Tra filologia e critica: il Fenoglio di Gino Rizzo

di Antonio Lucio Giannone

Gli studi su Beppe Fenoglio hanno rappresentato una parte consistente dell’attività critica e filologica di Gino Rizzo e sono considerati tra le sue prove migliori, insieme ai numerosi lavori (contributi critici ed edizioni) sui poeti barocchi salentini. Rizzo incominciò a occuparsi di Fenoglio subito dopo la tesi di laurea dedicata a un altro scrittore piemontese, Cesare Pavese,  seguendo un suggerimento del suo maestro, Mario Marti, che si doveva rivelare quanto mai felice. Fenoglio, infatti, alla fine degli anni Sessanta, era diventato un  clamoroso ‘caso’ nel panorama letterario italiano. Mentre, infatti, durante la sua vita era stato conosciuto e apprezzato  solo da pochi,  la pubblicazione di alcune opere dopo la sua morte, avvenuta nel febbraio del 1963, lo impose definitivamente all’attenzione generale di critica e pubblico. Italo Calvino, ad esempio, nel 1964, nella prefazione alla seconda edizione del suo Il sentiero dei nidi di ragno, scrisse che con Una questione privata, il breve romanzo che era stato pubblicato l’anno prima dall’editore Garzanti, insieme ad alcuni racconti, nel volume Un giorno di fuoco, Fenoglio era riuscito a fare «il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno  più se l’aspettava […]. Il libro che la nostra generazione voleva fare  ̶  continuava  ̶  adesso c’è,  e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata » [1]. Ma il ‘caso’ Fenoglio era esploso davvero qualche anno dopo, nel 1968, con la pubblicazione di quello che è considerato il suo capolavoro, Il partigiano Johnny, curato da Lorenzo Mondo presso Einaudi in maniera però assai discutibile, cioè attraverso la contaminazione delle due redazioni, e perciò duramente criticata dai filologi.

Ebbene, Rizzo si mette al lavoro sullo scrittore proprio in questo periodo, andando a consultare direttamente, alla fine degli anni Sessanta, le carte del Fondo Fenoglio conservate ad Alba presso la famiglia. Mette quindi le mani, tra i primi, in questa materia ancora magmatica e incandescente in tutti i sensi. A tale proposito, per avere un’idea di quale fosse la situazione dell’archivio fenogliano, è utile riportare un’osservazione di Maria Corti che, durante la Tavola rotonda che si tenne a Lecce nel 1983 proprio in occasione del Convegno su Fenoglio organizzato dal critico salentino, ebbe a dire che «solo G. Rizzo e M. A. Grignani» potevano testimoniare in che condizione fosse il materiale di Fenoglio quando la Casa editrice Einaudi la incaricò di fare ordine per preparare l’edizione. Era – continua la Corti  ̶   «in una condizione mostruosa»[2]. D’altra parte,  anche nella sua Premessa all’edizione einaudiana delle Opere dello scrittore, accenna all’«aspetto terremotato»[3] del materiale manoscritto e dattiloscritto che si trovava ad Alba.

Va perciò tutto a merito di Gino Rizzo avere studiato, tra i primi, queste importanti carte, riuscendo a individuare opere o spezzoni di opere ancora inedite che in parte poi avrebbe anche pubblicato. Nel 1970 infatti, sul primo numero della nuova serie della rivista «L’Albero»  di Girolamo Comi, ripresa da Donato Valli e Oreste Macrì, pubblica il suo primo lavoro sullo scrittore piemontese, Restauri fenogliani, che poi, «rivisto e aggiornato», venne compreso nel volume Su Fenoglio tra filologia e critica. Qui partiva da «”un piano” per un romanzo di argomento partigiano»[4], rinvenuto tra i dattiloscritti del Fondo, e lo metteva a confronto con un’opera o meglio con un progetto di opera rimasta incompiuta, denominata da Lorenzo Mondo, che ne aveva dato notizia per primo nel 1963, pubblicandone dei brani, Frammenti di romanzo, e poi più recentemente, da Dante Isella, L’imboscata. Secondo Rizzo, si trattava di «una nuova autonoma fatica fenogliana»[5], anche se questo romanzo non aveva raggiunto «la sua forma definitiva […] con l’inevitabile lavoro di ricontrollo […], ma ha poi subito – aggiungeva  ̶  un vero e proprio smembramento tale da renderlo irriconoscibile ed  impedirne a tutt’oggi un completo recupero»[6].

