L’Università italiana e lo spreco pubblico delle intelligenze

Fotografia di Ando Gilardi #andogilardi

di Rosario Coluccia

Siamo in piena campagna elettorale e, giorno dopo giorno, con attenzione leggo i quotidiani, ascolto la radio, guardo la televisione, cerco in rete. Mi comporto da bravo elettore. Vorrei dare il mio voto non sulla base di schieramenti pregiudiziali o di appartenenze a priori ma dando fiducia a proposte credibili. Sono deluso. Mi pare che sia in corso una gara a chi le spara più grosse e fa le promesse più mirabolanti. Dicono: creo posti di lavoro, aumento gli stipendi e le pensioni, riduco alcune tasse e ne abolisco del tutto altre, ecc. Come se gli elettori fossero tutti gonzi, Pinocchio e Lucignolo attratti dal paese di Bengodi dove non si studia, non si lavora ed è eterna festa.

Mi piacerebbe invece che si discutesse di questioni reali e che candidati, partiti, movimenti e coalizioni indicassero dettagliatamente le loro idee su questioni concrete e dessero risposte nette su come affrontare i mille problemi esistenti, grandi e piccoli. Di scuola e di università non parla seriamente nessuno, l’argomento non interessa. Eppure lì si giocano i destini del paese, lì si decide il futuro della società intera.

In rete circola un video che riscuote un grande successo (è virale, si usa dire così). Sono protagonisti tre studenti universitari, un tedesco, un francese e un italiano, come nelle vecchie barzellette. Con una differenza fondamentale rispetto alle barzellette: il video non fa ridere, anzi negli spettatori italiani suscita sentimenti di sconforto e di frustrazione. Provo a riassumere. Sulla base esclusiva di cifre e di percentuali, senza esprimere alcuna opinione precostituita, il video mette a confronto i sistemi universitari di Germania, Francia e Italia e le conseguenze di questi diversi assetti nelle corrispondenti società. Rispetto ai coetanei di Germania e Francia, un laureato italiano che pensa di intraprendere la carriera universitaria deve mettere in conto che la sua vita sarà molto più difficile: elevata probabilità di lavorare per anni solo con borse, assegni e piccoli contratti a tempo determinato (e a volte senza nessuna ricompensa), seri rischi di finire disoccupato dopo il lungo periodo di precariato, scarse prospettive di impiego stabile, retribuzioni nettamente inferiori (se si ha la buona sorte di essere assunti). Le conseguenze ormai ben note anche fuori dagli ambienti accademici: i laureati tra 25 e 39 anni che risultano disoccupati sono 2.8% del totale in Germania, 5.9% in Francia, l’11.7% in Italia. Inversa è naturalmente la distribuzione per età del corpo docente. I professori che hanno un’età superiore ai 50 anni sono il 56% in Italia, il 39% in Francia, il 25% in Germania. Ne emerge un quadro desolante: l’università italiana è vecchia e con scarso ricambio, si rivela incapace di trattenere gli elementi bravi, mostra disinteresse di fronte alla tragica emorragia di energie dinamiche da cui viene colpita. «Abbiamo sentito dire tante volte che una società sana trae linfa dalle voci più fresche», scrive Gramellini sul Corriere della Sera del 25 gennaio, lamentando che invece spesso avvenga esattamente il contrario.

Le conseguenze sono gravissime sul piano sociale e altrettanto pesanti sul piano della vita dei singoli. Nei giovani capaci che il sistema accademico respinge prevalgono mortificazione e senso di sconfitta. Abbiano riso amaramente guardando i film della trilogia Smetto quando voglio di Sidney Sibilia, il primo uscito nel 2014, i due successivi nel 2017. Vi si racconta, in toni volutamente paradossali, la storia di un gruppo di laureati e dottori di ricerca, brillanti ma senza alcuna possibilità di entrare nel mondo universitario. Tentano senza successo mille mestieri diversi: danno lezioni private ad allievi disinteressati, fanno i benzinai notturni e i lavapiatti nei ristoranti, cercano lavoro come manovali ma vengono respinti perché di livello culturale troppo elevato (uno tradisce la propria condizione di laureato usando senza avvedersene parole e espressioni troppo tecniche). Alla fine, illudendosi di uscire per questa via dallo stallo esistenziale generato dalla condizione di precarietà cronica, il gruppo utilizza le proprie capacità scientifiche per produrre e spacciare una nuova droga, sfruttando una molecola non ancora catalogata come stupefacente dal Ministero della salute. Insomma entra nel mondo dell’illegalità, con eventi che si succedono a catena, traumatici sul piano individuale, ma presentati con toni leggeri e in apparenza senza drammi.

Ovviamente nessuno dei ricercatori in carne e ossa che ogni giorno incontriamo nelle università d’Italia entra nell’illegalità per sfuggire alle difficoltà della vita. Continuano a lottare con fierezza e con tenacia, non si arrendono. Ha lo stesso titolo del film (Smetto quando voglio) un libro recente di Massimo Piermattei, un ricercatore quarantenne (si occupa di storia dell’integrazione europea) che, ancora precario e senza prospettive concrete di un lavoro dignitoso, dopo anni di studio, di didattica e di ricerca, decide di abbandonare l’università per tentare altre strade. Il sottotitolo del libro ne chiarisce le intenzioni: Guida alle ragioni per lasciare l’università italiana (e alle sfide per cambiarla). L’obiettivo è di offrire un quadro realistico sul mondo inquieto popolato dai precari delle università italiane. E nello stesso tempo sollecitare un dibattito ampio su queste problematiche che investono l’assetto stesso della nostra società. Non si tratta di fare una cronaca degli insuccessi individuali o un elenco di lamentele di chi si atteggia a genio incompreso. Al contrario, il libro invita a discutere seriamente.

I problemi che stiamo presentando riguardano anche la nostra università e coinvolgono interi gruppi di ricercatori. Alla fine del 2015, a séguito di un bando della Regione Puglia denominato «Future In Research» (FIR), attraverso concorsi nazionali, nei quattro Atenei pugliesi sono stati reclutati 170 ricercatori a tempo determinato, nei diversi settori della ricerca umanistica, economico-giuridica e scientifica. Il contratto ha la durata di tre anni e può essere prorogato per altri due. Questi ricercatori, oggi ridotti a 150, svolgono attività didattica e di ricerca a pieno titolo, fanno lezioni ed esami, si impegnano nella gestione dell’università. Alla scadenza di ogni anno, vengono sottoposti a valutazione. Tra la fine del 2018 e l’inizio 2019 il loro contratto scade, ma potrebbero essere rinnovati per altri due anni, se la loro attività fosse valutata positivamente e se si trovassero le risorse economiche per il rinnovo dei loro contratti. Quest’ultima condizione è la vera difficoltà.

A scanso di equivoci. I ricercatori di cui parliamo (molti già abilitati come professori associati e ordinari) non chiedono sanatorie o condoni. Chiedono di essere giudicati sulla base di quanto hanno fatto nei tre anni di attività e di essere mantenuti in servizio per altri due anni solo se lo meritano. I benefici per una università che invecchia sarebbero enormi, sia per gli studenti sia per coloro che nell’università già lavorano stabilmente: energie fresche si affiancherebbero a quelle già esistenti, non in concorrenza ma in affiancamento. Unisalento ha programmato un percorso per il possibile rinnovo biennale, e questo va a suo merito; ma purtroppo non possiede i fondi necessari. Una delegazione di ricercatori FIR è stata ricevuta il 22 gennaio dalla Commissione Bilancio del Consiglio Regionale: toni cortesi, nessun impegno economico. È eloquente il titolo del comunicato finale: «Ricercatori senza futuro? Nessuna proroga per 150 ricercatori a tempo determinato degli Atenei pugliesi». A questo punto esiste una sola strada. Solo un’azione congiunta ai massimi livelli, che metta insieme i Rettori delle università pugliesi e il Presidente regionale Emiliano, è in grado di affrontare e risolvere una questione che tra pochi mesi si abbatterà inesorabilmente sull’intero sistema universitario regionale (e sulla vita di quarantenni e quasi cinquantenni capaci). Non è l’ILVA e non è la TAP, ma la questione è importantissima.

Un paese che voglia essere evoluto e all’altezza dei tempi richiede azioni lungimiranti, in grado di mettere fine a situazioni paradossali e inaccettabili. Rettori e Presidente della Regione, con lungimiranza, possono evitare che si ripeta in Puglia quello che succede troppe volte in Italia: investiamo risorse nella formazione di studiosi che poi buttiamo via, sollecitandoli ad altri mestieri o ad intraprendere la via dell’estero. Attenzione. Non si tratta del fenomeno dei cosiddetti «cervelli in fuga», espressione che non mi piace neanche dal punto di vista formale, non si tratta di persone che scappano per viltà o incapacità: dopo i 35-40 anni, anche emigrando all’estero, è quasi impossibile cominciare una carriera universitaria da zero. Semplicemente, bravi docenti a disposizione dei nostri atenei vengono utilizzati per un po’ e poi buttati via.

Quindi preferisco «spreco pubblico di intelligenze», risponde meglio alla realtà dei fatti.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 2 febbraio 2018]

 

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