Indagine sulla memoria

di Antonio Errico

Ireneo Funes sapeva la forma delle nubi  australi  dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina di un libro che aveva visto una volta sola. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Vedeva i crini rabbuffati di un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti di un morto durante una lunga veglia funebre. Forse riusciva a vedere tutte le stelle che c’erano nel cielo. Riusciva a ricordare non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata.  Diceva di avere più ricordi, lui, da solo, di tutti gli uomini di tutti i tempi messi insieme. Diceva che la sua memoria era come un deposito di rifiuti. Era il solitario e lucido spettatore  di un mondo vertiginoso e  multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso, sovraccarico di immagini, di meticolosi dettagli concreti eppure intangibili.

In una delle sue Finzioni intitolata “Funes o della memoria”,  scritta nel 1942,  Jorge Luis Borges aveva visto, lui, cieco,  – con la stessa sapienza inconsapevole, con la stessa chiaroveggenza paurosa del personaggio di Ireneo Funes – il mondo in cui un giorno gli uomini sarebbero vissuti, quello in cui noi oggi viviamo. Costretti dalla sterminata memoria delle tecnologie digitali a ricordare tutto, anche quello che non vorremmo. A ricordare  ogni sfumatura,  ogni particolare dei fatti, la data, il luogo, la precisa situazione, le persone, le parole . Resta traccia di tutto, senza nessuna selezione, senza una gerarchia dei ricordi, una priorità, un ordine di importanza. Non c’è più una epifania della memoria, come ci aveva insegnato Marcel Proust. E’ una memoria simultanea, amorfa, indistinta.

Per la memoria tecnologica è come se il tempo non fosse mai passato: come se tutto si verificasse  nel preciso istante in cui si digita un nome, una data, un luogo.  Tutto gli elementi coesistono ma sono tutti separati, frammentati, sfilacciati. Quella che potrebbe sembrare un’estasi della memoria, in realtà si risolve in una alienazione. La riproduzione infinita dei testi, delle immagini,  la riproposta inespressiva delle storie, azzerano l’umano che distingue un fatto da un altro, una storia da una storia. Ora la nostra memoria è come quella del personaggio di Borges: un accumulo che manca di una mediazione.  Né si può dire che la possibilità di accedere immediatamente a dati, informazioni, statistiche, immagini, filmati, oppure di trovare una risposta a molte domande (non a tutte, ovviamente) assuma il significato di uno sviluppo della qualità della conoscenza.  Troppo vero rimane quello che diceva Thomas S. Eliot: prima abbiamo barattato la saggezza con la conoscenza, poi la conoscenza con l’informazione.