Successivamente egli confrontava brani di quest’opera, di cui stabiliva la cronologia interna, con gli altri due grandi romanzi di argomento partigiano di Fenoglio, Il partigiano Johnny e Una questione privata, riuscendo a documentare puntualmente in questi la presenza di Frammenti di romanzo. Episodi, sequenze, personaggi venivano passati da lui minuziosamente al setaccio, alla ricerca di coincidenze, di corrispondenze tra i vari testi. E non mancava nemmeno, in questo studio, un esame delle scelte lessicali, delle strutture sintattiche di questo progetto di romanzo. Traendo alla fine le conclusioni, Rizzo sosteneva che «tutto questo  fa sì che FR [Frammenti  di romanzo] si situi in una zona letteraria spesso indicata col cartello “crisi del neorealismo”; una zona cioè che segna il prevalere delle preoccupazioni esistenziali nei confronti del fatto storico (la Resistenza, nel caso che ci interessa)»[7], e ancora che «qui si conferma in tal modo la riscoperta della Resistenza da parte di Fenoglio secondo una trascrizione non agiografica, ma demistificatoria»[8].

Tre anni dopo, in un altro contributo dal titolo Per un itinerario letterario: le Langhe di Beppe Fenoglio, egli spostava l’attenzione, dal ciclo ‘partigiano’, su un altro filone dell’opera fenogliana, quello degli ‘scritti langaroli’, occupandosi di un altro progetto incompiuto, Il Paese, che risaliva, a suo avviso, al 1954-‘55. Com’è noto, Fenoglio era rimasto molto colpito dal giudizio espresso nel risvolto della Malora, apparsa nella collana einaudiana «I Gettoni»,  nel 1954, da Elio Vittorini che l’aveva rimproverato di alludere a cose non «sperimentate personalmente», correndo il rischio di cadere nel naturalismo ottocentesco. Così aveva compiuto una vera e propria indagine nella zona per cogliere dal vivo ambienti, fatti, personaggi, scene  langarole che appuntava in fogli manoscritti. Ne era venuta fuori quest’opera che, a giudizio del critico, costituiva «un assieme narrativo omogeneo e unitario e destinato a rappresentare in un grandioso affresco fatti e modi di vita delle Langhe»[9]. Composto da cinque testi narrativi, accomunati dalle unità di tempo e di luogo, che davano compattezza al progetto, e da un numero più o meno fisso di personaggi,  il Paese era dunque una «”cronaca” di argomento paesano»[10], ma – precisava subito dopo Rizzo  ̶  «fuori da ogni intendimento di inchiesta sociologica o mimetico-folclorica e dovuto a tutt’altro che ad un’attardata e periferica pretesa di revival strapaesano»[11], in quanto esso

“fiuta invece e investiga una vicenda ed un destino umano, riflessi, qui come altrove, in quella sorta di umbelicus mundi che per lo scrittore albese sono state le Langhe. La sua febbrile inchiesta dopo la pubblicazione della Malora è quindi inchiesta sull’uomo e il Paese, teste insigne, frutto del diuturno e cospicuo scavo operato nelle Langhe con nuovi intendimenti, resta il più complesso e ambizioso ricavo della meditazione fenogliana di quegli anni sull’uomo”[12].

Lo stesso anno, il 1973, Rizzo pubblicava questo testo,  Il paese, ridotto a quattro capitoli, nel volume Un Fenoglio alla prima guerra mondiale [13], che comprendeva altri pezzi narrativi inediti, e cioè I penultimiLa licenzaIl mortorio Boeri e il racconto che dà il titolo al libro. Nella Nota del curatore, a cui seguiva una Nota ai testi e un Glossario, egli dava conto in maniera sintetica di questi scritti sui quali ritornava più ampiamente in due dei tre studi raccolti nel volume del 1977. A dire il vero, bisogna aggiungere che Un Fenoglio alla prima guerra mondiale venne accolto con qualche riserva da alcuni critici, come Giancarlo Vigorelli e Gina Lagorio, i quali contestarono al curatore del volume l’opportunità di pubblicare opere incompiute alle quali l’autore non aveva potuto dare un assetto definitivo. In una recensione, Vigorelli scrisse fra l’altro che «chi legge questi spezzoni, anche se è un patito come me di Fenoglio, non può esaltarsene e teme anzi che un lettore impreparato possa disamorarsi di uno scrittore così appassionante»[14]. La Lagorio, dal canto suo, in una breve monografia, affermò che quella edizione non aveva reso «un buon servizio»[15] allo scrittore. Ma nel 1984 Rizzo poteva prendersi in un certo senso una rivincita, rivendicando «la tempestività e la validità della sua proposta»[16], dopo che un critico, Roberto Bigazzi, nel suo volume Fenoglio: personaggi e narratori, aveva messo in rilievo l’importanza del Paese nella produzione fenogliana:

“Al contrario, le ricerche di Bigazzi additano la rilevanza di Paese, pure ai fini della identificazione di un peculiare momento dell’attività narrativa fenogliana, caratterizzato da un’indubbia tensione al romanzo, datata da Bigazzi a metà degli anni Cinquanta; per quanto, a mio parere, siffatta tensione è di continuo sottesa all’operare dello scrittore albese”[17].

Per tornare ora alla monografia uscita nel 1976, dopo Restauri fenogliani e Per un itinerario letterario: le Langhe di Beppe Fenoglio, dei quali abbiamo già parlato, il critico leccese nel terzo studio, La ricerca ‘parentale’[18], affrontava ancora altri racconti che appartenevano al cosiddetto ciclo ‘parentale’, completando così, in un ideale trittico, attraverso queste opere rimaste inedite, l’esame dei principali filoni dello scrittore: il ciclo ‘partigiano’, il ciclo ‘paesano-langarolo’ e appunto il ciclo ‘parentale’. In particolare, egli collocava cronologicamente questi ultimi testi tra la fine del 1961 e il gennaio del ‘63, allorché Fenoglio cercò di realizzare una seconda serie di ‘racconti del parentado’, dopo il progetto di pubblicazione di una prima serie, nel 1961, non andato in porto a causa del veto della casa editrice Garzanti che allora possedeva un diritto di opzione sulle opere inedite dello scrittore: «Ambientati tutti nelle Langhe e scritti tra la fine del 1961 e il gennaio 1963, chiamano in causa i parenti paterni dell’autore; e perciò pare probabile che siano da ascrivere a quella non più ipotetica prosecuzione che la ricerca parentale avrebbe dovuto avere nel tempo dopo la pubblicazione della prima serie di racconti»[19]. Nei testi  ‘parentali’ il tema di fondo diventa la prima guerra mondiale «coordinata temporale nella quale sempre si collocano le vicende narrate[20]. Successivamente Rizzo li passava in rassegna, enucleando  temi e problemi, individuando diverse redazioni e stabilendo la successione cronologica e i vari rapporti tra di esse. A tal fine prendeva in considerazione tutto ciò che poteva essere utile (lettere, cronache giornalistiche, interviste) e nemmeno la grafia, l’inchiostro, il tipo di quaderni usati dallo scrittore erano da lui trascurati.

A proposito della grafia della prima redazione del racconto Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, da lui seguita, e della fatica notevole che dovette fare per decrittarla e quindi pubblicarla, ecco cosa scrive lo studioso:

“È redazione convulsa, concitata, dalla grafia particolarmente impaziente, stenografica in più punti, quasi smaniosa di raccogliere le più piccole particelle di un subitaneo stato di grazia, e tale da richiedere, talvolta, capacità divinatorie al trascrittore arresosi di fronte a zone del testo inintelligibili. D’altronde  ̶ continua  ̶  per dare un’idea delle difficoltà incontrate nella trascrizione, basti il fatto che lo stesso Fenoglio più volte ha ricopiato fedelmente, ma più chiaramente, quanto già scritto quasi stenograficamente sulle righe; allo stesso autore cioè riusciva difficile, in qualche caso, la comprensione di queste pagine redatte tutte di getto, freneticamente”[21].

Ebbene, sia nell’edizione critica delle Opere di Fenoglio a cura di Maria Corti, sia nell’edizione dei Romanzi e racconti,  a cura di Dante Isella, veniva dato atto a Rizzo di aver saputo per primo «meritoriamente» decifrare l’«ardua scrittura»[22], l’«ostica grafia»[23] dei testi fenogliani. Anche questo, cioè, è un aspetto non meno importante dello scrupolo, dell’estrema attenzione con cui conduceva il suo lavoro filologico, su cui non poco ha contato ovviamente l’esempio del suo maestro, Mario Marti.

Nel volume fenogliano del 1976 egli aveva inserito anche, in appendice, un saggio intitolato, Alle origini della memorialistica partigiana: «Banditi» di Pietro Chiodi (1946), che non era dedicato a Fenoglio, ma appunto a Pietro Chiodi, che Rizzo conobbe personalmente.  Questo accostamento però non era per niente casuale e fuor di luogo in quanto Chiodi, che è noto soprattutto come  filosofo e studioso di grandi filosofi, era stato professore dello scrittore piemontese al Liceo di Alba e aveva scritto appunto Banditi, che trattava il tema della guerra partigiana.  Si trattava  di un diario composto fra il 1945 e il ‘46, pubblicato ad Alba nel 1946 e poi a Cuneo nel 1961, e ristampato da Einaudi nel 1975. Un libro, quindi, strettamente vicino da un punto di vista tematico all’opera di Fenoglio, al punto che un avvenimento accaduto ad Alba nel dicembre 1944 era descritto da Chiodi e nel Partigiano Johnny. Ma mentre Fenoglio  ̶  osserva Rizzo  ̶  «punta sull’ epicità e coralità»[24], Chiodi «presenta la nuda elementarità dell’evento»[25]. Anche l’atteggiamento di fondo di Chiodi assomigliava a quello di Fenoglio perché, a giudizio del critico, in questo diario l’autore mette a fuoco problemi e difficoltà della storia partigiana più che certezze e fiducia.

Negli anni seguenti, dopo la pubblicazione di questa monografia, Rizzo incomincia a dedicarsi ad altri filoni di indagine (il Settecento salentino, il Seicento attraverso un volume da lui curato che raccoglieva le Opere di Ferdinando Donno apparso, nel 1979, nella «Biblioteca salentina di cultura» diretta da Marti), ma non trascura nemmeno Fenoglio e nel 1982 pubblica una lunga e analitica recensione  ̶  che è un  contributo originale  ̶  dell’edizione critica di tutte le Opere dello scrittore piemontese, a cura di Maria Corti, apparsa in tre volumi per complessivi cinque tomi presso Einaudi nel 1978[26]. Qui, da esperto fenoglista quale ormai era, dopo aver presentato per sommi capi l’opera, inizia facendo opportune osservazioni su alcuni punti specifici, come la disposizione, non sempre corretta a suo modo di vedere, dei vari scritti nei tre volumi, per cui «certe direzioni del lavoro fenogliano non paiono sufficientemente marcate»[27]. Poi entra nel merito dei testi raccolti, facendo rilevare, ad esempio, la mancanza nel corpus di un racconto originale, Storia di Harry Bell e Bobby Snye, che per la Corti era una traduzione dall’inglese, nonché  di due brevi brani che «beninteso  ̶  scrive  ̶  sono vere e proprie nugae, pur tuttavia interessanti […], perché ascrivibili ad un Fenoglio meno noto»[28] e, ancora, di «tre pezzi autografi»[29]. Al tempo stesso, indica la presenza di un «raccontino»,  Alla Langa, apparso anonimo sulla rivista «Il Caffè» nel 1954, che era invece una parodia, «scritta sulla base dei materiali narrativi fenogliani noti nel novembre del 1954, e cioè I ventitre giorni della città di Alba e La malora». Per finire, discute i criteri editoriali seguiti, a volte concordando e  a volte  dissentendo da essi,  e segnalando alcune integrazioni o proposte di lettura sostitutive rispetto all’edizione einaudiana, relative soprattutto alla grafia fenogliana, sulla base di un attento lavoro di controllo degli originali albesi. A questo proposito, così commentava alla fine con un certo compiacimento:

“E, a dire il vero, il lavoro di controllo da noi effettuato ha spesso comportato preziosi acquisti in sostituzione di false proposte di lettura; e sempre la validità e il vigore dei frammenti da noi recuperati ci hanno ricompensati delle fatiche sopportate nel decifrare la grafia fenogliana, tesa quasi, con i suoi ghirigori e svolazzi indecifrabili, a celare i suoi ultimi segreti”[30].

