Di ardore e d’illusione: Ulisse tra Dante e Pavese

di Adele Errico

Il canto di Ulisse a Primo Levi serviva per non perdere adiacenza alla propria natura di essere umano in un luogo in cui di umano era rimasto ben poco e del quale l’umana parola non poteva bastare per descrivere l’orrore. Gli serviva per non divenire bruto tra i bruti, belva tra le belve. Tra tutti, ricorda a memoria – si sforza di farlo – proprio il canto di Ulisse che invita a “seguir virtute e canoscenza” e lo fa per poterlo narrare ad un altro prigioniero e per scoprire – attraverso la propria lingua che si muove per raccontare di un’altra lingua che è di fuoco, articolando prima i versi danteschi e poi suoni che non sono suoi, quelli del francese, per tradurlo a Pikolo – “qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui” .

Per Piero Boitani, “fare esperienza della poesia vuol dire, dunque, scottarsi le mani, e l’anima”, addentrarsi con paura in un abisso che si spalanca immenso dinanzi a noi. Leggere il canto di Ulisse è un attraversamento di questo abisso che, poi, si scopre sprofondare in noi stessi e condurci all’interrogarci, proprio come accade a Primo Levi, “del nostro essere oggi qui”.

L’Ulisse dantesco conosce bene il senso del suo essere al mondo che è quello di “divenir del mondo esperto”: non c’è affetto che lo trattenga, né amore di sposa né devozione di figlio né mancanza di padre, ma è trascinato ai confini del mondo solo dalla libido sciendi, per poi essere soppresso dalla mano di un Dio a lui sconosciuto che lo schiaccia e gli chiude il mare sopra.

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