Atelier dell’artista e del non-artista

di Paolo Maria Mariano

Pensate a una stoffa di lana un po’ grezza, di un caldo marrone mescolato a un tono di grigio, anzi forse più grigio di altro; poi immaginate di fare con quella stoffa un vestito maschile, completo di panciotto, e di metterlo addosso a un uomo non tanto alto da potergli dire che è una “pertica” ma neanche così basso da poter parlare di se stesso dicendo “se vedete in un mare di teste un buco … beh! … lì ci sono io”. Pensate che quest’uomo sia magro, con baffi non pronunciati, che abbia le guance scavate e lo sguardo un po’ perso; che porti un cappello del colore del vestito, che sia un uomo mite e usi passeggiare in silenzio per sentieri montani. Se ci riuscite … e non ho molti dubbi in proposito … avrete una buona approssimazione di Robert Walser, che sul far della sera della propria vita chiese d’essere accolto in una casa di cura per disturbi mentali, la clinica Waldau di Berna, e disse che avrebbe smesso di scrivere, ma – si sa – continuò ad appuntare i suoi pensieri su foglietti che ingolfavano le sue tasche e la sua malinconia.

In una raccolta di prose brevi apparse sulla Berliner Zeit tra il 1906 e il 1912, Walser scrive: «Nell’arte non si tratta mai d’innovare, ma solo di concepire una certa cosa in modo nuovo, mai di far pulizia, ma solo di esser puliti, mai di cercare nuovi valori, ma solo di cercare d’essere in prima persona colmi di valori. Ai dilettanti, invece, piace soprattutto essere dei novatori, gente che dà una ripulita al mondo e lo sovverte, laddove in questo mondo non ci sarà mai, in lungo e in largo, nulla che essi siano in grado di migliorare. Solo la passione, l’impeto del sentimento, il duro destino personale di un uomo sincero può, alla fine di una singolare carriera, imporre al mondo qualcosa di mai esistito prima, ma questo avviene sempre e assolutamente da sé. Verso l’esterno l’autentico artista è leale, silenzioso e non impetuoso» (Storie che danno da pensare, Adelphi, Milano, 2007, p.  86). Credo che scrivesse pensando a se stesso, alla sua gentile riservatezza e al suo valore. Ciò non toglie che si possa con lui concordare, considerando in generale l’affermazione. D’altra parte, a cosa pensi chi si dedica all’arte si vede da com’è ciò di cui si circonda, da come egli agisce, prima ancora di vedere quello che esprime … ed è proprio dalle piccole cose che si comincia a pensare se egli possa essere o no un artista … di piccolo o grande valore non ha importanza, ma un artista vero, non un pomposo dilettante. Dell’atelier dell’artista tanti hanno parlato, anzi se n’è proprio fatto talvolta un motivo di marketing da quando Andy Warhol ha connesso in qualche modo il concetto d’arte al processo pubblicitario del prodotto dell’artista, facendo di questo processo il prodotto stesso. Al tempo di Walser l’atelier era un antro ascoso, il luogo della riflessione, non tanto una piazza, e lo è in fondo sempre rimasto, almeno in termini di senso profondo, anche nell’impeto pubblicitario di Wharol e prima di lui di Pablo Picasso, entrambi dotati di rara abilità nel far accettare la promozione dei propri talenti.

Comunque sia, cominciare a valutare qualcuno che si accosti all’arte dall’osservazione del suo atelier (o meglio del suo laboratorio, se volete) mi pare sempre un ragionevole punto di partenza.

Personalmente, io che non sono un critico d’arte per professione, semmai mi diverto solo a studiare qualcosa di estetica per quel poco che posso capire, ho visto i luoghi dove mio padre dipingeva e incideva; ho visto gli atelier di Alberto Giacometti attraverso un ampio repertorio fotografico; ho immaginato le stanze di lavoro di Pierre Auguste Renoir attraverso le parole del figlio tardivo, Jean Renoir, che ha segnato la storia del cinema (Renoir, mio padre, Adelphi, Milano, 2015). Poi ho visto proprio Renoir padre dipingere in un filmato d’epoca, ormai anziano, con le mani rovinate dall’artrite che stringevano salde il pennello, gli occhi accesi e penetranti nelle orbite scavate sul volto emaciato, ornato da una lunga barba bianca, inclinata da un lato per strano vezzo della natura; infine ho visto luoghi del lavoro di William Kentridge ma anche di Picasso. In tutti i casi si aveva l’impressione che tutti quelli fossero appunto luoghi di lavoro, posti in cui costoro pensavano solo a quello che stavano facendo e non a esibire se stessi. Il loro atelier, la loro casa esprimeva il lavoro … o almeno il tentativo di una ricerca, di uno sforzo.

Non sono stato sempre così fortunato. Ricordo almeno un esempio in una mattina di aprile: un “antro” d’aspetto chiassoso, mancante di gusto, ricolmo di quelle che anch’io riuscivo a vedere essere solo croste men che scolastiche, neanche frutto di abilità tecnica del disegno, semmai rabberciate elaborazioni di foto scontate.

Se devo pensare agli esempi di prima e raffrontarli a quest’ultimo, sento il rapporto tra il pieno e il vuoto, tra il silenzio e la cacofonia, tra il frutto maturo e quello guasto … tra la vita piena e il degrado. E allora capisco Walser, o almeno, credo di poterlo capire.

 

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