Il Mediterraneo non è solo nostrum

di Ferdinando Boero

Venerdì 12 maggio sono alla Camera dei Deputati, a parlare di ambiente a una Commissione del Parlamento del Mediterraneo. Ci sono delegati dai parlamenti di tutti i paesi del Mediterraneo e gran parte anche dei paesi europei. Mi chiedono di spiegare in dieci minuti la situazione del Mediterraneo. Ce ne metto quindici, ma poi, fortunatamente, cominciano a farmi domande e il tempo dedicato alla discussione supera abbondantemente quello della mia relazioncina. I paesi della sponda sud, africana, del Mediterraneo si stanno accorgendo che il nostro modello di sviluppo altera le condizioni ambientali e le ripercussioni negative arrivano anche a loro. Mi chiedono: ma come è la situazione riguardo all’inquinamento da idrocarburi? E’ molto migliorata, rispondo. Prima le petroliere lavavano in mare i loro serbatoi e le nostre spiagge erano piene di petrolio. Non succede più. Però aumenta il traffico, e si stanno pianificando altre trivellazioni. Il rischio di incidenti aumenta sempre di più. E, in Mediterraneo, un incidente simile a quello avvenuto in Florida avrebbe conseguenze ancora più gravi. Il Mediterraneo è un mare quasi chiuso: un evento che in Atlantico sarebbe riassorbito in tempi relativamente brevi, da noi avrebbe conseguenze catastrofiche. Non ci vuole molto a convincerli. Si tratta di ragionamenti elementari. Li capisce anche un bambino piccolo. La delegata tunisina dice: l’Italia trivellerà i suoi fondali. Già, dico io: sono stati dati i permessi. Ma se ci sarà un incidente le conseguenze le pagheremo anche noi, ribatte. E a noi non avete chiesto nulla. Ho partecipato a una tribuna referendaria per invitare la popolazione a votare contro le proroghe alle concessioni petrolifere. A dire di non andare a votare c’era il viceministro allo sviluppo economico. La gente ha ascoltato lei, evidentemente, visto che il referendum è fallito. Come uno scolaretto ho cercato di giustificarmi così, di fronte alla mia accusatrice: io non c’entro… io non sono d’accordo. Ma ho avuto pena di me stesso. No, sono responsabile anche io. Si vede che non ho fatto abbastanza, le colpe del mio paese sono anche le mie. Tra parentesi, ero lì (così come alla tribuna referendaria) perché sono vicepresidente di un’associazione ambientalista: Marevivo. Per le questioni ambientali si chiamano le associazioni ambientaliste. Non gli esperti di ambiente. Anzi, si suppone che gli esperti di ambiente siano le associazioni ambientaliste. E spesso capita che a parlare vadano persone che non studiano l’ambiente in modo professionale. E’ per questo che milito in molte associazioni ambientaliste. Attraverso di loro riesco a comunicare con i decisori. La Società italiana di Ecologia non viene mai invitata a esprimere pareri e a spiegare situazioni di fronte ai decisori. Eppure ne fanno parte tutti quelli che nel nostro paese studiano l’ambiente in modo professionale. Paradossi italiani. Bene, nonostante il mio impegno, ho fallito, e sono anche io colpevole perché sono parte del paese in cui vivo. Trivelleremo i fondali e se ci saranno incidenti inquineremo l’ambiente di altri paesi, che non hanno potuto esprimersi sulla opportunità di intraprendere queste azioni. Che non ne traggono vantaggio, ma che pagheranno le conseguenze in caso di eventi che, lo sappiamo, accadono.

Sì, la situazione è questa. Ho detto. Quella giovane donna tunisina, con il velo in testa, mi ha guardato con aria di rimprovero, disgustata. Stringeva il pugno destro mentre parlava, si vedeva che era tesa. La Tunisia ci sta provando, e le donne hanno un ruolo chiave nel cambiamento innescato con la primavera araba. Lo so perché collaboro con istituti di ricerca tunisini, e ho constatato che gli elementi migliori sono invariabilmente donne. Donne giovani e forti, che non hanno paura. In un paese dove ancora c’è da aver paura, visto che ci sono ancora molti, troppi, fanatici religiosi. Di solito maschi.