In una conferenza sul tema “Il futuro della memoria” tenuta al Salone del libro di Torino, Umberto Eco – che usava e osannava il computer quando gli altri neanche sapevano che esistesse – ha detto che con il suo eccesso di informazioni “il web rappresenta una cultura che non ha messo niente in latenza e che a volte ci impedisce di capire”. Non solo. Nessuno ci può garantire che i supporti informatici di cui facciamo uso abbiano la stessa capacità e la stessa durata della carta.  Noi oggi possiamo ancora leggere libri di secoli; possiamo consultare archivi fotografici che ci restituiscono frammenti di passato e ci consentono di ricostruire un’immagine intera di quel passato attraverso la ricomposizione dei frammenti. Possiamo rovistare nei cassetti e ritrovare appunti su piccoli fogli di block notes ingialliti, con l’inchiostro forse un po’ stinto ma comunque decifrabili, o consultare i giornali di un’epoca e ricostruire una storia attraverso la cronologia, lo sviluppo degli eventi, le vicende dei personaggi. Possiamo anche – ancora – confidare nella memoria di un uomo e nella sua parola che tramanda il sapere. Ma le immagini  e i testi depositati in un floppy disk solo qualche anno fa, sono documenti quasi preclusi perché la tecnica ha prodotto macchine di un livello che esclude il livello inferiore. Ma forse la tecnologia ha nella sua natura proprio questa contraddizione. E’ una formidabile fonte di informazione, una condizione di comunicazione di incredibile rapidità ed efficacia ma non organizza e non sistematizza l’informazione, e mentre consente di comunicare scava fossati di isolamento.  Poi c’è una cosa che nessuna macchina riuscirà mai a fare, un miracolo che soltanto gli uomini hanno potuto e potranno compiere: provare e insegnare affetto per la memoria. In un articolo apparso sul “Corriere della sera” del 4 aprile 2010 (“Memoria. Se nell’era digitale si scava una voragine”), Massimo Gaggi ricorda un romanzo di fantascienza  di Neal Stephenson intitolato “Anathem”.  E’ la storia di una comunità di scienziati trapiantata sul pianeta Arbre, che per sfuggire a una civiltà elettronica che paralizza le capacità mnemoniche, decide di rifugiarsi in una specie di convento privo di computer dove tutti i calcoli vengono fatti a mano, su una carta capace di durare millenni. Lavorano solo su progetti che non hanno scadenza, fidandosi esclusivamente della capacità di archiviazione della loro mente. Ecco. Per cercare una metafora che  esprima la condizione della memoria della tecnologia, si deve ricorrere alle parole di un romanzo, ai significati che scorrono nella sua trama. Perché la tecnologia non ha possibilità di metafora, né capacità metalinguistica, non può dire di se stessa, non può riflettere sulla memoria, non sa che cosa ricorda.  Allora, probabilmente, la questione che si pone è quella della qualità della memoria, che non può essere risolta dalla tecnologia. Il problema della qualità della memoria dobbiamo affrontarlo e risolverlo da soli, forse applicando le stesse condizioni della memoria naturale: dimenticare molto di più di quanto si ricorda. Che, oltretutto, è un modo di salvarsi la vita.

Un uomo ha bisogno di dimenticare. Più dimentica e più i ricordi che gli restano si fanno profondi, diventano essenziali. Sulla profondità e sull’essenzialità dei ricordi si costruisce il senso del presente e l’ipotesi del futuro. Sul magma, invece, non si può costruire: sulla materia informe dei ricordi, sulla confusione del tempo e delle storie, sul disordine della mescolanza, sulla promiscuità, sull’ammasso, sul tessuto sfilacciato,  sull’intrico senza legamenti, non si costruisce niente.

Come ogni uomo, anche il mondo ha bisogno di dimenticare. Di selezionare e costruire sistemi di riferimento per la memoria, di tracciare direzioni, di fornire orientamenti. Un po’ come accade nel macrocosmo di Macondo di Gabriel Garcìa Màrquez. Senza questa operazione, la memoria del mondo diventa indistinta e si priva di valore, non riesce nemmeno a distinguere più il bene dal male. L’era digitale ha cambiato – manomesso? alterato? –  i processi di memoria degli uomini e del mondo. La grande Rete memorizza tutto, conserva traccia di ogni fatto che registra, di ogni dato. Basta un leggero movimento delle dita sulla tastiera, basta un quasi impercettibile clic sul mouse, perché le cose lontane ritornino, il passato si ripresenti come un fantasma evocato dal mistero. La Rete ingloba e non cancella.

Probabilmente è una cosa contro natura perché quello che dimentichiamo è molto di più di quelle che ricordiamo. Il tempo passa per questo, in fondo: per farci dimenticare molto e farci ricordare il poco che ci  serve. Il tempo passa per alleggerirci dal gravame dei ricordi e per lasciarci di essi la trasparenza di un pulviscolo dorato, un sapore che non si sa capire se sia dolce o se sia amaro. Passa per consolarci con l’oblio che offusca i contorni, sbiadisce le figure. A volte purtroppo. A  volte per fortuna.

