Da Otranto a Lepanto. Carlo V e la lotta contro il Turco nel Basso Adriatico

Otranto nella strategia perseguita dall’imperatore spagnolo si rivela una città simbolo, il baluardo della cristianità minacciata dall’Islam, a cui destinare attenzione e protezione militare. La difesa dei confini orientali dell’impero coincide con la difesa della città salentina e la riaffermazione della chiesa di Roma sull’intera area devastata qualche decennio prima dalle orde vandaliche dei musulmani. In questa direzione Carlo V destina risorse enormi, militarizzando tutta la costa e attrezzando i siti di difesa più importanti, tra cui il castello di Lecce, per rispondere in maniera rapida e adeguata alle ripetute incursioni ottomane. Affida al viceré di Napoli, Pedro de Toledo, le operazioni edilizie, tenendo aperti i cantieri sui due versanti della costa. Già a metà circa del Cinquecento, poco prima che l’imperatore abdicasse in favore del figlio Filippo II, la provincia salentina appare agli occhi anche di un visitatore straniero come l’area più sorvegliata del basso Adriatico, l’avamposto militare decisivo per contenere e respingere le minacce provenienti dalla flotta turca di stanza a Valona. La Spagna imperiale si prepara in questo modo ad una lunga guerra di posizionamento contro il Sultano, le cui sorti tuttavia sembrano strettamente legate alla costruzione di una alleanza militare degli Stati cattolici, sollecitata dal Papa e guidata dalla Spagna, che si concretizzerà solo tardivamente nel 1571 a Lepanto[3].


Litografia ottocentesca dei Martiri di Otranto.

Carlo V prepara il terreno dello scontro con largo anticipo, assegnando alla città di Otranto un ruolo strategico e identitario prospetticamente rilevante, con ricadute significative anche sul versante amministrativo, quando decide in seguito alla istituzione delle 12 province del Mezzogiorno continentale di ri-intitolare la provincia salentina, da Terra di Lecce a Terra d’Otranto e nello stesso tempo di ottenere da Papa Clemente VII con il trattato di Barcellona del 1529 il patronato regio su 8 delle 13 diocesi esistenti al fine di estendere e rafforzare il controllo militare sull’estrema penisola pugliese[4]. Nel primo caso, quello della denominazione provinciale, già negli anni trenta del secolo nelle carte geografiche e in quelle della burocrazia spagnola sembra consolidato il riferimento a Lecce per indicare la terza provincia pugliese. Un autorevole visitatore del tempo, il domenicano Leandro Alberti, nel suo resoconto di viaggio del 1525 non manca di segnalare come Terra di Lecce la provincia salentina[5]. Ma si rivela di breve durata. Già a partire dagli anni quaranta del secolo negli atti della cancelleria vicereale risulta solidissimo il richiamo a Terra d’Otranto, maturato in seguito alla volontà del sovrano spagnolo di assegnare alla città salentina un ruolo simbolico unico, al di là dell’importanza dello stesso luogo, ormai spopolato, con il porto declassato e destinato ad un declino urbano irreversibile[6]. Contestualmente l’imperatore, attraverso i buoni uffici dell’esperto cardinale Mercurino Gattinara, riesce a smitizzare la tradizione medioevale che considera il regno di Napoli un feudo esclusivo del Papa[7], non contaminabile sul piano della giurisdizione diocesana, aprendo alle trattative per il controllo del sovrano di alcune sedi episcopali meridionali, quelle soprattutto più esposte alla minaccia ottomana, e conseguendo un parziale, sebbene inferiore alle attese, successo con la concessione del patronato regio su 24 delle 131 diocesi regnicole, un terzo delle quali posizionate in Terra d’Otranto[8].

