La ragione e la passione per vivere la modernità

di Antonio Errico

L’uomo si guadagnava la vita arando i campi con un baio portentoso che divorava le zolle come se fossero fieno di primo taglio.

Un giorno, mentre arava, vide entrare in un podere confinante un uomo con una macchina strana, e con quella macchina cominciò ad arare.

L’uomo fermò il cavallo. Guardò quello che arava con la macchina strana. Dal taschino prese le cartine, prese la busta del tabacco, si arrotolò una sigaretta, accarezzò il muso del cavallo, rimase un po’ soprappensiero, poi sorrise un po’ beffardo, e tra sé e sé disse così: non dura.

Da quel giorno passò sì e no un anno. In quell’anno, l’uomo vendette il cavallo, abbandonò l’aratro nella rimessa. Dal fondo di una botte tirò fuori i risparmi e comprò un trattore.

Il trattore è modernità.

Modernità è quello che dura.

La ruota, la bussola, la stampa di Johannes Gutenberg, il motore a combustione interna, il telefono di Antonio Meucci, la lampadina di Thomas Edison, la penicillina di Alexander Fleming, internet, sono modernità.

Giotto, Dante, Beethoven, De Cervantes, Omero, Shakesperare, Canova, Caravaggio, Michelangelo, Darwin, Galilei, Freud, Einstein, Platone e Montaigne sono modernità.

Modernità è il pensiero che dura, la macchina che fa più agevole il lavoro, la scoperta e l’invenzione che mutano i destini di tutti, di ciascuno.

Quello che non dura, che non incide in modo sostanziale sull’esistenza delle creature, che non trasforma le visioni del mondo e delle cose, che non orienta i passi della storia, non è modernità: è soltanto novità, contingenza, avvenimento, tendenza, moda, presente che si trasforma rapidamente in passato di cui a volte non resta nessuna memoria.

Modernità è quello che dura.

E’ davvero imbarazzante, e intimorente, essere costretti a ritrovarsi in pudico disaccordo con quello che diceva Charles Baudelaire: “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”.

Si potrebbe cercare una giustificazione o più esattamente un alibi per il disaccordo, sostenendo che Baudelaire si riferiva all’opera d’arte, che chiamava in causa l’eterno e l’immutabile mentre quello che si sta dicendo in questo caso è circoscritto alla terrestrità e alla continua mutazione. Oppure si potrebbe dire, abbastanza semplicisticamente, che i tempi e lo sviluppo delle cose hanno inevitabilmente mutato i concetti. Oppure si potrebbe addirittura scoprire, forzando un poco l’interpretazione, che non c’è nessuna contraddizione e nessun disaccordo, perché quella metà che Baudelaire definiva “eterno ed immutabile” in realtà è quello che dura, quello che rimane, l’essenzialità che si sottrae al transitorio e al fuggitivo, alla mutazione.

Infatti, La notte stellata di van Gogh non ha avuto nessuna mutazione, come non ne ha avuta il Nabucco di Verdi, né la Recherche di Proust.

Ecco, per esempio: la Recherche è modernità.

Certo, ogni tempo dà interpretazioni della modernità con le proprie categorie ed opera una scelta fra quello che è moderno e quello che è soltanto una manifestazione provvisoria.

Probabilmente bisogna imparare a scegliere. Per scegliere bisogna riuscire a comprendere che cosa avrà una durata e quindi proiettare quello che si vede oltre il confine del presente.

Dopo il primo momento di diffidenza, l’uomo che arava con il baio, scelse perché comprese e comprendendo proiettò quella macchina nel futuro: capì che il trattore sarebbe durato, che avrebbe sostituito il cavallo.

Fu una scelta che contrastava con le sue abitudini, con il suo sentimento, con il suo sapere, che richiedeva, pretendeva, l’acquisizione di altre abitudini, di un altro sapere; il sentimento, certo, se lo poteva tenere, lo avrebbe comunque tenuto. Non avrebbe mai dimenticato il suo lungo parlare al cavallo e il parlare come avrebbe parlato il cavallo quando affondavano i solchi da una finita all’altra del campo, quando ritornavano alla casa, stanchi, all’imbrunire. Non ci sarebbe stato bisogno di togliersi la giacca per metterla sulla testa del cavallo per ripararlo dal freddo in certe albe di profondo inverno. Tutto questo se lo sarebbe tenuto tra i ricordi. Tutto questo gli sarebbe mancato. Però doveva scegliere, e scelse il trattore. Il trattore era modernità. Il cavallo apparteneva all’antico. Scelse con un dissidio fra ragione e sentimento, ma comprese che diversamente non poteva fare.

Capì che il trattore sarebbe durato, che era modernità, che lui doveva diventare moderno.

Modernità è quello che dura. Però, da un certo punto in poi si è dovuto cominciare a fare i conti con Zygmunt Bauman. Per molte cose si è dovuto fare i conti. Dice Bauman: “Se la vita premoderna era una quotidiana rappresentazione dell’infinita durata di qualunque cosa a eccezione della vita mortale, la vita liquido-moderna è una quotidiana rappresentazione della transitorietà e della fugacità. Ciò di cui gli abitanti del mondo liquido-moderno si accorgono rapidamente è che nulla in questo mondo è destinato a durare, tanto meno a durare per sempre”.

Ecco. Con questa affermazione, per esempio, bisogna fare i conti. Con questa consapevolezza che nulla può avere durata. Allora si accartoccia l’idea che la modernità sia quello che dura e che si possa ancora operare una scelta in relazione alla durata. L’interrogativo su come scegliere, dunque, si ripropone in maniera prepotente, e le risposte possono essere tante quante sono le esistenze che se lo domandano.

Una delle risposte possibili è che si possa scegliere esattamente nel modo contrario a quello con cui ha scelto l’uomo che arava con il baio che era un portento.

L’uomo aveva scelto il trattore in base ad un ragionamento, ad una previsione.

Però si può scegliere anche in base al sentimento. Si può anche scegliere che cosa sia modernità in base al sentimento che si prova per le cose, per le storie. Si può anche scegliere in base alla consapevolezza o anche solo alla percezione della bellezza di quelle storie, di quelle cose. Si possono scegliere le cose e le storie per le quali si prova affetto, indipendentemente dalla considerazione che poi possano durare molto, o poco, o per niente.

Se tutto passa rapidamente, se niente dura molto e comunque niente dura per sempre, se comunque bisogna scegliere, allora, tanto vale scegliere adottando il criterio del pathos: con affetto, con emozione, con commozione; con un po’ di sapere, con molta passione.

L’uomo che arava con il baio, che scelse con ragione, forse si portò dentro un’amarezza, un rammarico. Forse, mentre arava col trattore, si sentiva accanto l’ombra silenziosa di una nostalgia. La sua nostalgia veniva da una necessità di modernità. Ma non sempre la modernità è necessaria. A volte si può anche evitare di portarsi dentro nostalgie.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 10 settembre 2017]

 

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