Ricordo di Zeffirino Rizzelli

 di Augusto Benemeglio

La melodia

Come scrive Walter Pater, tutte le arti tendono alla condizione della musica, forse perché in essa il contenuto è la forma, giacché non possiamo raccontare una melodia come possiamo fare con le linee d’un racconto. Per me, ricordare Zeffirino Rizzelli a dieci anni dalla sua scomparsa, è un po’ come riascoltare quella melodia che è difficile da raccontare, anche perché lo incontrai una sola volta e il mio colloquio con lui (fu piuttosto un soliloquio) non andò oltre la mezz’ora. “Da un uomo che ha compiuto da un pezzo i settant’anni che ci consiglia Davide, c’è poco da aspettarsi, mio caro amico, fuorché l’impiego consapevole di questa o quella abilità, qualche leggera variazione e parecchie ripetizioni”, mi disse il professore, citando a braccio Borges, non appena varcai la soglia della sua casa. Lo ricordo come un uomo piccolo, magro, apparentemente fragile , ma con un sorriso radioso, in cui tutte le sue parole,  dette con voce pacata, talora appena sussurrate, si facevano note musicali, sguardi flottanti, sorrisi, soffi invisibili che muovevano ali di farfalle, inviti ad entrare in lui, nell’infinito intreccio della sua cassa di risonanza musicale, che era poi la storia di Galatina, la storia del Salento, la storia del mondo. Vi parlo di un ricordo che risale all’aprile 2002, che mi è rimasto nella retina come un grumo di luce, una stella cadente, ed è in effetti  qualcosa di immaginario, di inverificabile, di poetico, forse, ma sono quelli i momenti che contano nella vita e che ti lasciano nella mente più di un racconto, più di un romanzo, ma una storia universale… (“Sono stati la potenzialità delle narrazioni inventate e il balzo sintattico verso un indomani senza fine – dice Steiner – a trasformare uomini e donne, donne e uomini, in chiacchieroni, pettegoli, poeti, metafisici, pianificatori, profeti e ribelli contro la morte.”

Una rappresentazione teatrale

Zeffirino non aveva nulla di formale, di barocco, di vanitoso, di istituzionale, di professorale, di padre nobile della Democrazia Cristiana, qual era stato.  E tuttora, “con le sue riflessioni, i suoi moniti , i suoi sorrisi, il suo fervore intellettuale, le sue idee innovative “, era una sorta di simbolo, un monumento vivente  di eroismo civile e culturale per la sua città, Galatina e tutto il Salento. Era il responsabile dell’Università Popolare, da lui fondata qualche anno prima, nonché presidente del distretto scolastico 42°, che dirigeva da quasi vent’anni, il direttore de “Il Galatino” e rappresentava ancora un punto di riferimento, un faro per l’avvenire della sua città. “Nessuno è la patria, tutti insieme lo siamo. / Nel vostro e nel mio petto arda, incessante / Il suo limpido fuoco misterioso. In passato aveva ricoperto diversi incarichi di rilievo sia nella politica che nel campo dell’insegnamento e della cultura ed era stato il primo Sindaco ad elezione diretta di Galatina (1993-1996) . Ma io mi ero recato da lui, presso la sua abitazione, al solo scopo di proporgli la rappresentazione di un mio recital, “Antonietta De Pace, rivoluzionaria gallipolina”, che a quel tempo portavamo in giro un po’ in tutto il Salento, con la mia “troupe” scalcagnata, formata da giovanissimi studenti e anziani pensionati di Gallipoli. Me l’aveva presentato un’amica comune, la dottoressa Maria Rita Bozzetti, amante delle belle lettere, poetessa, che aveva fatto anche da tramite per la realizzazione del progetto che mi stava a cuore.