Tra le otto sedi episcopali di Terra d’Otranto affidate dal Papa alla giurisdizione della monarchia spagnola spicca quella otrantina, unica e riconosciuta metropolia della parte più estrema della provincia. La sede di Otranto, che vanta la diretta istituzione da parte del capo degli apostoli, non perde questa primazia nonostante il decadimento progressivo della città, ridotta a poche anime soprattutto nei decenni successivi al sacco turco. Carlo V difende il privilegio del primo approdo italico di Pietro, non appoggiando la richiesta degli ottimati di Lecce, città ormai divenuta per numero di abitanti e arredo urbano seconda sola a Napoli, a sostituirsi a Otranto nella gerarchia diocesana[9]. A Lecce il sovrano assegna altri titoli e riconoscimenti, quelli in modo particolare di sede del Tribunale del Regio Consiglio e di capitale delle Puglie[10], senza però togliere nulla ad Otranto, la cui valenza simbolica sul piano confessionale non solo viene accresciuta, ma anche propagandata per rendere più efficace la lotta contro il Turco[11]. La sede episcopale di Lecce resta suffraganea a quella di Otranto, che oltre arimanere città regia, governata cioè da un uomo di fiducia della corona, viene avvicendataanche da presuli scelti direttamente dal sovrano. Al contrario di Lecce, che, pur confermata città regia e con il suo castello centro nevralgico delle operazioni militari nella provincia, continua a restare una sede vescovile provvista in maniera esclusiva dal pontefice romano[12].

Il riconoscimento della giurisdizione regia su alcune diocesi del Mezzogiorno continentale cambia progressivamente la fisionomia episcopale per la crescente immissione di personale di origine iberica alla guida delle chiese di riferimento[13]. Otranto inizialmente resta bloccata dalla presenza di un presule napoletano, Pietro Antonio Di Capua, titolare della diocesi per oltre quarant’anni (1536-79), aprendosi tardivamente agli avvicendamenti di personale spagnolo, ma la lunga transizione nel governo delle diocesi tocca, dove più dove meno, anche le altre sedi episcopali di nomina regia, almeno fino al 1554, quando Carlo V decide di disciplinare la materia con “il privilegio dell’alternativa”, una norma che prevede l’alternanza di un presule spagnolo con uno regnicolo al fine di venire incontro alle aspettative dell’aristocrazia napoletana, per niente affatto rinunciataria a collocare un proprio rampollo alla guida di una diocesi. Il “privilegio” carolino riguarda tutte le diocesi regie, ad eccezione di due, Brindisi e Gaeta, considerate strategicamente “le chiavi del regno”, e per questa ragione concesse “sin alternativa” a personale iberico, di provata fedeltà al sovrano[14].

La norma carolina dell’alternanza accelera l’istituzione di un organo centrale a cui delegare la fase istruttoria delle nomine episcopali. Carlo V fa in tempo prima di abdicare in favore del figlio Filippo ad emanare nel 1556 un decreto per la creazione del Supremo Consiglio d’Italia, a cui, oltre a diverse materie di pertinenza statale, viene anche affidata la selezione dei vescovi nelle diocesi regie nei domini italici. Il nuovo organo madrileno tuttavia arriva ad assicurare la piena funzionalità solo con Filippo II, non prima che il nuovo sovrano nel 1559 approvi le competenze da attribuire e le procedure da seguire per rendere la macchina burocratica operativa in via definitiva senza incorrere in conflitti con altri organi dello Stato centrale[15].

Su Filippo II ricade la responsabilità di realizzare l’ambizioso disegno geo-politico di Carlo V della monarchia universale cattolica, in modo particolare contrastando nel Mediterraneo la minaccia ottomana, la cui forza navale (operativa anche con minuscole bande di corsari) mette continuamente a repentaglio la Spagna, gli stati italici del Tirreno e i confini orientali dell’impero spagnolo, esponendo la cristianità romana ad un assedio interminabile.

La lotta contro il Turco nel Mediterraneo diventa centrale nella politica imperiale di Carlo V e si accompagna a quella portata avanti contro i protestanti nell’Europa continentale. Il teatro più prossimo allo scontro resta il Mediterraneo orientale, dove la presenza ottomana opera con il massimo delle sue forze dopo aver spodestato Venezia dalle maggiori isole dell’Egeo. Il controllo esteso di quella parte consente al sultano Solimano il Magnifico di condizionare a suo vantaggio i commerci di alcuni Stati cattolici (tra cui la repubblica di Venezia e quella di Genova) con l’Oriente e nello stesso tempo di aprirsi un varco verso l’Europa centrale attraverso i Balcani per giungere a Vienna e in Ungheria. Le mire espansionistiche degli Ottomani creano allarme nelle cancellerie europee e soprattutto nella Curia pontificia, che si adopera per costruire un’alleanza militare capace di respingere o almeno di contenere il tanto temuto pericolo.



 Tiziano Vecellio, Ritratto dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, 1548, Alte Pinakothek. Monaco di Baviera.

