La lanterna di Diogene II

di Giovanni Invitto

Sul calcio italiano

Mentre scrivo, da poche ore la squadra italiana di calcio è stata esclusa dai mondiali: tragedia nazionale con dimissioni di allenatore e presidente della Federazione. Sportivi inferociti, depressioni famigliari, titoloni sui giornali… Io sono un appassionato, anzi un «tifoso», di calcio cioè: un «fazioso disarmato». Ho cominciato a frequentare a 13 anni, insieme ai miei due fratelli, l’allora «Carlo Pranzo», campo del Lecce, ora divenuto parcheggio per le auto. Poi si passò allo stadio di Via del Mare inaugurato con il Santos di Pelé, forse il più grande calciatore di tutti i tempi, che segnò un goal dopo uno splendido volo in area di rigore, tanto che io la paragonai, in maniera blasfema, ai voli di san Giuseppe da Copertino che rimaneva sospeso in aria. Ieri, però, è stata una  giornata di lutto, non metaforico, per il calcio italiano. Ma lutto per l’eliminazione della squadra azzurra? Assolutamente no: lutto perché ieri è morto Ciro Esposito, nome e cognome chiaramente napoletani. Ciro, 27 anni, è stato vittima, il 3 maggio scorso, di una rappresaglia organizzata da altri tifosi che non lo conoscevano e che lui non conosceva, mentre andava a Roma per la finale di Coppa Italia. Quell’omicidio maturato ed eseguito a freddo prima di un incontro di calcio, la dice lunga sui livelli di (in)civiltà ai quali siamo pervenuti. Si può morire a 27 anni solo perché si sta per andare ad uno spettacolo sportivo come una partita di football? Siamo tornati all’uomo dell’età della pietra. Allora occorre fare un mea culpa complessivo senza attendere altre tragedie e, conseguentemente, altre decisioni punitive o restrittive. Saremo in grado di far tornare «gioco» ciò che è nato come gioco circa un secolo e mezzo fa? Ma il problema è che era nato come gioco solo per gli spettatori. Sicuramente per i «proprietari» delle squadre di calcio non lo è. E quando ci sono di mezzo interessi di miliardi son loro comandare. E noi, come al tempo del «panem et circenses», continueremo ad accontentarci del pane fino a che saranno sul campo e potremo applaudire i gladiatori che spesso si ammazzano. Ma «the show must go on»: lo spettacolo deve continuare…

Narrare il territorio

L’esistenza è una autonarrazione interiore da quando abbiamo coscienza di esserci ed è una narrazione quasi sempre spontanea che rimane dentro di noi, ma che può essere testimoniata all’esterno nelle varie forme di comunicazione. E i territori? A primo acchito sembrano realtà amorfe, morte, silenziose, puramente naturali. Come avvertire la loro eventuale narrazione che non è verbale? Anzitutto i territori di per sé ci parlano di contesti storici. Case, palazzi, tuguri costruiti dall’uomo, campagne coltivate e campagne abbandonate, quindi, indirettamente, ci narrano del rapporto soggetto umano-contesto materiale-storia di vita. Il soggetto è sempre in uno scambio interattivo col territorio e dipende sempre dall’uomo la situazione positiva o negativa del territorio. Pensiamo a due  casi emblematici che il Salento sta vivendo contrariato: la 275, la superstrada che oggi finisce a Lucugnano e dovrebbe arrivare a Leuca, ma le popolazioni si oppongono; la Tap (la canalizzazione del gasdotto sino alle marine di Melendugno dalle sponde che abbiamo di fronte) ma anche lì c’è dissenso popolare. Per contro notiamo anche che dei 7 film che l’Italia ha proposto per l’Oscar ci sono quello di Winsper e quello di Ferzan Ozpetek (Mine vaganti). Su sette film due parlano del Salento. Ora tutto parla a noi in maniera diversa: è un territorio che vale. Forse oggi sono i salentini a credere meno nel loro territorio o a rifiutare soluzioni innovative.