“Memoria / non è peccato fin che giova. Dopo / è letargo di talpe, / abiezione / che funghisce su sé”, dice Eugenio Montale nella “Voce giunta con le folaghe”.

Il tempo passa anche per consentire alla memoria di ingannarci.

In un racconto di  un piccolo libro di  Ottavio Cecchi, L’ornitologo, uno dei personaggi dice: “La memoria inganna lei, inganna me, inganna tutti. Si tratta di capire quale e quanto sia lo spazio, la differenza, tra i fatti reali e le immagini che di quei fatti conserviamo”.

Il tempo che passa tra gli avvenimenti e i ricordi è una lente deformante. Ingigantisce o ridimensiona; trasforma i luoghi, attribuisce una fisionomia diversa alle figure, trasmuta, cambia i colori, trasforma in traslucido l’opaco, opacizza quello che nella realtà ha avuto un lucore, smorza la rabbia, accresce il rammarico o il rimpianto. Apre la via alla pietà, al perdono, anche, qualche volta. I fatti che sembravano aver mutato i destini, nella memoria si fanno più leggeri, si ripropongono con una diversa rilevanza. Le creature si ripresentano con una diversa consistenza. I sentimenti, le passioni, gli amori, le gioie, i dolori, vengono osservati da una distanza che talvolta dispera, altre volte consola.

Forse niente è stato davvero come lo si ricorda. Il tempo lo rielabora, lo scompone e lo ricompone in un’immagine fluttuante, evanescente, rarefatta.

Così la memoria a volte si fa quasi menzogna. Ripensiamo e ricordiamo parole mai dette e quindi significati inesatti o impropri. Raccontiamo di luoghi confondendo quello che abbiamo visto con quella che è stata la narrazione che altri hanno fatto. Delle persone ricordiamo talune cose e non altre: magari solo un gesto isolato dal comportamento complessivo, soltanto un’espressione decontestualizzata. Ogni volta che si fa un’esperienza di memoria, non si ricorda mai il fatto reale, ma il ricordo che precedentemente abbiamo avuto di quel fatto. Ad ogni ricordo qualcosa cambia: si tralascia un elemento, lo si colloca in un’altra maglia della trama, ad un diverso snodo dell’intreccio, in uno spazio differente;  per la necessità di focalizzare o di enfatizzare uno o pochi oggetti si procede ad una sorta di scontornamento del ricordo. Un po’ come accade con una foto. Si riguarda un volto ritratto, un paesaggio, l’istante di un tramonto, ma non si ricorda quali altri volti c’erano insieme a quel volto, cosa c’era ad di là dell’immagine di quel paesaggio, in che giorno è stato quel tramonto, o in che ora, nemmeno in quale preciso luogo. Probabilmente anche la Storia è l’esito di una memoria insicura. L’immagine di un eroe, l’episodio memorabile, il simbolo di un luogo sotto i fasci di luce proiettati da un occhio di bue della memoria, che però lascia al buio innumerevoli altre immagini di uomini, gli episodi che hanno determinato quello memorabile, altri luoghi in cui la storia si è fatta.

Qualche volta si insinua il sospetto che è proprio questa trasformazione dei ricordi, il loro inganno, la loro menzogna, che consente di resistere all’assedio dalla nostalgia che si portano dentro.

Allora ci si può domandare se quel continuo ricordare al quale la Rete ci costringe, se quella sorta di sirena di cui non vorremmo ascoltare il canto, quella memoria che non giova, non sia in fondo letargo di talpe, non sia abiezione.  Forse pretendiamo troppo. Però vorremmo che una  soluzione tecnologica ci facesse il dono straordinario di conservare solo la memoria che ci giova. La memoria viva.