La preghiera

Quando cominciai a parlargli del recital e rievocargli un po’ le gesta della mazziniana gallipolina, il prof. Rizzelli emise un lungo doloroso sospirò, e con assoluta modestia e semplicità, nella sua grandezza spirituale e culturale,  come se da sempre ci fossimo conosciuti, mi parlò a cuore aperto, da amico,  del suo difficile e doloroso periodo di prigionia tedesca, quando nel giugno 1943 fu portato a San Saba, vicino Trieste. “Siamo fatti di ombra e di cenere”, e ce ne accorgiamo solo nei momenti in cui il destino sembra voltarci le spalle e di noi non rimane nulla, né il nome, né il volto, né il ricordo. Mi raccontò, con un filo di voce che ritesseva le sue inenarrabili peripezie, sofferenze, paure, terrori, di non poter più rivedere i suoi cari e tornare nella sua piccola patria.  Subito dopo la guerra aveva dovuto fare un viaggio infinito, a piedi sanguinanti, oltre mille chilometri per tornare a casa. “Avevo diciassette anni  e davanti  me uno sfacelo, un mondo che andava alla deriva, macerie e rovine ovunque, e tuttavia – quando si è giovani, ti salvano i sogni, ti aggrappi al desiderio dei sogni, a un filo d’orizzonte di luce. Mi sentivo la pioggia e l’umidità nelle ossa, persino la luce del giorno sembrava inzuppata di pioggia e poi c’era l’odore dei cavoli che sentivo dappertutto, era un mondo ridotto a cavolo lesso. E tuttavia, per me, allora, tutto doveva essere un po’ magico, e più volta sognai il tappeto volante delle mille e una notte, ma poi tornavano i terrori durante le notti passate all’addiaccio, la paura di essere di nuovo catturato dai tedeschi . Ogni bacca, ogni tubero, ogni filo d’erba che trovava nella campagna era simbolo di salvezza.  Ma se ci riflettiamo, anche nei momenti di disperazione, ogni momento della nostra vita ha qualcosa di miracoloso, e il miracolo più grande che si ripete sempre, con vari gradi di intensità, è quello dell’amore, è il miracolo imperativo dell’ irrazionale, la ricerca di Dio che ritrovi tra i fuggitivi, i diseredati, i condannati, gli offesi, gli infermi, i moribondi. E’ un Dio  che soffre per noi e che ci è sempre vicino, anche quando lo sentiamo lontano.“La mia bocca ha pronunciato e pronuncerà ancora migliaia di volte  il “Padre nostro”, ed quella la preghiera che ti salva.

E’ con l’utopia che si cambiano le cose

E trovai lungo la strada persone che mi hanno dissetato, sfamato, dato asilo, consolato spronato a riprendere il cammino.  Io non credo ai dogmi e alle ideologie, ma credo nell’uomo buono, nel senso del dovere, del sacrificio, della volontà alfieriana, al senso etico che ci deve sempre guidare in ogni nostra azione, credo soprattutto nel senso di solidarietà. Da soli non si va da nessuna parte. E  credo che si debbano educare  i giovani a osare per realizzare un mondo migliore, più giusto, più equo, in cui tutti possano vivere con dignità. E’ utopia? Forse, ma è con l’utopia che si cambiano le cose. E anche con un pizzico di filosofia che ti fa capire la corsa di Achille e la tartaruga. Uno scrittore, ammise Kipling, può concepire la favola, ma non penetrarne la morale, come invece riesce alla mente di un bambino. Noi tutti insegnanti, intellettuali, operatori culturali, dobbiamo tener conto che la cultura deve essere patrimonio di tutti, ma se non è partecipata è come se non esistesse. Il nostro  cammino spesso s’impantana in una zona d’ombra, in un solipsismo fine a se stesso. Noi tutti che usiamo la penna , che scriviamo, abbiamo il dovere di essere chiari, intellegibili, dobbiamo dissipare nebbie e ombre, comunicare dei fatti precisi  e, se possibile, toccare fisicamente, con le parole, le persone a cui ci rivolgiamo.

Non sarò mai rassegnato all’abiezione

Ci rivedemmo ancora, brevemente, pochi giorni dopo quel memorabile mese di aprile (“il più crudele di tutti i mesi”) , ma fu solo per un suo  breve saluto, prima dell’inizio  recital sull’eroina gallipolina, che avvenne lunedì 15 aprile 2002, alle 18,30, presso la Sala Fede e Cultura “G. Pollio” dell’Università Popolare di Galatina:  “Non vogliamo più padroni, né stranieri che ci governano in casa nostra – dice la patriota salentina -. L’Italia dev’essere una, libera e repubblicana. Anche se il prezzo da pagare è alto e terribile.”  Non so  se Zeffirino rimase fino alla fine della drammatizzazione, ma prima mi aveva detto qualcosa che mi colpì, che riassumo liberamente: “Io sono il teschio ed il cuore segreto delle cose / sono i percorsi del sangue che non potrò vedere / le gallerie del sogno /  il ricordo, l’esilio e la spada /  Io sono i  mille libri che ho studiato, / le ore contate davanti alla lampada a petrolio / Le tonnellate di stampe che il tempo ha affaticato  / Sono quello che talora invidia i morti / per il loro eterno riposo / Ora vedo le prore del porto / in attesa della mia ultima partenza // Ma finché sarò in vita, su questa terra, / non sarò mai rassegnato all’abiezione/ Noi uomini siamo condannati ad essere quello che siamo: / crudeli, avidi, egoisti, bugiardi. / Ma dobbiamo cercare sempre di non essere indegni / della missione che ci è stata affidata”.

                                                                                                   Roma, 29 settembre 2017

 

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