Questa giovane donna provava rabbia per quello che stiamo facendo al nostro mare e, anche, a quello del suo paese: lo stesso mare. La sua rabbia finisce nei documenti ufficiali, dove si chiede di smettere con queste azioni. Lo approvano tutti, il documento ufficiale. Per quel che vale… tanto le decisioni sono già state prese. La giovane tunisina tenta le strade formali, della legalità democratica. I rappresentanti dei paesi si riuniscono, ascoltano qualche “esperto”, si fanno un quadro della situazione, ed esprimono “raccomandazioni”. Quando va bene siglano trattati. Si firmano pezzi di carta, si fanno le foto. Tutto si svolge in magnifici palazzi. Poi ci sono colazioni di lavoro (i potenti non pranzano, fanno colazione) oppure pranzi di lavoro (i potenti non cenano, pranzano). In altri ambiti, però, i lobbisti agiscono e le buone intenzioni vengono disattese. Si firmano i trattati per la decarbonizzazione e poi si danno concessioni per trivellare, in modo da cercare i combustibili fossili che si è dichiarato di voler abbandonare.

Come reagire di fronte a tanta incoerenza e disonestà intellettuale? Chi ha il potere di far prevalere la ragione? La risposta è tragica: nessuno. In democrazia vince la maggioranza. La maggioranza degli italiani ha deciso di non esprimersi al referendum che avrebbe dato una forte indicazione politica riguardo alla opportunità di trivellare ancora i nostri (e loro) fondali. E quindi continuiamo con questa politica. Ci sono stati ricorsi contro le concessioni petrolifere, basati di solito su cavilli legali. Sono stati tutti respinti. E’ tutto a posto da un punto di vista giuridico. Peccato che alla natura non importi nulla dei cavilli, e neppure della espressione democratica del paese. A dir la verità non importa neppure a quella giovane tunisina che, compostamente, cerca di far sentire la voce del suo paese in un consesso istituzionale. Cosa dirà, una volta tornata a casa? Come reagirà quella popolazione di fronte alla nostra tracotanza? Come posso io dire che non c’entro, che ho provato a spiegare al mio popolo e a chi lo governa? Che ho combattuto con gli argomenti e con la scienza contro queste scelte scellerate? Sono italiano, e sono responsabile anche io di quel che fa il mio paese. Siamo tutti responsabili. E questi paesi, prima o poi, ci chiederanno il conto. Si ribellerà la natura, come ammoniva Giovanni Paolo II. Ma si ribelleranno anche loro, gli uomini. E fu proprio Giovanni Paolo II a dire che senza giustizia non ci può essere pace. Quella giovane donna tunisina era presa dalla rabbia di chi sta subendo un’ingiustizia. Una rabbia che spesso viene “gestita” nei modi che ben conosciamo e di cui paghiamo conseguenze che aumentano il divario tra “noi” e “loro”. Noi siamo i cow boys, “loro” sono gli indiani. E continuiamo pervicacemente a commettere sempre gli stessi errori, convincendoci di essere dalla parte della ragione. E “loro” compiranno gesti estremi, passando dalla parte del torto, come facevano gli indiani con i loro massacri. E sarà sempre più difficile capire chi ha torto e chi ha ragione, nell’intrico di responsabilità. Però è chiaro che non potremo fare quello che i bianchi han fatto con gli indiani d’America: sterminarli quasi tutti, rubare le loro terre, e chiudere i superstiti in qualche riserva. Non ci sarà pace finché non ci sarà giustizia. E siamo noi ad abusare delle risorse della natura, togliendole agli altri. Siamo noi ad avere torto. Ho espresso questi concetti anche in documenti che ho scritto per il G7 di Berlino e per quello di Tokyo. Ma alla fine ripeto sempre le stesse cose… Non si ascoltano i papi, come posso pensare di ottenere risultati io? Anche se so che è inutile, continuerò a provarci. Questo non mi giustificherà agli occhi della giovane tunisina, come italiano. Personalmente, sono una delle tante Cassandre dell’ecologia. Cassandra era maledetta. Una profetessa che non veniva mai creduta, ma le cui profezie puntualmente si avveravano.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 16 maggio 2017]

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