Carlo V tuttavia non si mostra inizialmente pronto a fornire il suo decisivo sostegno ad un’azione militare concertata con gli altri Stati cattolici. Pressato dalla guerra con Francesco I di Francia per i possedimenti territoriali italici, inibito dall’ostilità di Papa Clemente VII su questioni diverse, indebolito dalla perdurante indisponibilità di risorse economiche sufficienti, si tiene fuori dalla formazione di una Lega Santa contro il Turco fino a quando non chiude il contenzioso ancora irrisolto. Con il Papa arriva alla pacificazione con il trattato di Barcellona del 1529 e la successiva incoronazione a Bologna del 1530; con la Francia di Francesco I con la pace di Cambrai del 1529 che prevede la restituzione della Borgogna ai transalpini e la conservazione della Lombardia agli spagnoli. Spenti provvisoriamente questi due fronti di lotta, resta aperto il problema protestante, che tende ad inasprirsi dopo che Carlo V respinge le richieste ben elencate nella “Confessione Augustana” da Filippo Melantone del 1530. In seguito a questo diniego si costituisce nel 1531 per iniziativa dei principi luterani la Lega di Smalcalda, che resta per lungo tempo una spina nel fianco dell’imperatore, costringendolo tardivamente a concedere con la pace di Augusta del 1555, un anno prima di abdicare, quanto si era ostinatamente rifiutato[16].

Dentro questo quadro di riferimento il problema turco torna prepotentemente prioritario negli anni successivi all’incoronazione di Carlo V, il quale, rinfrancato dalle dispute con la Francia e con il Papa, dopo aver nel 1535 allestito una spedizione punitiva a Tunisi contro il pirata Barbarossa senza ottenere un chiaro successo, riprende l’antica e mai sopita strategia di costruire un’alleanza degli Stati cattolici per contenere l’espansionismo del Sultano nel Mediterraneo orientale. Sotto l’incessante impulso di Papa Paolo III nasce nel 1538 la Lega Santa, che si prepara ad affrontare gli Ottomani nel mar Egeo, ma la flotta cristiana viene sorpresa nelle acque greche di Prevesa, subendo una cocente sconfitta. Da allora l’imperatore si rende conto che la lotta contro il turco non può essere improvvisata, ma necessita di una preparazione adeguata e di tempi più lunghi per conseguire esiti migliori. In base a questa convinzione accelera i progetti di difesa del territorio di confine e pone in essere nuovi e più collaudati strumenti di vigilanza per prevenire forme di offesa tipiche della guerra di corsa[17].

La provincia di Terra d’Otranto riscopre in anticipo rispetto ad altre aree del Napoletano la minaccia ottomana con la guerra corsara. Dopo la riconquista di Otranto nel 1481 da parte degli Aragonesi il basso Adriatico e l’intero mediterraneo orientale cadono progressivamente sotto il dominio del Sultano, spingendo Venezia a rinchiudersi nel suo “golfo” o sua “laguna”, come espressamente indicato nelle mappe d’epoca, ovvero nel mare Adriatico. Nel primo Cinquecento, ancora Carlo V adolescente, l’unica roccaforte cristiana non espugnata nel mare Egeo risulta Rodi, che resiste a lungo all’assedio ottomano, cedendo solo nel 1522, un’eccezione che però non muta nella sostanza il percorso espansionistico dell’impero ottomano. I traffici commerciali con l’Oriente vengono condizionati da questa massiva presenza militare. La Serenissima e altre repubbliche adriatiche (come quella di Ragusa) sono costrette a contrarre patti onerosi per non perdere importanti quote di mercato. Nel Mezzogiorno d’Italia l’alternarsi nel 1503 del dominio spagnolo a quello aragonese ravviva lo scontro con i Turchi, i quali dopo la cacciata degli Arabi da Granada nel 1492 si propongono all’interno dell’universo islamico come i vendicatori di questa offesa. Le coste pugliesi, poste sul confine orientale dell’impero spagnolo, tornano a diventare un bersaglio militare attraverso la guerra di corsa. Gli episodi di saccheggi si infittiscono e spesso si mescolano (e/o si sommano) alle lotte per l’egemonia europea, intersecandosi ai conflitti aperti tra Spagna e Francia e poi tra Spagna e Inghilterra (queste ultime a fianco della Sublime Porta per indebolire la Spagna). Nel 1528 il porto strategico di Roca viene ostruito (e poi abbandonato dalla popolazione) per non fornire ospitalità ai turchi, che fino ad allora lo avevano utilizzato per le loro frequenti incursioni sulla costa salentina, proteggendo anche esponenti di rilievo del partito filofrancese come l’aristocratico Gabriello Barone costretto a riparare in quel sito per sfuggire ai sicari di Carlo V[18].

