Sulla diseguaglianza tra gli uomini

di Gianluca Virgilio

Non so se, in buona o in malafede, ci sia qualcuno che sostenga nel mondo attuale la fine delle classi sociali.  Naturalmente, se non esistono le classi, non esiste neppure la lotta di classe, e quindi tutti siamo più tranquilli perché nessuno spettro s’aggira per l’Europa e neppure per il mondo. Chi la pensa così, non crede certamente che sia scomparsa la diseguaglianza sociale, perché sarebbe da cieco non vedere che c’è chi ha e chi non ha; ma il pensiero della democrazia, che non preclude a nessuno la strada del successo, gli è garanzia che la diseguaglianza è un concetto relativo, la cui relatività ciascun povero può sperimentare di persona, solo che sia in grado di imboccare la strada giusta: la strada che conduce a fare tanti tanti soldi.

Se non hai tanti soldi, non è perché qualcuno ti ha messo nella condizione di non averli (col che la diseguaglianza sarebbe un male assoluto, contrario alla democrazia), ma perché tu sei colpevole di non esserti dato da fare per averli. Il povero, dunque, è colpevole due volte: perché, per sua negligenza, non ha saputo guadagnare molto denaro, e poi perché con la propria esistenza attesta nel mondo la diseguaglianza tra gli uomini, cosa che non sta bene in quando incrina la serenità di chi non è mai colpevole (il ricco).

Ai primi d’agosto del 2011 mi trovavo a Londra per una breve vacanza con la famiglia, quando scoppiò la rivolta dei riots. Improvvisamente, migliaia di giovani e meno giovani delle principali città inglesi smettono i panni dei poveri colpevoli con la testa bassa e si vestono da rivoltosi: bruciano automobili, meglio se lussuose, assaltano banche, distruggono vetrine e, soprattutto, rubano a più non posso, soprattutto i tanto bramati articoli di elettronica, televisori, computer, stereo, cellulari, tablet,  ecc. Volete sapere se sono un testimone oculare? Ebbene, io e la mia famiglia, come tutti i turisti soggiornanti a Londra, non abbiamo visto assolutamente nulla. Un cordone di polizia in assetto antisommossa ha isolato il quartiere delle devastazioni, la metropolitana in corsa saltava sistematicamente la fermata di Tottenaim, dove sarebbero scesi coloro che dovevano visitare il British Museum. Tutto quello che ho visto, passando veloce in metropolitana, è stata la stazione sporcata dalle fiamme del recente incendio e, di ritorno in albergo, le immagini che trasmetteva la televisione, le stesse che ha visto tutto il mondo.

La ribellione è la terza ragione che rende il povero colpevole. La triplice colpa fa di lui un reietto, che va individuato, isolato e punito. Ero ancora a Londra quando cominciavano a circolare le immagini dei volti di codesti colpevoli, contro cui si è subito scatenata la caccia all’uomo. Poi, mentre passeggiavo con la mia famiglia in Hyde Park, ecco un frastuono proveniente dall’altra parte della città, oltre le acque placide del Serpentine. Saranno altri riots, ci siamo detti. E invece no, sfilavano i commercianti “londinesi” con le ramazze, neri, indiani, pachistani, ecc., cioè tutti coloro che erano stati danneggiati dai riots ed ora chiedevano a gran voce di ripulire in fretta le strade perché business is business, e bisognava ritornare alla normalità. La ricca e civile Londra a colpi di ramazza spazzava via sporcizia e riots, i riots come sporcizia, sotto il tappeto dei propri affari!


Così il povero, tre volte colpevole, a colpi di ramazza è via via respinto verso la periferia delle grandi città, da cui ritorna di tanto in tanto, sempre con maggiore violenza. Presto nelle città si  innalzeranno possenti mura intorno ai centri storici e si faranno entrare solo i consumatori paganti per un breve soggiorno. Del resto, non è già così nelle nostre città d’arte (Venezia, Firenze, Roma, ecc.), mutate in Disneyland dell’arte a pagamento per il gaudio dei turisti di tutto il mondo?