Nell’ Appendice dell’articolo,  infine, dava un ampio prospetto delle sviste, degli errori meccanici, delle lezioni mal decifrate, aggiungendo frammenti e brani che a suo giudizio andavano inseriti nel corpus.

Era, questa recensione-saggio, quasi il preannuncio di un ‘ritorno a Fenoglio’ da parte di Rizzo, che l’anno dopo, nel 1983, organizzò proprio a Lecce un memorabile Incontro di studio, con la partecipazione dei maggiori specialisti dello scrittore piemontese: Maria Corti, Maria Antonietta Grignani, Roberto Bigazzi, Eduardo Saccone, Giovanni Falaschi, Mark Pietralunga, John Meddemmen, Marziano Guglielminetti, Elisabetta Soletti e Gian Luigi Beccaria. Ne venne fuori un dibattito appassionante e di alto livello i cui Atti egli poi curò nel volume Fenoglio a Lecce, che vide la luce l’anno dopo nella collana delle Pubblicazioni dell’appena nato Dipartimento di Filologia, linguistica e letteratura, stampate dall’editore fiorentino Olschki.

In questa occasione Rizzo, nella sua relazione, dal titolo Gli estremi di una parabola narrativa: il «Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, affrontò  ̶ coraggiosamente, bisogna dire  ̶  uno dei più spinosi, intricati e controversi problemi della critica e della filologia novecentesca, quello relativo alla cronologia del Partigiano Johnny. Qui, com’è noto, si scontravano due posizioni. Da un lato, c’erano la  Corti e i suoi allievi i quali ritenevano che quest’opera, di cui esistono due redazioni e una prima stesura in inglese, il cosiddetto Ur Partigiano Johnny, fosse stata composta negli anni immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale e comunque non oltre i primi anni Cinquanta, quindi nella prima fase del lavoro di Fenoglio. Dall’altro, c’erano critici come Eugenio Corsini, Bigazzi e Saccone, secondo i quali il ciclo del Partigiano Johnny, proprio per la sua complessità ideologica, stilistica e strutturale, sarebbe un’opera della maturità di Fenoglio composta tra il 1956 e il 1959. E proprio a questo tema era dedicata l’avvincente e vivacissima Tavola rotonda, poi compresa negli Atti, in cui vennero confermate queste tesi dai rispettivi sostenitori, tutti presenti, come s’è detto, in quella occasione.

Ebbene, Rizzo, nella sua relazione, prospettava una terza ipotesi, che si poneva a metà strada tra le due, collocando Partigiano Johnny 1«a monte dei Racconti della guerra civile del 1949» e riportando Partigiano Johnny 2 «all’area del progetto narrativo elaborato a partire dal 1956»[31]. Cioè riferiva i due ‘tentativi’ di romanzo a momenti diversi:

“Essi invece andranno riferiti, anzi, debbono essere riferiti – scriveva Rizzo  ̶  a tempi di composizione distanti fra di loro, perché   presuppongono gusti, predilezioni letterarie, umori differenti, persino più scaltrite capacità di scrittura, e soprattutto, come è stato già scritto, una diversa maturità personale e civile oltre che una più equilibrata consapevolezza della lezione della Resistenza e quindi, in sostanza, prospettive ideologiche completamente difformi. Partigiano Johnny 1 e Partigiano Johnny 2 non possono essere stati scritti in un breve lasso di tempo; si deve pensare, al contrario, per i due testi a momenti cronologici necessariamente distanziati e tesi a progetti narrativi autonomi e riferibili a peculiari e specifiche spinte ideologiche”[32].