Le agili imbarcazioni dei pirati turchi che si muovono sempre dai porti albanesi e soprattutto da Valona hanno il compito di tenere sotto pressione militare la Spagna, ma non vanno oltre la razzia, con scaramuccia del bottino e poi con la fuga. Non si registrano episodi eclatanti o di un certo rilievo, come quello riconducibile al drammatico sacco di Otranto del 1480. Le incursioni sono perpetrate da un ristretto numero di uomini armati, si connotano di breve durata e si consumano non lontano dalla costa di approdo. L’obiettivo perseguito, oltre il procurato allarme, resta l’accaparramento di beni in natura, di qualche animale e soprattutto di giovani di entrambi i sessi da vendere sui principali mercati degli schiavi. Tra i tanti l’unico evento che acquista nel Salento un segno sensibilmente diverso si verifica a Castro nel 1537, dove l’incursione turca è di più vaste proporzioni e dura oltre il tempo dovuto, mettendo a ferro e a fuoco il centro costiero e finendo per desertificare il territorio circostante per le ricadute negative che procura in quella parte della provincia otrantina[19].

Fino all’episodio di Prevesa del 1538 dove la Lega Santa subisce una sconfitta navale da parte della flotta ottomana, la Puglia e in particolare Terra d’Otranto sembra particolarmente esposta alle incursioni turchesche. Nonostante Carlo V abbia programmato la difesa del territorio con la costruzione delle torri costiere, queste tardano ad essere operative. Mancano soprattutto le risorse economiche necessarie con un budget statale in continua sofferenza e con debiti crescenti accumulati dall’imperatore per sostenere i conflitti militari con i Francesi, le spedizioni nel Mediterraneo contro i Turchi e le lotte confessionali nel centro Europa. Solo dopo aver conseguito una stagione di relativa pacificazione e accelerato la composizione della vertenza religiosa con i protestanti Carlo V dà avvio al nuovo sistema difensivo per contenere la minaccia turca, la più temuta di tutte per la sua estensione a tenaglia, dal Mediterraneo (con riferimento in particolare alle coste del Mezzogiorno adriatico) ai Balcani per arrivare nel cuore d’Europa, a Vienna, considerato l’obiettivo più ambizioso di Solimano il Magnifico[20].


I comandanti della Lega santa. Innsbruck, Portraitgalerie, Schloss Ambras.

Le prime costruzioni delle torri costiere – ad integrazione del precedente sistema di avvistamento – in Terra d’Otranto vengono avviate negli anni Quaranta del Cinquecento, ma vedono il loro definitivo completamento più tardi del previsto, nei decenni successivi all’uscita di scena dell’imperatore spagnolo. Carlo V non vede pienamente realizzato il sistema difensivo a cui teneva fortemente per proteggere i confini orientali della Spagna, ma non perde storicamente il riconoscimento di questa importante iniziativa. Le torri di avvistamento volute dal sovrano da allora vengono chiamate caroline, sebbene entrino pienamente in funzione con Filippo II e, per certi versi, anche fuori tempo massimo, quando il pericolo turco andava scemando[21].                                               

Ancora a metà del Cinquecento la presenza turca nel basso Adriatico continua a rappresentare nei piani militari della Spagna una minaccia permanente a cui porre prontamente rimedio. Tuttavia non vi è ancora un coordinamento delle forze disponibili che possa assicurare un sicuro successo. La prima significativa risposta degli Stati Cattolici sconta una sconfitta nel 1538 a Prevesa, che lascia pesanti tracce nella formazione delle alleanze per contrastarla sul terreno della guerra navale e nell’immaginario collettivo delle popolazioni costiere più esposte, tra cui in primo luogo quelle pugliesi e salentine. L’insicurezza regna sovrana e Carlo V si rende conto che non è sufficiente militarizzare il territorio per fornire maggiori protezioni alle frontiere orientali del suo impero. Bisognava andare oltre, verso una Lega cattolica con una guida autorevole e capace di allestire un esercito attrezzato allo scopo. Le divisioni tra gli Stati però non rendono un siffatto progetto realizzabile in tempi brevi. Venezia non rinuncia a curare i suoi interessi commerciali con l’Oriente e preferisce contrarre accordi con la Sublime Porta piuttosto che percorrere la via del conflitto armato. Su questo terreno si posizionano anche le altre etnie mercantili italiche, a cui si associa la Repubblica di Ragusa (attuale Dubrovinik), pagando al Turco tributi straordinari per non incontrare ostacoli alla navigazione dei loro navigli nel basso Adriatico. Anche la “cristianissima” Francia non si mostra pronta a partecipare alla spedizione contro gli infedeli in quanto ancora intrappolata nell’interminabile guerra con la Spagna per i domini italiani. Un quadro che si chiarisce in via definitiva solo con la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, quando ormai Carlo V, morto nel 1558, aveva trasferito le redini del governo a suo figlio Filippo II[22].