 

Riservato a Pietro Siciliani il disinteresse dei Galatinesi

A metà settembre ho partecipato al Convegno su Pietro Siciliani tenutosi a Galatina, nel Palazzo della cultura. Si era già tenuto un altro convegno sullo stesso filosofo nel 1987, svolto tra l’Università di Lecce e il galatinese teatro “Tartaro”. Questa volta le risorse economiche non erano robuste come nell’evento precedente, e tutto si è risolto in una giornata e mezza. Nondimeno sono stati non molti, ma qualificati docenti italiani di filosofia e di storia politica. Il problema, però, è un altro: il pubblico è stato scarso. Perché? Poca pubblicità? Altri impegni, come il lavoro? Forse una cosa e l’altra, anche se i due promotori, Giancarlo Vallone e Francesco Luceri, vi hanno lavorato per mesi. Io penso che il risultato culturale, percepibile negli atti quando appariranno, sarà di ottimo livello e ne fruiranno tutti i lettori interessati, sparsi in Italia. Ma credo che nei promotori rimarrà la sensazione non di un fallimento della loro iniziativa, bensì di un disinteresse della città verso un evento che esaltava un cittadino galatinese noto a tutta la cultura italiana e non solo italiana. Ma come si diceva e si dice: «nessuno è profeta nella propria patria».

 

Sulla Sacra Rota

Tempo fa su questa testata io introdussi il tema della Sacra Rota e degli “annullamenti” di matrimoni che la stessa poteva decidere. La cosa che sottolineai come negativa era il consistente compenso economico che gli interessati dovevano comunque erogare a questa istituzione della Chiesa cattolica. Quella mia riflessione sollevò un vivace dibattito su “Il Galatino” in quanto, se ricordo bene, qualcuno lesse il mio scritto come un attacco alla Chiesa. Io spiegai che non era un attacco alla Chiesa cattolica ma a questo suo aspetto amministrativo-economico. Dopo alcuni mesi, papa Francesco, che presumo non legga “Il Galatino”, ha deciso che gli interventi della Sacra Rota devono essere gratuiti. La cosa è importante in sé per l’oggetto al quale si è dato un nuovo, innovativo indirizzo, ma direi che ha un significato che va al di là dell’oggetto di discussione, in quanto affronta il tema secolare di fondo: se gli interventi che la Chiesa fa sul piano giuridico-sociale debbano essere retribuiti o meno. Con la decisione del pontefice ci si avvia a dare della Chiesa cattolica un’immagine non di una istituzione che ha “anche” una dimensione lucrativa, ma che, per quanto possibile, operi “gratis et amore Dei” come si diceva una volta. Non è un caso che anche un altro Francesco, un po’ di secoli fa, abbia predicato una Chiesa povera. Crediamo e speriamo che il suo omonimo stia operando nella stesso senso e ci auguriamo con lo stesso successo del poverello di Assisi.

 

Festeggiamenti

In questi giorni l’Università di Lecce festeggia i suoi sessantanni anni di attività da quando fu istituita, con un Consorzio, la prima Facoltà, quella di Magistero che apparteneva a quella che fu chiamata Libera Università Salentina. Fu riconosciuta come Università statale, con la Facoltà di Lettere nel 1963. Fu una Università voluta dalla classe politica democristiana, in particolare dal presidente della Provincia di Lecce e da Giuseppe Codacci Pisanelli, parlamentare ma anche Ministro, che divenne il primo Rettore. Il politico nazionale che siglò il riconoscimento fu l’on. Antonio Segni. Io allora presiedevo gli organismi studenteschi e sul nostro giornale scrissi un articolo intitolato: “Grazie professor Segni”.  Facendo un consuntivo, oggi possiamo dire che quella scelta politica, nata con due Facoltà umanistiche, è proliferata e si è accreditata come un Ateneo che in alcuni settori ha “eccellenze” di livello nazionale e non solo. Direi anche che questa realtà ha di fatto sedimentato nel territorio l’esigenza di cultura e di formazione anche a livelli prima non attesi. Mi riferisco alle cosiddette Università Popolari gemmate in alcuni centri importanti della Provincia, come Galatina. Ora si tratta di curare questo Ateneo che già ha ridotto al massimo la fuga dei giovani salentini in altre università sparse in Italia, anche perché non è possibile attivare tutte le Facoltà. Voglio, in chiusura, ricordare una frase che disse Codacci Pisanelli, nei primissimi anni, in un consiglio di Facoltà: “Se penso che una ragazza del Capo di Leuca oggi può laurearsi perché a pochi chilometri ha la sua Università, mi sento emozionato e orgoglioso per ciò che il Salento e i salentini sono riusciti a fare”.