Ma come giungeva lo studioso a questa ipotesi, per tanti aspetti, così innovativa? Attraverso un minuzioso, particolareggiato esame dell’attività svolta da Fenoglio negli anni 1952-‘57, e soprattutto attraverso una serie di documenti di vario genere risalenti a quel periodo, che richiamava e analizzava puntigliosamente, come era solito fare, riportandoli poi in Appendice. E anche qui, nella ricerca e nell’attenzione prestata al documento, a volte anche minimo, si rivela una chiara influenza della lezione di Marti. In particolare, Rizzo citava i seguenti documenti: un articolo-intervista, apparso sul «Corriere Albese» del 12 giugno 1952, che fornisce indicazioni preziose sul lavoro di Fenoglio fino a quell’anno; il Convegno nazionale dei ‘Giovani Scrittori’, svoltosi a Roma il 4 e 5 dicembre 1953, a cui partecipò anche Fenoglio; la traduzione del componimento  di S. T. Coleridge La ballata del vecchio marinaio di S. T. Coleridge; quella di due articoli sulla pittura futurista e sull’arte astratta di Gino Severini; quella, ancora, di una presentazione delle sculture astratte di Umberto Lardera, scritta da Marcel Brion, tutte apparse su «I 4 Soli. Rassegna d’arte attuale», che usciva ad Alba; la traduzione infine, sempre per questa rivista, di  due brevi liriche del poeta inglese Robert Creeley, con cui egli si mise anche in contatto epistolare. E inoltre citava lettere di Fenoglio a Giacinto Spagnoletti, a Calvino e a Vittorini. Quali erano le conclusioni alle quali Rizzo giungeva alla fine del suo lavoro? In sintesi si può dire che tutta questa documentazione da lui portata, serviva, nelle sue intenzione, a dimostrare che Fenoglio in questi anni si era definitivamente allontanato dal neorealismo, orientandosi verso un tipo di letteratura più problematica, che andava «in una direzione antimimetica, antieffusiva e cioè in linea con  le predilezioni letterarie […] esplicitate da Fenoglio negli anni 1954-57»[33], che emergono appunto da questa attività collaterale al suo lavoro creativo.

Ecco, allora, che tra il 1956 e il 1958 Fenoglio riprende il progetto narrativo, che risaliva all’immediato dopoguerra, e ne fa qualcosa di molto diverso:

“Ed è appunto perché quegli avvenimenti [narrati nel romanzo] col trascorrere degli anni avevano acquisito significatività vaste ed ampie, ̶  sostiene Rizzo  ̶  che Fenoglio negli anni 1956-58 volle ripercorrere le personali vicende in funzione di un progetto narrativo difforme da quello perseguito negli anni immediatamente successivi al 1945. non più  un romanzo autobiografico-cronachistico (Partigiano Johnny 1), ma un «libro grosso», dalle urgenze simbolico-paradigmatiche, teso cioè a temi assoluti (la ferocia, la violenza, la guerra civile, la solitudine ecc.) colti all’interno degli avvenimenti bellici personalmente esperiti. Perciò, Fenoglio nel transito da Partigiano Johnny 1 a Partigiano Johnny 2 con particolare cura e con capillare attenzione espunse gli aspetti più vistosamente lirico-autobiografici del testo originario, volendo rescindere il carnale legame che univa il protagonista Jonny a se stesso ed alla Langhe”[34].

Negli anni immediatamente seguenti al Convegno, Rizzo ritorna ancora su Fenoglio con due interventi che si possono considerare quasi un’appendice del  dibattito svoltosi a Lecce in quella occasione, in quanto affrontavano entrambi, ancora una volta, il nodo quasi irresolubile della cronologia del Partigiano Johnny. Nel primo, Bigazzi, Fenoglio e il ciclo dei «Partigiani» [35],  Rizzo prendeva spunto da un volume allora appena uscito, quello già citato di Roberto Bigazzi, Fenoglio: personaggi e narratori, del 1983, in cui l’autore, fra l’altro, riproponeva la  tesi della datazione tarda dell’intero ciclo dei Partigiani, risalente a suo giudizio al triennio 1956-‘59. E qui, dopo avere esposto correttamente le tesi dell’autore e averle discusse, si soffermava sulle prove da lui addotte. La prima era costituita dalla presenza di due termini che non sarebbero attestati in Italia prima di una certa data:  egg-head, nel senso un po’ spregiativo di «testa d’uovo», «intellettuale», nell’Ur Partigiano, e «besprizorni», nel Partigiano Johhny 1. La seconda prova, da alcune annotazioni autografe su tre cartelle vuote del fondo albese, relative al ciclo dei Partigiani, con l’indicazione di capitoli, pagine e  date. Su queste annotazioni, in particolare, si soffermava Rizzo, il quale, dopo averle scrupolosamente controllate di persona e notato le differenze di penna, di matita, di inchiostro usati, coglieva nella tesi di Bigazzi una incongruenza  che ovviamente, a suo parere, la inficiava.