Le diverse questioni a lungo aperte sul versante del predominio europeo allontanano lo scontro decisivo con il Turco, lasciando via libera alla guerra di corsa che colpisce in maniera costante il versante costiero del basso Adriatico. Le numerose razzie che subisce la popolazione salentina non sempre vengono rigorosamente annotate, ma risultano nel primo Cinquecento e oltre senza interruzione di continuità e tali da diventare un fenomeno “criminale” strutturale, difficile da poter essere estirpato senza una difesa articolata del territorio. Il ritardo nella costruzione delle torri di avvistamento facilita le incursioni turchesche, che finiscono a lungo per allarmare il litorale costiero con l’inevitabile conseguenza di renderlo sempre più disabitato, spingendo verso l’abbandono forzato di piccole comunità di pescatori. La popolazione si arrocca nell’entroterra, lontano dal mare, e cerca riparo nei paesi fortificati e soprattutto in quelli in cui vi è un castello operativo, con una guarnigione militare pronta a rispondere all’attacco di forze nemiche. Proprio in questo lasso di tempo in cui si avverte una diffusa paura si conia nel Salento l’espressione “Mamma, li Turchi”, che rende meglio di qualsiasi altra il terrore che procura la guerra di corsa per l’incolumità delle persone più giovani e per la conservazione dei pochi beni disponibili[23].

Carlo V si mostra consapevole che la minaccia turca può essere neutralizzata soltanto con una Lega degli Stati cattolici, trasformando una lotta per la difesa territoriale in una guerra confessionale, contro gli infedeli che attentano alla religione cristiana e in modo particolare a quella cattolico-romana. Su questo terreno tuttavia si presenta un ostacolo aggiuntivo, quello della profonda divisione del mondo cristiano, lacerato dalla riforma luterana (con i protestanti molto freddi verso la formazione di una Lega Santa contra il Turco), a cui l’imperatore non riesce a dare una rapida e condivisa soluzione anche per il rifiuto della Francia di farne parte. Il problema turco, pur non subendo un declassamento a livello di politica estera, resta sullo sfondo per la priorità che viene perseguita nel tentare di conseguire prima una pacificazione degli Stati cattolici e poi un loro pieno coinvolgimento. Un sentiero stretto che il sovrano spagnolo cerca di percorrere senza rinunciare alle maniere forti, ma con risultati poco incoraggianti. Rifiutando le richieste dei protestanti, ben redatte già nel 1530 nella Confessione Augustana di Melantone, Carlo V si nega ad un realistico compromesso che lo avrebbe certamente emancipato dall’inseguire un accordo impossibile per la radicalità e per la cristallizzazione delle posizioni in campo. Solo tardivamente si rende conto della mancanza di una via d’uscita onorevole per la corona, accettando con la pace di Augusta del 1555 una soluzione che salva “capra e cavoli”, subendo in buona sostanza lo “status quo”, quello che si viene a determinare dalla frattura protestante e dalla conseguente adesione dei principi tedeschi. Un approdo che consente di consolidare il dominio asburgico soprattutto nell’area mediterranea, ma di esporlo alla frantumazione nel cuore dell’Europa, dove il protestantesimo aveva messo salde radici.