 

Carnevale

Mentre scrivo, sta per finire il Carnevale. Ma è mai cominciato? Naturalmente la mia è una domanda retorica perché lascia intravedere l’idea di chi scrive: nella nostra cultura non c’è più il Carnevale. Il motivo banale potrebbe essere quello che sento ripetere da circa trent’anni: non c’è bisogno di Carnevale perché oramai è sempre Carnevale. Il che non è paradosso vero. Sicuramente in questi trent’anni, presi qui come criterio di lettura, il livello di vita è aumentato, anche se pare che in questi ultimissimi tempi abbia fatto un sensibile passo indietro. Per quello che può valere il mio giudizio, dico che solo i bambini e gli adolescenti (e non tutti) possano sollecitare o creare momenti ludici posticci. Gli adulti e i giovani mi sembrano del tutto fuori da una ipotesi del genere. Sennonché proprio l’ultima sera del Carnevale di quest’anno, intorno alle 20, sono passato vicino ad una “casa famiglia” presente nel nostro territorio, a Galatina, e, grazie ad un ampio finestrone, ho visto che gli ospiti di questa casa danzavano ed erano mascherati. La cosa mi ha fatto piacere e, perché no?, mi ha commosso. In fin dei conti ho visto la spontaneità, la libertà d’animo, la gioia di queste persone, il non preoccuparsi del giudizio altrui: giocavano, danzavano con le loro maschere ed erano felici. Il che mi ha confermato che tutti ed ognuno possono insegnarci cose che, con supponenza, disconosciamo. Grazie, amici che non conosco ma che vedo talvolta attraverso il finestrone, per la lezione di vita e di cultura che avete dato a me e, credo, ad altri.

 

Il mio rapporto con Galatina

Il mio rapporto con Galatina, che da quarant’anni è intenso visto che mia moglie è galatinese, nasce negli anni cinquanta- primi anni sessanta, quando iniziò, pure da noi, la pratica del cineforum. Ricordo che Arnaldo Legittimo, anch’egli leccese come me ma con l’industria a Galatina, veniva a prendermi a casa – io non avevo ancora la mia auto – per andare a dirigere il dibattito alla fine della proiezione. Poi nel 1968, anno della contestazione studentesca, insegnai filosofia al Liceo “Colonna” di Galatina. Teniamo presente che per decenni, se non per più di un secolo, i licei del Salento erano solo a Lecce, a Maglie e a Galatina. Negli anni sessanta Galatina era una cittadina nota anche per una rete industriale importante e per attività culturali di notevole valore. Non va dimenticato che questo centro conserva realtà artistiche preziose, valga per tutte la Basilica di S. Caterina che proprio negli ultimi mesi ha riavuto riconoscimenti a livello nazionale e internazionale per il valore architettonico e figurativo che possiede. Ma questo centro che, fino agli anni Trenta,  faceva parte della triade salentina “apicale” di Lecce, Maglie, Galatina, a cui poco dopo si unirono Gallipoli, Nardò e Tricase, aveva anche momenti importanti per tutto il territorio. Penso alla Fiera che si svolgeva, se ricordo bene, nel periodo di San Pietro, e il Veglione di Carnevale al Cavallino Bianco, famoso in tutto il Salento. Ma, se la storia è cambiata, occorre che la città di Galatina, nel momento in cui si presenta ora anche con una ottima rete di industrie importanti, faccia il punto della situazione e si autoprogrammi per linee di sviluppo e d’innovazione che oggi si fa fatica a vedere o, meglio, non si conoscono. Occorre tenere il passo con un Salento che sta cercando di acquisire un profilo produttivo e culturale che lo lanci ai primi livelli del nostro paese. E Galatina non può essere assente in questo processo.

 

