, che vale poco a causa della sua facile reperibilità e abbondanza. In senso traslato, il termine è usato per indicare oggetti tanto comuni da non avere alcun valore (vedi la frase dialettale: Ce bbindi, scisciariculi? Cosa vendi, merce senza valore?). Pure questo termine non compare nelle poesie, se non nel titolo di uno dei due fascicoli.

Credo che dal significato dei titoli che Giannini volle dare alle sue poesie emerga chiaramente la volontà del poeta di presentare il suo lavoro in modo semplice e dimesso, come un corpus di composizioni di poco conto e senza valore.

Indubbiamente, diminuire il tono della propria poesia può essere un buon modo per captare la benevolenza del lettore-ascoltatore, per avvicinarlo alla poesia. In essa i protagonisti sono gli oggetti spesso desueti della nostra quotidianità o di quella dei nostri padri. Questi oggetti e strumenti, ma possono essere anche piante e animali, ci parlano di se stessi e ci raccontano la loro storia proprio nel momento in cui essa è definitivamente conclusa, cioè quando essi sono resi inservibili dalla comparsa di una nuova tecnologia oppure di nuove usanze e modi di pensare indotti dalla modernità. Si pensi alla poesia Lu Stricaturu, nella quale assistiamo ad un dialogo serrato tra un ormai consunto stricaturu, ovvero l’asse su cui le donne lavavano i panni, e la moderna lavatrice; oppure alla poesia La presunzione, nella quale discutono un plebeo zangone e una nobile cicureddha, con la rivincita finale dello zangone; e ancora il dibattito tra la lancetta dei minuti e quella delle ore in Le lancette dell’oruloggiu; e in Na busta dicìa, dove appunto prende la parola una busta per lettera; e L’apparenza, in cui gareggiano in superiorità un pozzo e una cisterna; e in Dignità e superbia, dove la disputa è tra il vecchio cavallo e il nuovo trattore; e gli esempi potrebbero continuare.

Giannini utilizza in tutti questi casi una figura retorica che i professori chiamano prosopopea o personificazione, consistente nell’ animare l’inanimato, ovvero nel dare la parola agli oggetti, alle piante e agli animali che naturalmente ne sono privi. Le cose desuete sembrano svegliarsi dal torpore in cui la nostra incuria le ha confinate e prendersi la rivincita nei confronti degli uomini, ridotti per una volta al silenzio. Gli oggetti, le piante, gli animali, come nella favola antica, nella poesia di Giannini parlano, ma non contro gli uomini, ma degli uomini e per gli uomini. Così, per riprendere gli esempi su menzionati, raccontano l’avvento del nuovo e rimpiangono l’antico (la lavatrice e lu stricaturu ne Lu stricaturu), stigmatizzano la presunzione di chi crede di essere nobile e superiore agli altri (la cicureddhra e lu zangone ne La presunzione), rivendicano l’eguaglianza di tutti dinanzi alla morte (Le lancette dell’orologgiu), la durezza della vita e la necessità di mantenersi onesti (Na busta dicìa), l’inganno delle apparenze (il vecchio pozzo e la cisterna nuova ne L’apparenza), la dignità di chi ha lavorato con dedizione e la superbia di chi incarna una facile idea di progresso (il cavallo e il trattore a confronto in Dignità e superbia), ecc.

Come si comprende da questi pochi esempi, la poesia di Giannini ha sempre un esito di natura morale, poiché veicola degli insegnamenti utili all’uomo, che servono alla sua edificazione morale. Tuttavia questo fine, col suo contenuto didascalico e gnomico, non sovrasta mai e non si impone al lettore in modo pedantesco, come unica ragione del testo, bensì è sempre presentato come la conclusione logica di una storia narrata naturalmente con una verve scrittoria che non esitiamo ad avvicinare alla “licenza fescennina” della letteratura arcaica romana. L’equivoco, il lazzo osceno e lùbrico, la battuta salace, l’allusione sessuale, la strizzata d’occhio complice, il motto arguto e impudico, la battuta sguaiata e popolaresca che erano propri dei fescennini antichi, sono anche le costanti modalità espressive della poesia dialettale di Giannini, che affida ad esse l’efficacia del racconto, la sua immediata ricevibilità. Non si perda mai di vista il summenzionato contesto conviviale in cui Giannini recita le sue poesie e, appunto, l’oralità della comunicazione tra il poeta e il suo pubblico. Si legga, allora, una poesia come Lu sangunazzu (1984), fondata su una sorta di contaminazione linguistica tra lessico culinario e sessuale (“Lu sangunazzu è bonu / specie quando è friscu, / piace ssai a mujerama / e quistu lu capiscu”); Lu busciu strittu (1989), nella quale il gesto di infilare la cruna dell’ago è trasfigurato nell’atto sessuale di un coito mal riuscito (“Senza quist’acu / prontu pe l’usu / com’aggiu fare, / dimmi, cu cusu?”); oppure Lu posparu (1981) che diventa un equivocabile simbolo fallico; o ancora L’Ufu (poesia non datata), in cui una figliola piuttosto ingenua vede un ufo “arretu a Fulunari” (riferimento toponomastico chiaro a tutti i Galatinesi), allusione sessuale a quello che Giannini chiama “nu ncontru de quartu tipu”. Anche qui gli esempi potrebbero continuare, e non ve n’è bisogno. Il nostro lettore ha già capito entro quali termini si muove la poesia di Giannini, ovvero tra morale della favola e espressionismo popolaresco, di un popolo che non ha peli sulla lingua e riconduce ogni cosa alla corporalità di cui siamo fatti.

Ma la cifra che identifica meglio la poesia di Giannini, a mio avviso, è un’altra, ed è riscontrabile nel grande senso di nostalgia, sempre ben controllato, che aleggia in alcune composizioni poetiche come La votte de lu tata, in cui il poeta racconta la triste fine di una botte, o La cazzarola, surclassata dalla moderna pentola a pressione (identica situazione narrata in Dignità e superbia e ne Lu stricaturu, di cui si è già detto). In realtà il rimpianto d’un mondo contadino ormai definitivamente tramontato, ripensato come un’età dell’oro lontana e perduta, pervade tutto il corpus poetico di Giannini, divenendo la sua motivazione principale. Si legga una delle ultime poesie (2001) dal titolo Culori della vita: “Culori sbiaditi /de tiempi passati… / De cunti de fate, / brasceri de focu, /de notti gelate. / Acqua de puzzu, / lume a petroju, / friseddhe d’orgiu, / e na croce de oju. / Rumore de zzocculi / de cavaddhi ferrati… / ndore de mustu… / e pasti rranciati. / E canti campestri, / surrisi sinceri, / fatiche e sudori… /  de quiddhi veri! / Tuttu è cangiatu, / la vita è diversa, / però … su sicuru, / qualcosa si è persa. / Vita muderna / culuri brillanti, / li prugressi fatti / de veru su tanti! / Peccatu però… / A qualche “valore” / la porta se chiuse / e…  rimase de fore”.

E’ bene notare che, accanto al rimpianto del passato, non c’è in Giannini un pregiudiziale rifiuto del presente, bensì una considerazione piuttosto dolente del “progresso”, che ha portato con sé la fine dei valori nel rispetto dei quali egli è stato educato: la frugalità del vivere, la sincerità, il culto del focolare domestico e del duro lavoro in campagna, ecc. Tutto questo è ormai passato e Giannini lo sa. Ma al suo posto non è nata una società migliore, bensì un mondo in cui l’ingiustizia la fa da padrone, in cui i farabutti sono mescolati alle persone perbene. In La bilancia Giannini scrive: “Disse la Giustizia: … “Se nu mentenu riparu, / a livellu stannu tutti, / e intra li do’ piatti / trovi onesti e farabutti”. Si leggano poi le poesie Onestu o fessa?, Un matrimonio “in”, in cui torna il tema della giustizia.In Su mucitu?, Giannini mostra come spesso la pulizia esteriore nasconda la verità di una coscienza immorale e sporca: “Comu vidi tanti, / de fore senza sporcu / de intru nvece poi / su pesciu de lu porcu”. In San Pietro, il santo patrono galatinese provvede a ristabilire nell’oltretomba una giustizia troppo spesso violata in terra; e poi ancora E nun è giustu prende la parola un maiale, e accusa l’uomo di ingiustizia e di ingratitudine. E anche qui gli esempi potrebbero continuare, poiché le recriminazioni contro un mondo ingiusto sono presenti spesso nelle composizioni di Giannini come contenuto fondamentale della sua moralità. Che fare, dunque, contro questo mondo malvagio?

A questo mondo così ingiusto il poeta reagisce nel solo modo in cui un poeta può reagire, ovvero assegnando alla scrittura poetica il compito di recuperare e riproporre i valori del passato, secondo modalità che un giorno la madre gli ha insegnato. In un testo di riflessione poetica, infatti, leggiamo questa definizione della poesia, data dalla madre, e riproposta dal ricordo indelebile del figlio: “Sapiti ce mi disse? / Ricordu chiaru e tundu / ricordu finché campu / e restu a quistu mundu. / “La poesia”, mi disse, / “è fatta de parole /  ca partendu de la capu / rrivanu alla manu / passandu pe lu core”.

Col cuore ha scritto sempre Giannini, col cuore del popolo, utilizzando il nostro dialetto – sempre ravvivato dalla rima -, uno strumento linguistico che è riuscito a padroneggiare con grande spontaneità e che gli ha permesso di rimpiangere il passato senza farsi travolgere da una facile nostalgia, bilanciando sempre situazioni favolose, di cui fu ricca la sua capacità inventiva, e sana antica morale, fondata su un senso innato della giustizia. Questo ha fatto Giannini, ha respinto l’ingiustizia del mondo con quell’arguzia e quell’umorismo di cui dicono siano ricche le genti salentine. Per questo motivo,  i suoi familiari, gli amici e i concittadini lo ricordano e lo ricorderanno anche  in futuro.

(2011)

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