Carlo V, provato e demotivato, prima di abdicare in favore del figlio Filippo cerca di mettere al riparo l’impero da altri sussulti confessionali, accelerando la diaspora ebraica dai territori governati e cercando di imporre un controllo diretto sui tribunali della Sacra Inquisizione, imponendo senza però riuscirci il rito spagnolo anche nel viceregno napoletano[24]. Per un altro verso rafforza la collaborazione con il Papato, divenendo in un periodo di accerchiamento religioso il primo e il più apprezzato difensore della fede cattolica, favorendo la celebrazione del Concilio di Trento e, con esso, l’apertura di una stagione riformatrice per favorire il rinnovamento dottrinale, etico e disciplinare della chiesa romana[25]. Su un altro terreno mette a frutto le concessioni del pontefice romano in materia di nomine episcopali per regolare attraverso “il privilegio dell’alternativa” gli avvicendamenti nelle diocesi di sua giurisdizione. Un ritiro dalla scena tutt’altro che disonorevole, che aiuta il suo successore ad occuparsi in maniera prioritaria della minaccia turca che ormai imperversa nel Mediterraneo, divenuto un mare insicuro per la navigazione.



Tiziano Vecellio, Ritratto del re di Spagna Filippo II d’Asburgo , anni 1550 del XVI secolo, Museo del Prado, Madrid.

Filippo II eredita una situazione preoccupante sul versante del litorale spagnolo, minacciato ripetutamente da Dragut, che costringe il sovrano ad assediare nel 1560 Tripoli, considerato il covo del pirata islamico. Una spedizione punitiva però che non lascia duratura traccia[26]. Il pericolo rappresentato dalla pirateria alle dipendenze del Sultano non viene contenuto né sul versante tirrenico nè su quello adriatico. Il terrore turco si materializza con forme ancora più inquietanti nella vasta area delle isole Egee in seguito alla tentata occupazione di Malta nel 1565 da parte della flotta ottomana. L’isola, ben difesa, non cade nelle mani del Sultano, ma apre alla conquista di altri obiettivi, tra cui Cipro e Famagosta, puntualmente assediate ed occupate nel 1570-71. Eventi questi ultimi che non lasciano indifferenti il mondo cattolico, che sotto la spinta di papa Pio V pone mano alla ricostituzione della Lega Santa con alla guida don Giovanni d’Austria, che consegue un’importante vittoria contro il Turco nelle acque di Lepanto il 7 ottobre 1571[27].

Lepanto si pone nel lungo periodo come il terminale di due iconiche battaglie che si consumano a distanza di quasi un secolo, quella di Saseno del 1481[28], combattuta nel mare di fronte alle coste dell’Albania prima della riconquista aragonese di Otranto e quella dell’Egeo di novant’anni dopo che si connotano entrambe per la loro valenza anti-Islam, ma che aprono e chiudono anche un ciclo bellico caratterizzato dalla divisione delle forze cristiane e dal predominio della flotta navale al servizio della Sublime Porta. In questo arco temporale si lascia ampio spazio alla guerra di corsa che tocca tutti gli angoli del Mediterraneo, tra cui il basso Adriatico, colpendo e terrorizzando le popolazioni delle coste salentine. Dopo Lepanto la morsa dei pirati ai confini orientali dell’impero spagnolo non si attenua[29], ma viene maggiormente controllata e contrastata in maniera più efficace per il completamento delle torri di avvistamento, diventate pienamente operative. Il Turco continua ad offendere con piccole bande di pirati, senza tuttavia più lasciare i vecchi segni della lotta di natura confessionale. La guerra di religione perde rispetto al passato le sue originarie motivazioni. Con il passare degli anni quello che una volta era considerata una fazione militare dell’esercito ottomano al servizio dell’Islam si qualifica sempre più come un fenomeno, formato da un eterogeneo gruppo di sbandati in cerca di bottino, tipico della criminalità comune.         

Note


[1] Per un approccio più ampio si veda Aa.Vv., I Turchi, il Mediterraneo, l’Europa,a cura di Giovanna Motta, Milano, Franco Angeli editore, 1998.

[2] Per il sacco di Otranto si rinvia a M. Spedicato, Il riscatto della cristianità offesa. Il culto dei martiri d’Otranto prima e dopo Lepanto,in Aa.Vv., La conquista turca di Otranto (1480) tra storia e mito,Atti del Convegno Internazionale di studio (Otranto – Muro Leccese, 28-31 marzo 2007), 2 voll. a cura di Hubert Houben, Galatina, Congedo editore, 2008, pp. 115-40.

[3] Sulla battaglia di Lepanto esiste una sterminata letteratura, che sarebbe complicato richiamare in questa sede: si cfr., a titolo esemplificativo, A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Bari-Roma, Laterza editori, 2012.