Co-programmazione

Al di là della definizione amministrativa dei centri territoriali, è nella natura delle cose che i centri urbani più ricchi di popolazione e di attività assumano, di fatto quando non di diritto, un ruolo di guida per i paesi limitrofi. Ci si rende conto che ogni centro comunale è, giustamente e correttamente, fiero e geloso della propria autonomia, ma questo non esclude che nel territorio esistano dei centri che sono, di fatto e non di diritto, punti di riferimento per una certa area. Ripeto: questi centri sono già, senza bisogno di proclami, punti forti del territorio. È nella natura delle cose che sia così. È una catena che esiste ovunque. Gli abitanti di Lecce, per fare un esempio, quando non trovano nel territorio limitrofo ciò che occorre, si spostano a Taranto a o Bari per trovare ciò di cui mancano. Questa logica e questa pratica dovrebbe avvenire anche all’interno della nostra provincia, come è naturale che sia e come probabilmente già avviene, anche se in maniera non matematica. Concludo con un’altra riflessione, cioè quella sulla crisi del cinema e la crisi di certe manifestazioni culturali relegate al solo capoluogo di Provincia e, in questo periodo, penso alla Stagione Lirica. Mi chiedo: perché i centri più importanti per popolazione non programmano anch’essi momenti culturali rivolti ai loro cittadini che non vogliono o non possono seguire gli eventi del capoluogo di Provincia? Si dirà che i Comuni non hanno le risorse necessarie per tutte queste cose. E può essere vero. Allora si può pensare ad una co-programmazione tra centri limitrofi: la volontà non dovrebbe mancare e, in fin dei conti, tentare non nuoce.

 

I sepolcri

Ieri sera, giovedì che precede la Pasqua, io e Marisa abbiamo confermato la tradizione locale, credo da secoli, del giro delle chiese per fermarsi davanti agli altari dove è allestito il “sepolcro”, addobbato con piante e fiori, che vuole ricordare quello, molto più povero e doloroso, che fu di Cristo. Negli anni precedenti normalmente, a mia memoria, ogni chiesa, piccola o grande, aveva un altare dedicato a questa pratica religiosa. Girare per le chiese era anche un ritrovarsi tra amici, salutarsi e scambiarsi, con brevi frasi, gli auguri l’uno all’altro e così via. Quest’anno a Lecce una disposizione della Chiesa locale ha ridotto questa pratica, autorizzando l’allestimento del sepolcro solo a quattro chiese parrocchiali, per questo giro che è insieme religioso e civile, perché è la città nel suo complesso che si ritrova in una prassi di fede. E quanti non credenti abbiamo visto praticare questo momento comunitario anche entrando nelle chiese?! Il mio non vuole né può essere una critica alla decisione della Chiesa leccese, ma solo aprire in me stesso una riflessione: e se sono io che, per egoismo e pigrizia intellettuale, voglio che nulla si muti? Non lo so e sicuramente si tratta di un falso problema che io sto sollevando, un problema di per sé non religioso, ma solo di una mia cultura che altri chiamerebbero passatista: che nulla cambi rispetto alle situazioni e agli eventi com’erano quando io ho cominciato a conoscerli e a viverli. Poi mi rendo conto che il mio ragionamento è egoistico e reazionario: che tutto si fermi com’era quando io ho cominciato a pensare. Superomismo o grettezza culturale? Ho da riflette sino alla prossima Pasqua.

 

Ancora sul calcio

Alcuni giorni fa sono stato invitato dall’Associazione leccese degli arbitri di calcio a parlare sull’etica del giornalista sportivo. Questo incontro è avvenuto all’interno di un corso di formazione di aspiranti arbitri dove erano anche importanti giornalisti sportivi del Salento. Io ho premesso di aver visto la mia prima partita di calcio quando avevo 10 anni e fu una partita di serie C tra Lecce ed Empoli, al Carlo Pranzo. Ho aggiunto che quella partita ebbe una conclusione poco sportiva perché si giunse, alla fine della competizione, a denigrare e insultare l’arbitro che aveva diretto l’incontro, perché aveva concesso un rigore alla squadra ospite e non aveva concesso un rigore al Lecce. Quindi il Lecce perse per 1 a 0. Ma la cosa non finì qui. A partita conclusa, alcuni tifosi scalmanati inseguirono la macchina dell’arbitro fino o a Taranto per pestarlo. Per fortuna le forze dell’ordine gli fecero trovare un elicottero con il quale il soggetto inseguito poté rientra nella sua città, cioè in Sicilia. Già, perché quell’arbitro era Carmelo Lobello di Siracusa, che negli anni successivi si rivelò come uno dei migliori arbitri europei. Ma, come tutte le passioni, anche quella del pallone fa perdere talvolta, nel campo e fuori, il senso dell’equilibrio e rimane solo passione che, come dice il termine, è uno stato che il soggetto patisce e non riesce a governare. Fino a giungere agli omicidi tra tifosi che abbiamo avuto in Italia qualche mese fa. Così non è calcio, ma solo corrida dove a morire non è un toro ma un uomo.

[“Il Galatino”, settembre 2014-aprile 2015]

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