Nell’altro intervento, Immagini della Russia sovietica in Italia. Appunti sul tema dei ‘besprizorni’ [36], affrontava invece un’altra prova addotta da Bigazzi per datare il Partigiano Johnny dopo il 1955, la presenza del termine «besprizorni», che in russo significa giovani sbandati, orfani, abbandonati, in un brano del Partigiano Johhny 1. Questo termine era stato usato, in questa peculiare forma italianizzata, in una recensione di Anna Banti apparsa su «Paragone» appunto nel 1955. Già la Corti e la Grignani, proprio durante la Tavola rotonda leccese avevano dimostrato l’attestazione del termine in Italia già dagli anni Venti-Trenta, a partire da un film del regista russo N. Ekk, Il cammino verso la vita, presentato al Festival cinematografico di Venezia nel 1932. Ma il critico leccese, in questa caparbia, analitica rassegna, va molto al di là e riesce a rintracciare una serie di fonti dove è presente questo termine, tutte anteriori al 1952 (anno della traduzione italiana del Poema pedagogico di A. S. Makarenko, in cui pure esso si trova) e al 1955. E l’elenco è davvero lunghissimo: si va dai reportage in Russia di V. Cardarelli e C. Alvaro degli anni Trenta a opere di U. Nobile, P. Robotti, E. Lo Gatto, A. Gide, apparse tutte prima del 1952. Nello stesso tempo coglieva l’occasione per compiere  anche un interessante excursus sul tema dei «besprizorni» in Italia, negli anni Venti-Quaranta, mettendo in rilievo alcune immagini della Russia sovietica che giungevano nel nostro paese attraverso queste e altre opere, di carattere letterario ma anche politico.

Dopo questo articolo, dell’85 ripeto, Rizzo abbandonò lo studio di Fenoglio, dedicandosi negli anni seguenti, come sappiamo, soprattutto alla cura degli impegnativi volumi della «Biblioteca salentina di cultura» diretta da Mario Marti, dedicati alle opere di G. Maia Materdona (1989), G. Battista (1991), A. Bruni (1993),  nonché di altri argomenti. Ritornò ancora una volta, l’ultima, sullo scrittore piemontese, dopo ben diciotto anni, nel 2003, analizzando  il volume  Lettere di Beppe Fenoglio,  pubblicato da Einaudi nel 2002[37]. Anche in questo caso, non si trattava di una semplice recensione, ma di un accurato esame del volume, del quale egli, come di consueto, sottolineava assenze, refusi, presenze che suscitavano perplessità. Ma qui soprattutto ‘leggeva’ attentamente alcune lettere dello scrittore mettendole in relazione con le varie fasi della sua attività, come quella relativa alla stesura di Frammenti di romanzo, l’opera incompiuta da lui ‘ricostruita’ e ‘restaurata’. A proposito di quest’opera, restava sempre dell’idea che si trattasse «di un’esperienza narrativa dismessa e smembrata dallo stesso Fenoglio, a seguito di altri impellenti progetti»[38] e che così quindi dovesse essere ancora considerata. Era contrario quindi a ritenerlo un vero e proprio romanzo, come invece era stato inteso da Isella, che nella sua edizione dei Romanzi e racconti, già citata, l’aveva ripristinato con il nuovo titolo apocrifo di L’imboscata, e così ribadiva in maniera chiara:

“Quei Frammenti di romanzo non ebbero mai il definitivo suggello da parte dello scrittore, che non ravvisò in esso, per varie ragioni, dignità di completezza ideologico-espressiva e quindi di pubblicazione. Mi pare che  non si possa venir meno al fondamentale e imprescindibile principio del rispetto delle volontà dell’autore, che attese negli ultimi anni, in un susseguirsi di ravvicinate stesure, a Questione privata, nuova e baldanzosa fenice rinata sulle ceneri dei Frammenti di romanzo”[39].

In questo articolo, lo studioso non riprendeva la «vexata quaestio» (così la definiva) della datazione del Partigiano Johhny, però suggeriva di riproporre  quest’opera «in una nuova edizione» che riunisse in un volume «tutti i pezzi orbitanti intorno al  progetto della stessa “grande cronaca”, sulla base della sua complessità (il quinquennio1940-45) e della sua stratigrafica dinamicità (Ur Partigiano → Partigiano Johnny 1 e  Primavera di bellezza 1 e 2[40].  Ancora una volta, insomma, Gino Rizzo, pur nello spazio limitato di una recensione, riusciva a dare una precisa lezione di metodo e al tempo stesso una dimostrazione di profonda conoscenza dell’opera di questo scrittore e dei numerosi problemi che essa presentava.


