Alieni. In un paese triste e morto

di Francesco Greco

Ho un hobby, lo coltivo da quand’ero bambino: ascoltare i vecchi. Lo facevo nelle loro case dinanzi al fuoco e al vino e nelle osterie, e oggi nelle piazze. Li ascolto in silenzio, non li interrompo, non solo per la buona educazione che i miei fantastici genitori, Antonietta e Cosimo, pace e memoria, m’hanno insegnato, ma anche affinché il flusso della memoria scorra libero e gaio, agile come un ruscello al sole della primavera.

Giorni fa, un vecchio ormai prossimo al secolo, che era amico di papà e ancora coltiva l’uliveto e piange guardando un suo albero devastato da quella lebbra che non osiamo manco nominare, come si fa con le brutte malattie, mi diceva che quando era bambino sentiva i grandi dire: “La fine del mondo è vicina, chissà che deve venire… I vivi invidieranno quelli che se ne sono andati, moriranno onza a onza (lentamente)…”.

La xylella cos’è, a leggerla con disincanto, se non una metafora dell’Apocalisse, la cupio dissolvi in cui ci siamo avviluppati e perduti? La lebbra che ci hanno contagiato, anche con la nostra cattiva coscienza, pigrizia, vigliaccheria, fuga dalle responsabilità?

Le nostre vite sono anonime, borderline, prive di luce, corrotte dalla bellezza posticcia, al botulino. Consumiamo emozioni seriali, che devastano lo spirito.

Siamo degli alieni, marziani, forestieri in paese ormai sconosciuto, senza più memoria, radici, senso comunità. Le parole sono vuote di senso, l’afasia dei sentimenti ci corrompe, impera il darwinismo più cupo e la solitudine cosmica ci rende inquieti e infelici.

Se chiedessimo a un ragazzo se ha letto Leopardi, se conosce Pasolini, Sciascia, Fellini, Carmelo Bene, cosa risponderebbe? I loro film non si trasmettono, le opere non si ristampano. Tutto rimosso.

Abbiamo ceduto il nostro libero arbitrio. Non pensiamo se non con la forma mentis di chi ci domina, il suo nichilismo è penetrato nel nostro io più profondo, balbettiamo il loro mantra in un universo più che “liquido”, atomizzato.

Ci voleva molto coraggio per addentrarsi nel labirinto oscuro e osceno del nostro tempo e mostrarne tutte le piaghe e le patologie, le interfacce tragiche, deliranti, aberranti, folli.

Lo ha fatto per noi Paolo Vincenti in Italieni, Besa, Nardò 2017, sbattendoci in faccia questa gallery di mostruosità che ci avvolge come un perfido peplo e in cui ci hanno spinti, col nostro consenso.

E’ come Dante, ci prende per mano e ci conduce nei gironi dell’Inferno dove oziano gli “osceni” topoi della nostra quotidianità, dove è avvenuta l’eterogenesi dei mezzi divenuti fini, che stagnano nel nostro immaginario collettivo colonizzato dalla bruttezza e dalla volgarità: i servi di tutti i regimi, i tuttologi dei media, gli intellettuali embedded che hanno tradito la loro funzione critica e ci vendono una realtà che non c’è, in sinergia ci interessi con i politici dediti al loro ombelico e allo status.

Viviamo una vita degradata – ci dice Vincenti nei panni di critico della modernità –  di surrogati, ostaggi della criminalità e della politica criminale.

La tv, ieri “cattiva maestra” (Karl Popper), oggi è pornografia pura. Come la politica, stessa metamorfosi: volgari luci rosse. Tv e politica: cloache che rispondono al principio dei vasi comunicanti.

Berlusconismo vs renzismo, politica e tv: contiguità semantica, rubbish che si riversa nelle nostre coscienze corrompendole, riducendoci a consumatori, abbrutendo lo spirito, la vita. E una è funzionale all’altra.

L’oblio del tutto e di noi stessi prevale, la rimozione è selvaggia: senza passato, viviamo sospesi in un presente volgare e “osceno”.

Il resto lo ha fatto il web, che ci dà un potere illusorio, di esercitare dei diritti, di vivere in democrazia sol perché pratichiamo i social: invece i suoi padroni ci schedano e ci menano per mano dove vogliono come pecore al macello, bestiame brado. E che ha portato a un sapere conformista, trasfigurato in un’ignoranza di massa.

I piccoli, illuminanti saggi di Vincenti non spuntano come funghi dopo la pioggia, ma hanno padri nobili. La sottile ironia di Flaiano, il sarcasmo cupo di Sergio Saviane. Un po’ Marziale, un po’ Oscar Wilde, un po’ Mark Twain, in certi passaggi si intravede il furore etico, iconoclasta del “Male” o del “Canard Einchené”.

Gloria imperitura dunque a Vincenti l’iconoclasta, il Chomsky italiano che denuda il Re e i potenti e ci porta per mano nel mare tempestoso del tempo triste che ci è toccato, in una selva improvvisamente oscura, che non riconosciamo più, governato da élite finanziarie avide, che cercano solo il profitto, in cui siamo turisti sperduti, citazioni del marziano di Flaiano.

Un tunnel viscido in cui siamo finiti col nostro consenso, per vigliaccheria e pigrizia, larve senza più autostima.

Forse, chissà, potremmo reagire ritrovando un po’ di autostima e di coraggio. Cominciando a spegnere la tv, togliendo la delega ai politici che ci hanno condotti sin qui, quelli che promettono di salvarci senza rendere conto delle parole di ieri.

Chissà, potremmo tornare a cercare la bellezza, la poesia, la sapienza del cuore, la vita, la condivisione del sentimento che unisce gli uomini, l’energia universale. Ricordare che non siamo qui per fare le comparse, ma i protagonisti, non per vivere come “bruti”, ma per “godere di virtute e canoscenza”.

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