Non considero la rivolta dei riots un esempio di lotta di classe. Per il vecchio Marx, che ha sempre qualcosa da dirci, la classe per esistere deve avere una coscienza, la coscienza di classe appunto, che costituisce il primo passo verso la liberazione. Che si ritenga giusto o meno questo ragionamento, io non so proprio se a Londra quei poveri disperati avessero una tale coscienza. Probabilmente avevano solo la coscienza di essere dei reietti, a cui la rivolta offriva la possibilità di impossessarsi di quanto diversamente sarebbe stato per loro inattingibile. Il povero non è chi vuol sovvertire un ordine, ma chi vorrebbe essere parte di quell’ordine, e ne viene respinto perché in esso non c’è posto per tutti.

Così i giovani di colore delle le banlieue parigine, i black block che hanno portato le loro devastazioni nelle città italiane e altrove, che cosa sono se non l’espressione del malessere di una massa di poveri molto più vasta, tenuta forzatamente ai margini della società, che di tanto in tanto, sempre più frequentemente, esplode, lasciando dietro di sé solo distruzione e morte?

Le classi esistono, ma non hanno una coscienza. Esse sono individuabili a partire dal grado dell’ accesso alla ricchezza del mondo. C’è chi, in una grande città come San Paolo in Brasile, si sposta a bordo dell’elicottero, come riferisce Slavoj Zizek (leggilo in Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie, 2010), e chi vive in una favelas. In mezzo, tra cielo e terra, vivono quelli che, a diversi livelli, lavorano per il ricco che va in elicottero, mantenendo la giusta distanza dal povero. Si tratta di una classe sociale  di intellettuali “composita – organizzata sia su base nazionale che su base transnazionale –  che gestisce la “sovrastruttura” ideologica del capitalismo contemporaneo: questa classe comprende giornalisti, pubblicitari, scrittori per i media, scienziati e professori universitari, il cui compito consiste nella produzione e diffusione di una sfera simbolico-culturale funzionale alla riproduzione del sistema economico” (Carlo Intini, Perché l’antipolitica aiuta il capitalismo, “Il Manifesto” di venerdì 17 maggio 2013, p. 15). E non si pensi che sto parlando di un altro pianeta! Nella nostra Puglia sapete cosa accade d’estate nelle campagne, mentre nelle città gli intellettuali celebrano il cosiddetto Rinascimento pugliese – che preferisco chiamare neobarocco -? Accade che, come riferisce Pasquale Trivisonne in una lettera aperta a Nichi Vendola, “migliaia di uomini e donne [si rechino] a lavoro nei campi dall’alba al tramonto, senza nessun diritto, con degli aguzzini (i caporali) che dettano legge e con delle paghe talmente basse che il pomodoro è uno dei pochi prodotti che non conviene importare dalla Cina. (…) esseri umani ammassati come bestie in rifugi di fortuna, senza i più elementari diritti, senza acqua, senza servizi, senza un letto, costretti  a pagare a caro prezzo anche i beni più elementari. Le donne sono violentate e gli uomini, se tentano di ribellarsi, massacrati di botte e a volte uccisi. Tutto questo nell’indifferenza generale e sotto gli occhi di tutti…” (Gli schiavi nei campi. Uno scandalo pugliese, “La Repubblica BARI” di venerdì 3 ottobre 2008, p. XVI): qui, nel nostro Salento!

Non mi piace fare i conti in tasca alla gente, ma quando la gente fa i conti in tasca agli altri e stabilisce quanto nelle tasche delle persone deve entrare e quanto deve finire nelle sue, si è più che giustificati. Ho letto un articolo di Gad Lerner, che faceva appunto i conti in tasca ad alcuni personaggi pubblici. Ecco un estratto del suo articolo: “Il primo ministro del governo italiano [Berlusconi] ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11.490 (undicimilaquattrocentonovanta) volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco.  Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il 63,3 % dell’azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato l’anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per l’appunto a 11.490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di Pomigliano  che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione portando a casa 11.000 (undicimila) euro lordi.  In altri termini, la persona fisica del nostro primo ministro ha guadagnato  nel 2009 due volte (e più) il monte salari dell’intero stabilimento al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le relazioni sindacali del paese.

Nello stesso periodo, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne,  ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano” (Il profitto e l’operaio, “La Repubblica” di sabato 26 giugno 2010, p. 1 e 27).

Insomma, le classi esistono, ma sono senza coscienza, altrimenti…

(2013)

[in Così stanno le cose, Edit Santoro, Galatina 2014, pp. 61-64]

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