C’è stato un tempo in cui la memoria aveva un significato e un’importanza pratica essenziali. Senza la memoria si rischiava la marginalità e l’emarginazione, si era esclusi dal sapere, relegati in una condizione di quasi estraneità, di inappartenenza. Quello che contava, quello che serviva, doveva essere conosciuto a memoria, serviva a testimoniare la propria presenza, a rappresentare la propria identità. Non era al tempo della preistoria. E’ stato così fino a non molti anni fa: fino al tempo che ha preceduto l’avvento di quella tecnologia che in qualche modo sottrae alla memoria la funzione di costituire il tronco per l’innesto di nuovi apprendimenti, di connotare il sapere con elementi intimamente legati alla propria personalità. C’è stato un tempo in cui la memoria manifestava la condizione dell’essere nella sua tessitura di esperienza e di emozionalità;  talvolta era come un  setaccio che permetteva di cernere i ricordi trasformandoli in energia per il presente. Era un po’ quella che Gabriel García Márquez chiama la memoria del cuore, che “elimina i ricordi brutti ed esalta quelli belli, e grazie a questo artificio riusciamo a sopportare il passato”.

A pensarci un attimo soltanto ci si rende immediatamente conto che ciascuno di noi riesce a  trascinarsi la soma del passato selezionando continuamente i ricordi.

C’è stato un tempo in cui avevamo bisogno di ricordare. Ora dall’ impegno del ricordo ci siamo liberati. Il nostro pc ricorda per noi, è il custode silenzioso delle nostre necessità di memoria. Carichiamo in un file tutte le informazioni che ci ritornano istantaneamente  con il meccanismo di un clic. Fin quando per un gesto maldestro, una sconsiderata distrazione, una diavoleria misteriosa quel file non si cancella. Allora la memoria viene inondata da un buio tetro. Tutto quello che si pensava di possedere  scompare. Si diventa smemorati, assenti a se stessi. La disperazione  dell’oblio angustia il pensiero.

In un libro intitolato La vita digitale lo psichiatra Vittorino Andreoli sostiene che la memoria umana corrisponde alle pressioni esercitate dalle dita sui bottoni. Ma se la memoria è riducibile a bottoni, il pensiero, che non può farsi senza la memoria, dev’essere parimenti ricondotto a una dimensione digitale. Necessariamente.

C’è un  saggio di Remo Bodei che si intitola  Libro della memoria e della speranza. Sono due parole che  stringono  il senso, forse l’unico senso,  che questo tempo di nuovo millennio può consegnare alla memoria, l’unico di cui si può fidare e al quale si deve necessariamente affidare.

Se la memoria è quella di ciascuno – piccola memoria, piccola rete, scaglia, granulo, frantume –   anche  la speranza è quella di ciascuno. Se la memoria è quella di molti, anche la speranza è quella di molti. Ci sono  molti che hanno o che vogliono speranza  per cui sono  molti quelli che hanno o che vogliono  memoria.

Però come si fa ad avere memoria di tutto; come si può possedere la storia; com’è possibile contenere il passato sconfinato. Se così fosse – e così non è, non può essere – la speranza sarebbe qualcosa di indistinto, forse anche di indicibile, forse anche di impensabile. Ecco, dunque, che l’orizzonte della storia orienta lo sguardo, lo calibra. Ecco che ad un certo punto si ricorda quel paesaggio e non un altro, o comunque lo si ricorda meglio di qualunque altro, in modo nitido, compiuto. Così anche la speranza trova orientamento, si definisce e si conforma ai bisogni, alle attese, alle strade che si percorrono o si pensa di intraprendere.

Allora ci si può domandare qual è oggi il nostro paesaggio da ricordare, al quale correlare l’orizzonte di speranza.