[1] I. CALVINO,  Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in  Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 19985, vol. I, p. 1202.

[2] M. CORTI, Intervento alla Tavola rotonda su: La cronologia dei «Partigiani», in  Fenoglio a Lecce. Atti dell’Incontro di studio su Beppe Fenoglio (Lecce 25-26 novembre 1983), a cura di G. Rizzo, Firenze, Olschki, 1984, p. 226.

[3] EAD., Premessa a B. FENOGLIO, Opere, edizione critica diretta da M. Corti,  vol. I.1, Torino, Einaudi, 1978, p. X.

[4] G. RIZZO, Restauri fenogliani, in «L’Albero», XIV, 45, 1970 (n. s.), pp. 75-114; poi in ID., Su Fenoglio tra filologia e critica, Lecce, Milella, 1976,  p. 11.

[5] Ivi, p. 25.

[6] Ivi, p. 26.

[7] Ivi, p. 59.

[8] Ivi, p. 61.

[9] ID., Per un itinerario letterario: le Langhe di Beppe Fenoglio, in «Nuovi Argomenti», 35-36, 1973, pp. 224-244; poi in Su Fenoglio tra filologia e critica, cit.,  p. 83.

[10] Ivi, p. 78.

[11] Ivi, p. 89.

[12] Ibid.

[13] B. FENOGLIO, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, a cura di G. Rizzo, Torino, Einaudi, 1973.

[14] G. Vigorelli, L’emozione di leggere gli inediti di Fenoglio, in «Il Giorno», 5 dicembre 1973.

[15] G. Lagorio, Beppe Fenoglio, Camposampiero (PD), Nuove Edizioni del Noce, 1983, p. 34.

[16] G. RIZZO, Bigazzi, Fenoglio e il ciclo dei «Partigiani», in «Studi e problemi di crtica testuale»,  vol. XXIX, ottobre 1984, p. 155.

[17] Ivi, p.156.

[18] ID., Su Fenoglio tra filologia e critica, cit., pp. 97-175.

[19] Ivi, p. 102.

[20] Ivi, p. 106.

[21] Ivi, p. 149.

[22] Nota ai testi, in B. FENOGLIO, Opere, cit., vol. III, p. 555.

[23] Nota a I Penultimi, in B. FENOGLIO, Romanzi e racconti, a cura di D. Isella, Torino, Einaudi-Gallimard, 1992, p. 1645.

[24] G. RIZZO, Alle origini della memorialistica partigiana: «Banditi» di P. Chiodi (1946), in «L’Albero», XXIII, 54, 1975 (n. s.), pp. 75-94; poi  in ID., Su Fenoglio tra filologia e critica, cit., p. 184.

[25] Ivi, p. 185.

[26] ID., Editi e inediti di Beppe Fenoglio, in «Giornale storico della letteratura italiana»,  vol. CLIX, fasc. 506, 1982, pp. 82-127.

[27] Ivi, p. 89.

[28] Ivi, p.93.

[29] Ivi, p. 94.

[30] Ivi, p. 103.

[31] ID., Gli estremi di una parabola narrativa: il «Partigiano Johnny» di B. Fenoglio, in Fenoglio a Lecce, cit., p. 96.

[32] Ibid.

[33] Ivi, p. 99.

[34] Ivi, p. 98.

[35] In «Studi e problemi di critica testuale», cit.

[36] In «Autografo», vol. II, n. 5, giugno 1985, pp. 47-62.

[37] G. RIZZO, Le «Lettere» di Beppe Fenoglio, in «Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica», a. XXIV, n. 45, 2003 (n. s.), pp. 91-101; poi in Appendice a ID., Le inquiete novità. Simboli, luoghi e polemiche dell’età barocca, con una Premessa di M. Marti, Bari, Palomar, 2006, pp. 193-206, da cui citiamo.

[38] Ivi, p. 204.

[39] Ibid.

[40] Ivi, p. 206.

[Metodo e intelligenza. Gli studi di Gino Rizzo tra filologia e critica, a cura di F. D’Astore e M. Leone, Galatina, Congedo, 2015, pp. 109-124.]

 

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