[4] Cfr. M. Spedicato, Il trattato di Barcellona del 1529 e l’esercizio del patronato regio nel Viceregno di Napoli nell’età di Carlo V,in Atti del Convegno Internazionale su Carlo V (Cagliari 14-16 dicembre 2000),a cura di Bruno Anatra, Roma, Carocci editore, 2001, pp. 381-89. 

[5] Si veda L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, Bologna, Anselmo Giaccarelli, 1550; una seconda edizione in due volumi esce qualche anno dopo, nel 1568, stampata a Venezia per conto di Lodovico degli Avanzi, che si rivela la più completa, da cui sono tratte le ristampe più aggiornate: cfr. Aa.Vv., L’Italia dell’Inquisitore. Storia e geografia dell’Italia del Cinquecento nella Descrittione di Leandro Alberti, a cura di Massimo Donattini, Bononia, University Press, 2007.   

[6] In merito si rinvia a M. Spedicato, Un problema identitario. Le ragioni storiche della denominazione della provincia salentina,in Aa.Vv., Conventio Populorum. Studi in memoria di Antonio Fernando Guida,a cura di Mario Spedicato e Francesco Danieli, Galatina, EdiPan, 2016, pp. 17-24, saggio ripreso e integrato nel volume A new world. Emperor Charles V and the beginnings of globalization,Atti del Convegno Internazionale di Studio, a cura di Anna Trono, Paul Arthur, Alain Servantie & Encarnación Sánchez García, Tab Publisher, 2021, pp. 114-31.

[7] Ancora alla fine del Medioevo “il papa Sisto IV era sollecitato a promulgare nobili proclami universali come a rinfacciare meschinamente al re di Napoli la presunta incapacità a difendere quel regno graziosamente concesso in comodato ai suoi predecessori normanni, minacciando magari di dirottare la concessione del medesimo stato ai perenni rivali angioini”, come riportato in una lettera dell’oratore estense Battista Bendidio del 31 ottobre 1480: “Sel re non può defendere questo nostro reame, lo restituisca a nuj che ben lo defenderemo” (D. Palma, L’autentica storia di Otranto nella guerra contro i Turchi – Nuova luce sugli eventi del 1480-81 dalle lettere cifrate tra Ercole d’Este e i suoi diplomatici, Calimera, Kurumuny, 2013, pp. 456b e 146a). 

[8] M. Spedicato, Il mercato della mitra. Episcopato regio e privilegio dell’alternativa nel regno di Napoli in età spagnola (1529-1714),Bari, Cacucci editore, 1996.

[9] Ivi. Sulle ambizioni coltivate dalla città capoluogo di Terra d’Otranto e divulgate nel secondo Cinquecento dal giureconsulto leccese Iacopo Antonio Ferrari nella sua Apologia Paradossica (pubblicata nel 1977 a cura di Alessandro Laporta per l’editore Capone d Cavallino di Lecce), si veda M. Spedicato, Lecce alia Neapolis. Nascita e tramonto di un primato urbano (secc. XVI-XVII),Galatina, EdiPan, 2005; per le dinamiche storiche che sottendono e alimentano questa rivendicazione si rinvia a P. Nestola, I grifoni della fede. Vescovi inquisitori in Terra d’Otranto tra ‘500 e ‘600,Galatina, Congedo editore, 2008.

[10] Cfr. M. Fagiolo-V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia: Lecce,Bari, Laterza, 1984.

[11] M. Spedicato, Un problema identitario,cit.

[12] Idem, Il mercato della mitra,cit.

[13] Ivi.

[14] Ivi.

[15] Al riguardo si rinvia a M. Spedicato, El Supremo Consejo de Italia e il reclutamento episcopale nel Viceregno di Napoli nel secondo Cinquecento, in Studi in onore di Giancarlo Vallone (in corso di stampa).

[16] Per un’ottima sintesi si rinvia a F. Braudel, Carlo V,Milano, Feltrinelli, 2008.

[17] Si veda, al riguardo, S. Bono, Guerre corsare nel Mediterraneo. Una storia di incursioni, arrembaggi e razzie,Bologna, Il Mulino, 2019.

