L’applauso tetro

di Luigi Scorrano

Non so se qualcuno abbia già provveduto ad elaborare una tipologia dell’applauso. Oggi tutto viene messo sotto qualche strumento d’osservazione e non mi meraviglierei se anche questo gesto, di consenso, fosse stato fatto oggetto di studio. A occhio e croce, come si dice, una classifica dei tipi di applauso può stilarla ognuno di noi senza rompersi la testa con fumose o sottili ragioni teoriche: basta osservare un gruppo, possiamo dire un pubblico, che applaude.

Applaudire è segno di gradimento, di riconoscimento per un’abilità dimostrata pubblicamente, un’espressione di consenso generalmente calorosa, una forma più o meno rumorosa o entusiastica di approvazione. Di solito l’applauso è giustificato e mosso dall’entusiasmo. Non ci sembra che una sventura, un disastro siano circostanze che giustificano un applauso. Eppure…

Procediamo con ordine.

Dove si applaude? Generalmente allo stadio, dove l’applauso appartiene alla tifoseria della squadra vittoriosa e il rovello o il mugugno sono di competenza di chi perde. Dovunque ci siano vincitori e vinti la situazione si ripete; solo che l’applauso si sente, il mugugno si cela. Si mastica dentro amaramente. Si applaude a teatro, dove fischiare non è più consentito, o non si osa più; forse perché gli spettatori non si sentono più in veste di giurie chiamate a decretare il successo o l’insuccesso di un lavoro messo in scena. Questo accade solo in certi teatri lirici e presso frange di spettatori che, quando fischiano, lo fanno per tenere in piedi una “gloriosa” tradizione. Si applaude, qualche volta, anche al cinema. Una volta accadeva al momento dell’ ”Arrivano i nostri!” Oggi siamo meno sollecitati da un simile genere di entusiasmo e lasciamo che la storia giunga alla parola “Fine” senza clamori di sorta. Si applaude nelle assise politiche, soprattutto in quelle dove applaudire o è rituale o è preordinato. C’è sempre l’obiettivo di una telecamera a documentare lo svolgimento dei lavori e qualche manifestazione di consenso, se non proprio di entusiasmo, è necessario che si possa registrare! Si applaude anche, talvolta ironicamente, nei consessi istituzionali, nei quali veramente si può – di tanto in tanto – assistere ad altre prove di appassionata partecipazione; prove in cui le mani si tenta di batterle non l’una contro l’altra ma sulla faccia di qualche avversario. Cambiano tempi e costumi e si guarda con malinconia a quello che riassuntivamente classifichiamo come imbarbarimento della vita associata. Nel buon tempo antico, quel mitico tempo che ha avuto, e continua ad avere, consistenza solo nella nostra immaginazione, queste cose non accadevano. Ci illudiamo. Sono sempre accadute. Soltanto che molto spesso non abbiamo potuto controllare di persona.

A chi si applaude?

A un campione dello sport, a un oratore che ha tenuto una brillante conferenza, a un musicista di grande talento dopo una sua strepitosa esibizione, a coloro ai quali viene consegnato un premio quale riconoscimento di una qualità i cui riflessi ricadono su tutti noi, sulla nostra vita, sul nostro pensiero. E si applaude ai funerali.

Questa dell’applauso ai funerali è un’abitudine piuttosto recente. Ha una sua giustificazione, ma forse si è estesa anche a situazioni che una bella giustificazione non hanno. Si applaude a rappresentanti della vita politica e civile caduti sul campo del loro dovere, nell’esercizio di funzioni svolte a vantaggio della comunità di appartenenza, della patria per dirla con una parola di vecchia data. Non è proprio bello, perché ad un funerale, quale che sia, si vorrebbe un atteggiamento di rispettoso silenzio come segno di partecipazione, non una rumorosa manifestazione da spettacolo. Purtroppo è un po’ questo il senso che si finisce per dare a certe morti e a certi funerali. Non è proprio bello, ma è almeno comprensibile. Ma se si applaude al funerale di un mafioso la cosa cambia certamente aspetto. Si approva e si rimpiange, in tal caso, non chi ha ben meritato dalla società in cui vive, ma chi quella società ha umiliato ed offeso. L’applauso indiscriminato può generare qualche equivoco; nessuna persona onesta accoglierebbe tranquillamente l’idea che tanto un applauso non fa male a nessuno e ai morti si può perdonare tutto.

C’è applauso e applauso; anche in una cosa apparentemente di poco momento è giusto distinguere.

C’è, però, un tipo di applauso particolare, che tutti possiamo osservare perché ci viene messo continuamente sotto gli occhi. Si potrebbe chiamare “l’applauso tetro”. Guardiamo la televisione, guardiamo una di quelle trasmissioni in cui c’è un pubblico in studio. Questo pubblico applaude spesso, più o meno sollecitato o invitato. Lo fa, ma lo fa senza passione. Guardiamo le facce di chi applaude: senza sorriso. Compiono un gesto rituale: sono lì per quello ed eseguono. Ma non partecipano. Come se applaudissero, da automi, qualcosa di cui nulla gli importa.

L’applauso tetro è la manifestazione peggiore di un’abitudine (una fra tante) che si trascina senza convinzione e manifesta una situazione nella quale si esegue senza riflettere e senza veramente decidere. Un altro piccolo spazio di libertà umiliata che ha, nella tetraggine dello sguardo e nell’automatismo del gesto, il suo adeguato riflesso.

 

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *