Di mestiere faccio il linguista 3. Quando la lingua italiana è messa al bando…

di Rosario Coluccia

Oggi ci occupiamo di università, trattiamo una questione specifica, all’apparenza minuscola e invece di interesse generale. Tra Natale e Capodanno 2017 è uscito il bando che finanzia la ricerca di base, quello che consente a professori e ricercatori di presentare domanda per i «Progetti di Rilevante Interesse Nazionale», i cosiddetti PRIN (tenete a mente la sigla, per comodità e per risparmiare spazio la utilizzerò anche dopo). A paragone di altre nazioni europee, l’Italia investe poco nel campo della ricerca: 0.8% rispetto al Prodotto Interno Lordo in Italia, 1.2% in Francia, 1.3% in Germania. Nell’ultimo decennio, nel contesto della crisi, anche l’università ha pagato prezzi altissimi, come del resto è capitato ad altri settori del nostro Paese e a moltissimi cittadini. Il numero dei poveri è aumentato e anche quello dei molto ricchi. Le nude cifre sono più eloquenti di mille parole, testimoniano il basso livello di equità della nostra società (ma sarebbe un altro discorso, non voglio fare il politico).

In un quadro di generale scarsità dei finanziamenti per la ricerca, l’uscita del bando PRIN è un fatto positivo, una vera boccata d’ossigeno per un mondo universitario che ha difficoltà a respirare. Negli anni passati i bandi spesso sono usciti in ritardo e a volte sono saltati del tutto. Il bando di quest’anno è finanziato meglio rispetto a quello del 2015, l’ultimo uscito (il 2016 è saltato, come sono saltati il 2013 e il 2014). Questa volta sono previste tre linee di finanziamento: oltre alla linea definita “principale”, ve ne è una riservata ai giovani e una al Sud. Ma, accanto a questi elementi positivi, c’è una novità sostanziale negativa. Nell’art. 4, comma 2 del bando è scritto testualmente: «La domanda è redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana». Badate bene: la lingua obbligatoria è l’inglese, quella italiana può essere usata, «a scelta del proponente» per «una ulteriore versione» (non necessaria, facoltativa). La degradazione della lingua italiana a lingua accessoria e secondaria, praticamente inutile, non potrebbe essere più esplicita.

Immediate le reazioni. Sui giornali sono apparsi articoli molto critici, anche da parte di esterni all’università. Consessi importanti hanno protestato vivacemente. I Presidenti di Associazioni che raggruppano docenti di varie discipline hanno scritto in un documento, proprio con riferimento alla obbligatoria domanda in inglese: «Per un atto ufficiale del Miur e più in generale dello stato italiano, e per un bando che nel suo acronimo reca il termine “nazionale”, tale formulazione ci appare discutibile, poiché comporta la subalternità della nostra lingua nazionale rispetto ad altre lingue. La giusta incentivazione alla internazionalizzazione, così come la fondamentale esigenza di apertura comunicativa verso i valutatori stranieri, non possono sacrificare e declassare la comunicazione in lingua italiana, che deve restare almeno paritaria ed è tutelata dal dettato costituzionale». L’Accademia della Crusca, tramite il suo Presidente Claudio Marazzini, ha sottolineato: «sembra persino incredibile che un ministero della Repubblica Italiana abbia potuto disinvoltamente decidere di bandire la lingua italiana dalle domande di finanziamento per la ricerca di interesse nazionale».

La Ministra Fedeli non si è sottratta al dibattito. In un’intervista apparsa il 6 gennaio di quest’anno ha respinto ogni critica. Vediamo. Il Ministero non può essere accusato di scarsa considerazione per la lingua italiana, che anzi dallo stesso viene costantemente valorizzata con manifestazioni di «enorme successo» come le “Olimpiadi dell’italiano” «alle quali partecipano annualmente più di centocinquantamila ragazze e ragazzi», con «iniziative per la promozione della cultura e della lingua italiane all’estero» come la “Settimana della lingua italiana nel mondo”, con il sostegno a progetti di internazionalizzazione dell’italiano, con commissioni ministeriali miranti a promuovere la nostra lingua nei diversi corsi d’istruzione scolastica e con altre attività dettagliatamente elencate. La scelta linguistica favorevole all’inglese per i nuovi PRIN ha tutt’altra origine, dichiara la Ministra. «Il problema della redazione dei progetti di ricerca appartiene a una dimensione funzionale assolutamente diversa e assai marginale rispetto a quella, ben più importante e vasta, del valore intrinseco della nostra lingua. […] La redazione obbligatoria delle domande in lingua inglese appare funzionalmente indispensabile. […] Le lingue si definiscono per quelli che sono anche i loro spettri d’impiego. E l’inglese è, semplicemente, la lingua veicolare della comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori. […] L’INGLESE è, dunque, necessario. È necessario, insisto, in questo specifico caso. La stessa lingua che, peraltro, ricercatrici e ricercatori sono abituati a utilizzare quando fanno domanda per partecipare a un qualsiasi bando competitivo europeo. Per conseguenza non ci trovo nulla di scandaloso. Non stiamo chiedendo di scrivere un componimento su Dante in inglese. Stiamo chiedendo al mondo della ricerca di utilizzare per un bando con ampi “sconfinamenti” internazionali, la lingua funzionalmente più idonea. Che è l’inglese, ribadisco».