Probabilmente il paesaggio della nostra memoria è il Novecento: quel tempo che ha avuto tanti volti da non averne uno immediatamente riconoscibile o con cui essere identificato con certezza; che ha avuto tante definizioni da potersi sottrarre a  qualsiasi denominazione definitiva. Il paesaggio della nostra memoria è quel secolo complesso e proteiforme, coacervo  di razionalità e  dissennatezza, di intuizioni straordinarie e ottusità spaventose, tramato da intenzioni di pace e tensioni di guerre e  rivoluzioni e rivolte, esodi disperati, ricchezze indecenti, povertà scandalose. E’ quel paesaggio dentro cui si muovono le ombre della contraddizione: le conquiste della scienza e i gas micidiali, la bomba atomica e la penicillina, la democrazia e i totalitarismi,  la distruzione e la rinascita dell’umano.

Avere memoria di questo può costituire una speranza di continuità del bene e di rifiuto di tutto quello che è stato o ha prodotto il male.

Avere memoria di questo vuol dire non muoversi nel vuoto della dimenticanza che può produrre gli stessi errori, vanificare gli esiti del bene.

Così memoria e speranza devono trasformarsi in richiamo, appassionato e irresistibile. Inevitabile.

Come il richiamo dei  tre alberi  che appaiono in  All’ombra delle fanciulle in fiore di Marcel Proust, forse mai visti prima o forse risalenti da un sogno, forse fantasmi del passato, cari compagni dell’infanzia, amici scomparsi che invocano ricordi comuni, che nel contesto del paesaggio si caricano di un’ energia  enigmatica, di un  bisogno assoluto di comprensione del loro significato. Come ombre sembrano domandare di essere restituiti alla vita, agitano i rami come braccia disperate e dicono: “Quel che non apprendi oggi da noi, non lo saprai mai. Se ci lasci ricadere in fondo a questa via da dove cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che ti portavamo  cadrà per sempre nel nulla”.

La memoria lascia agli uomini simboli  da rigenerare attraverso l’interpretazione. Se non si vuole o non si impara a leggere questi simboli, a scavare nelle loro stratificazioni, ad individuare i sensi che li hanno prodotti e quelli che essi producono ed espandono, se li si abbandona alla tenebra dell’ indifferenza o alla immutabilità di un’icona, allora la memoria si fa  sterile, diventa muta.

La memoria è connaturata al tempo e dal tempo può essere divorata se i suoi simboli non vengono costantemente rinnovati da  sensi ulteriori. Senza una comprensione dei simboli, i fatti e le storie di cui sono rappresentazione e memoria resteranno sconosciuti e quindi insignificanti, privi di ogni possibilità di esprimere la funzione che hanno avuto e hanno nella storia dell’umanità. Così l’immagine di un uomo per le strade di un’ Hiroshima spettrale e una dell’impronta di Neil Armstrong sulla luna potranno precipitare nello stesso baratro di insignificanza.

Ma nella loro complessità i simboli della storia portano a noi  una parte di noi stessi, un particolare dell’identità, che se non sappiano riconoscere e tenerci come memoria perderemo senza possibilità di rimedio. Questo vale per ciascuno e vale per tutti, per un paese di poche anime, una città,   una nazione, un continente, per il mondo. Vale per le memorie comuni e per quelle individuali, per le memorie del bene e per quelle del male.

Un uomo senza memoria non ha radici da cui far sviluppare un progetto di futuro. Un progetto di futuro si sviluppa soltanto in una condizione di speranza. Per un uomo e per un popolo è così.

Allora abbiamo urgenza di memoria perché abbiamo urgenza di speranza, come esseri, come società, come comunità di destino.  La speranza di star bene e di un benessere da costruire; la speranza che i poveri diminuiscano fino a sparire, che i vecchi e i bambini non siano mai soli, di  una pace da cominciare e una guerra da finire. Abbiamo speranza di fede, di verità, di giustizia. Di continuare e di ricominciare. Abbiamo speranza per quelli che ci sono e per quelli che verranno.  Perché abbiamo memoria di quelli che c’erano e che hanno avuto speranza per noi.

Non ricordo più in quale libro ho letto questa frase: il popolo che non ha più memoria è destinato a morire di freddo.

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