Enzo Fasano: e la terra, naturalmente

di Luigi Scorrano

Enzo Fasano, cantore della sua terra appartato e schivo, nella sua opera e nella sua operosità ha messo al centro la sua (e nostra) terra. Non è della schiera, foltissima, di coloro che l’hanno abbandonata per malumore o per malo amore; di coloro che l’impazienza (ma talvolta la necessità) ha sospinto verso mete diverse, verso lontani approdi. Questo vale ad intendere, della lontananza dico, – e del possibile disamore – le ragioni immediate: quelle della quotidianità vissuta sotto la spinta del bisogno o seguendo gli impulsi di un’invincibile irrequietezza.

La terra è, nei lavori di Enzo Fasano, si tratti di disegni o tarsie, la grande protagonista di ogni rappresentazione; ed è, al contempo, l’immagine chiamata a riempire lo spazio del foglio con la sua presenza d’anima, non solo con il peso della sua rappresentata fisicità. Attraverso figure e gesti umani, attraverso la presenza di quella umanità che le conferisce le ragioni del suo imporsi in un luogo e in un tempo che le sono propri, la terra (la nostra, del Sud!) resta centrale riferimento. Essa giustifica la fatica umana, il pensiero di chi ne coglie i segreti, lo slancio di chi l’ama ed in lei crede, l’attesa di chi alimenta la speranza di essere accolto ancora, nel suo abbraccio: l’abbraccio di chi a lei si consegna in un supremo atto di fiducia.

È una terra animata quella che Enzo Fasano ci invita ad esplorare: viva di presenze, segnata dal lavoro quotidiano, umile ed orgogliosa, santificata – si direbbe – dall’opera paziente di chi ne modifica l’aspetto, di chi ne interroga il lento trasmutare, di chi ne esalta l’immagine di maternità individuata come la più appropriata a sondare la profondità della vita. Terra animata: irrorata dal sudore di generazioni che ne rivoltarono assiduamente le zolle e ne trassero, oltre che frutti per nutrirsi, pietre per edificare le loro rustiche dimore, o perché servissero ad una segnaletica di confini posti a distinguere, sì, ma anche ad unire, a creare un nodo di solidarietà, e a gettarvi le basi di scambi e di corrispondenze.

Fasano si serve di mezzi semplici ma meditati; la linea irrequieta che fa vibrare le sue figure potrebbe essere fissata come segno di un dato culturale che si sia sovrapposto – con il suo artificio – alla genuinità di un materiale diverso. Che cosa rende inquiete le linee delle figure se non, volontaria o casuale, una traccia del fastoso, cordiale e vivo barocco locale, con la distintività che ne fa una felice invenzione di pietra, un immenso giardino che la natura ha trasferito dalla zolla di terra alla zolla di pietra, determinando così un patto tra terra e pietra, tra il colore dei campi e quello degli edifici meravigliosi nati da un sogno di grandezza e di celebrazione dell’umano sentire. Si accorpano, o solo si accostano, due elementi, di natura e di cultura: l’immagine canonica del “pio colono” (di memoria manzoniana, e non solo) e quella di chi ha confidato nella pietra e non ne è rimasto deluso.

I contadini di Enzo Fasano hanno intorno alla testa, come le statue dei santi, un’aureola d’oro; questa ben si conviene a trasmettere un’idea di santità del lavoro. Essi sono, anche, persone; ma persone senza volto, partecipi di un anonimato che è come lo specchio della loro fatica. Colpisce, in alcune rappresentazioni di Fasano, proprio l’assenza del volto dei suoi contadini. Sono, le loro, figure esprimenti una severa dignità; si direbbero testimoni silenziosi e forse umiliati dalle loro condizioni di vita. Essi, però, recano un dono di vita, il pane quotidiano, a chi ne ha bisogno per crescere, per maturare. E intorno alle figure dei senza volto fiorisce una generazione alla quale si augura un destino diverso, condizioni di vita più agiate. L’apparizione del serpente, nello spazio sereno della campagna, non desta timore: la sua è una presenza che s’innesta in un quadro di vita che della terra presenta aspetti diversi ciascuno dei quali va considerato in una luce di fraternità che nulla esclude ma tutto accoglie e comprende.

Alla terra, tenacemente, si legano gli sfondi paesaggistici delle opere di Fasano: non semplici immagini colte nelle caratteristiche antropologiche o nella composizione armoniosa di elementi-simbolo. Sono, per così dire, produttori di suggerimenti morali, espressione di un’etica rigorosa la cui severità, però, s’apre a cordialità e comprensione. Così le caratteristiche costruzioni in pietra, in quella pietra non sottratta alla terra ma dalla terra donata o dalla terra richiamata alla luce, sono il segno d’una saldezza e d’una consistenza sulle quali si può far conto sempre. Il senso di moralità di forme e figure è esaltato nella rappresentazione della compagine familiare: ogni famiglia appare in aspetto di sacra famiglia e, sul piano formale, sembra suscitare intorno a sé l’atmosfera di religioso silenzio che forse allude, mutati tempi e luoghi, a una rilettura di Millet.

Nel repertorio figurativo di Enzo Fasano si delineano legami tra tempi del lavoro dei campi e vicende celesti, il tutto collocato in un naturale zodiaco della vita: di una vita in cui dolori e gioie nello scorrere dei giorni si mescolano nella superiore calma di una confidente accettazione degli eventi. Può sembrare che le rappresentazioni, e i pensieri che sono dietro di esse, si riallaccino a tempi remoti, si affaccino ai balconi di una storia lontana sotto i quali sfila una vicenda talvolta confusa e scarsamente leggibile. Ci si ingannerebbe, però, a considerare il mondo di Fasano un mondo inesorabilmente perduto, un’età morta e risuscitata, a volte, solo dalla nostra immaginazione, dal bisogno di leggere in modi lineari una vicenda complessa, qualche volta anche troppo aggrovigliata. L’attualità dell’opera di Fasano non intende prescindere da quel mondo in cui sembra essersi rifugiato quel che di positivo se ne può ancora ricavare: la forza di un esempio, una lettura delle cose che non si fermi alla superficie della rappresentazione. Così uno spaventapasseri può divertire, ma inquieta se la nostra attenzione è richiamata dal suo mostrarsi per quel che è: una straniata immagine di crocefissione. In continuazione di quella immagine un’altra ne sorge: affine, non seriale. Crocifisso è l’ulivo delle nostre campagne, resistente per secoli alle offese della natura e dell’uomo. Finché l’immagine, sprigionandosi dalla rete simbolica che la costringe, si restituisce alla nostra vista e riprende il suo aspetto primario: di una crocefissione che è nella storia del mondo e sta nella nostra storia di uomini come segno di contraddizione.

[“Presenza taurisanese” XXXVII n. 3 – marzo 2019, p. 10]

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