Scendiamo volentieri sul terreno che la Ministra propone: l’inglese è ritenuto necessario perché è la lingua della comunicazione internazionale. Ma vediamo le conseguenze di questa scelta. Fermo restando che l’inglese è la lingua più usata nella comunicazione scientifica internazionale, non è tuttavia esclusiva, né in Italia né in altri paesi europei (Francia, Germania, Spagna). In matematica, in fisica, in ingegneria si scrive prevalentemente in inglese. Ma, limitandoci ai nostri confini, non si capisce perché un progetto di ricerca in diritto costituzionale italiano, in storia del Risorgimento, in letteratura italiana debba obbligatoriamente essere redatto in inglese. E non si vede come uno scritto in questi campi (e in molti altri campi) possa essere letto e valutato da uno straniero che non conosca la nostra lingua e la nostra cultura.

È il solito difetto italiano. Per sottrarci alle angustie del provincialismo, ci rifugiamo nell’uso obbligatorio di una lingua che consideriamo superiore alla nostra, o perlomeno più utile per farci apprezzare. Non è caso isolato. In alcuni Atenei interi corsi magistrali e dottorali si svolgono esclusivamente in inglese. Giustificazione: si fa cosi per favorire i nostri laureati che vanno a lavorare all’estero e per invogliare gli studenti stranieri a iscriversi nelle nostre università. Ma come possiamo convincere studenti stranieri a iscriversi da noi e a imparare l’italiano se le nostre università ne fanno a meno? Per fortuna la Corte Costituzionale frena queste iniziative, ribadendo che «le legittime finalità dell’internazionalizzazione non possono ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata». Ancora. Il nuovo concorso per professori nelle scuole secondarie prevede per tutti i candidati un colloquio in lingua straniera e la conoscenza dell’inglese almeno al livello B2. Mi piacerebbe sapere perché un insegnante di storia o di matematica o di latino che a Londra sappia con fluidità chiedere a un passante dove si trova Piccadilly Circus debba essere preferito, per insegnare in una scuola italiana, a un altro che nella stessa situazione si esprime con difficoltà.

La conoscenza piena della lingua nazionale è fondamentale nella vita e per il lavoro. Due pagine di «Nuovo Quotidiano» del 18 gennaio hanno mostrato che il mancato possesso di abilità nella propria lingua (e nelle lingue straniere) è uno dei maggiori ostacoli all’inserimento nel mondo del lavoro. Italiano e inglese non sono in alternativa, bisogna avere un’ottima padronanza della propria lingua e conoscere la lingua straniera, insieme. E in nessun caso l’italiano può essere subordinato.

Torniamo così al bando PRIN. Ecco il rischio del quale la Ministra non parla. La lingua italiana, espressione dell’identità nazionale, è giudicata inadatta alla trasmissione del sapere scientifico e, con avallo ministeriale, classificata idioma secondario. Una scelta opposta a quella fatta da Galileo, il fondatore della scienza moderna, che per divulgare i risultati delle sue scoperte decise di usare l’italiano e non il latino, la lingua internazionale dei suoi tempi. Oggi al contrario, pur se l’italiano è una lingua con una storia e una cultura di assoluto rilievo internazionale, rinunziamo a essere presenti con la nostra specificità nel mondo della ricerca scientifica. Se la nostra lingua è esclusa da questo mondo retrocede a vernacolo, diventa quasi un dialetto nel contesto internazionale. Il nodo è tutto qui.

Non stiamo parlando solo di lingua, la partita è culturale e politica.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 28 gennaio 2018, p. 10]

 

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