[18] Il barone si rifugia a Roca nel 1528, dopo aver tentato di allineare la provincia di Terra d’Otranto ai francesi di Francesco I, senza però riuscirci. Roca ancora all’inizio dell’età moderna si configura come una fortezza per una difesa ad oltranza, un collaudato baluardo per resistere a forze soverchianti, utilizzata anche dalle forze degli infedeli come riparo alle loro frequenti incursioni sulla costa salentina. Un covo di pirati che alla lunga infastidisce l’imperatore spagnolo che ordina la sua completa distruzione per mano di Ferrante Loffredo, preside della provincia otrantina: cfr. D. e G. Palma, El Turcho in Terra d’Otranto. Lo sciame bellico dal 1480 al 1818,Calimera, Kurumuny, 2018, pp. 104 e sg; Roca come sito marittimo strategico fino a metà Cinquecento è attestato anche da un contemporaneo, Girolamo Marciano, che attribuisce al Loffredo la distruzione della cittadella per evitare che diventi un avamposto militare turco nel Salento: cfr. G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto del filosofo e medico Girolamo Marciano di Leverano con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese di Oria,ristampa dell’edizione del 1855, con Introduzione di Domenico Novembre, Galatina, Congedo editore, 1996, p. 396.     

[19] Di questo episodio scrive diffusamente C. Capasso, La politica di Paolo III e l’Italia,Parma 1901, pp. 428-34 e anche S. Panareo, Turchi e Barbareschi ai danni di Terra d’Otranto,in “Rinascenza Salentina”, I, 1933, gen.-feb., pp. 2-13, e ib., set.-ott., pp. 234-247. Il sacco di Castro del 1537 non sfugge ad un anonimo diarista fiorentino (cfr. R. Ridolfi, Diario fiorentino di anonimo delle cose occorse l’anno 1537,in “Archivio Storico Italiano”, 116, 1958, pp. 544-70), e neppure al giureconsulto Iacopo Antonio Ferrari, il quale aggiunge un altro episodio analogo perpetrato nello stesso anno dai Turchi ad Ugento, città, come Castro sede di diocesi, posta sul lato opposto della penisola salentina: cfr. I.A. Ferrari, Apologia Paradossica,cit., pp. 547-49.  

[20] Cfr. Sul lungo regno di Solimano il Magnifico (1520-66) e sulla politica espansionistica espressa dal Sultano in Europa si rinvia all’agile volume di A. Barbero, Solimano il Magnifico,Bari-Roma, Laterza editori, 2012.

[21] Sulla cronologia edilizia delle torri costiere nel Salento si veda G. Cosi, Torri marittime di Terra d’Otranto, Galatina, Congedo, 1996.

[22] Sui mutamenti di lunga durata nella politica spagnola, da Carlo V a Filippo II, si veda F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II,2 voll., Torino, Einaudi editore, 1988. 

[23]  Espressione popolare nata per rievocare il dramma di Otranto del 1480 che però rimane nell’immaginario collettivo delle popolazioni rivierasche ben oltre la minaccia turca, ispirando la letteratura e le arti visive e di altro tipo.    

[24] Si rinvia al contributo di C.J. Hernando Sanchez, Pedro de Toledo entre el hierro y el oro: construction y fin de un virrey,in Aa.Vv., Rinascimento meridionale. Napoli e il vicerè Pedro de Toledo, a cura di Sanchez Garcia, Napoli 2016, pp. 3-65.

[25] Su questo tema si veda il recente volume di M. Firpo, Riforma cattolica e Concilio di Trento. Storia o mito storiografico,Roma, Viella, 2022.

[26] S. Bono, Guerre corsare,cit.

[27] A. Barbero, Lepanto,cit.

[28] Cfr. D. e G. Palma, El Turcho, cit., pp. 176-180.

[29] Nel Salento, Castro continua anche dopo Lepanto ad essere presa di mira dalle bande dei pirati sia nel 1572 sia l’anno successivo, costringendo il vescovo della città a trasferire in un casale dell’entroterra (Poggiardo) la cattedra e gli uffici della sede diocesana senza mai più rimettere piede. Il luogo è ritenuto pericoloso anche dai suoi successori, che continuano a guidare la chiesa lontano dalla caput della circoscrizione ecclesiastica, aprendo con largo anticipo alla soppressione della sede episcopale: cfr. M. Spedicato, La lunga agonia istituzionale di una diocesi di periferia: la sede episcopale di Castro in età moderna, in Idem, Tra il Papa e il Re. Le diocesi meridionali alla fine dell’antico regime,Galatina, EdiPan, 2003; utile, al riguardo, il recente lavoro di A. Lazzari, In extremo angulo Italiae. Vicende istituzionali e vita quotidiana a Castro tra XVI e XX secolo,Castiglione di Lecce, Giorgiani editore, 2018.  

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