Perché la contrattazione decentrata non convince

di Guglielmo Forges Davanzati

Nell’ultima assemblea nazionale di Confindustria, si è discusso del Mezzogiorno. Suggerendo ricette solo parzialmente convincenti. Lo è, in particolare, quella riferita a un piano di investimenti per l’ammodernamento degli impianti, che – se finalmente realizzato con finanziamenti consistenti e adeguati – produrrebbe il duplice beneficio di far crescere la domanda interna e di far crescere la (declinante) produttività del lavoro. Meno convincente è la proposta di intensificare lo spostamento della contrattazione dal livello centrale al livello decentrato. E’, questo, un tema sul quale si dibatte molto, sia in ambito accademico, sia in ambito politico, sul quale vi è poco dibattito pubblico, pur essendo di massima rilevanza.

Di cosa si tratta e perché questa questione era ed è particolarmente rilevante?

Cominciamo con il rilevare che il sistema delle relazioni industriali in Italia si è storicamente articolato sul contratto collettivo (CCNL). Le rappresentanze sindacali e datoriali fissavano minimi tabellari per settori produttivi, cogenti per tutte le imprese e i lavoratori coinvolti nella negoziazione. E’ solo a partire dall’accordo del 1993 che cominciano a entrare nel sistema di relazioni industriali forme di incentivazione della contrattazione c.d. decentrata (o appunto di secondo livello), ovvero contrattazione su salari e condizioni di lavoro che si attua innanzitutto all’interno dell’impresa. L’evidenza empirica mostra che, sebbene ancora in numerosità inferiore rispetto alla media europea, il numero di contratti di lavoro stipulati in regime di decentramento contrattuale è comunque in crescita anche in Italia.

La logica che è alla base di questo indirizzo di politica del lavoro è riconducibile ai seguenti argomenti.

1) La contrattazione di secondo livello favorisce un più stretto legame fra salario e produttività del lavoro, assumendo che questa tendenziale eguaglianza costituisca una condizione di efficienza e anche di equità (si ritiene cioè giusto che il singolo lavoratore riceva una retribuzione commisurata al suo contributo alla produzione e, dunque, al suo ‘merito’).

2) E’ il datore di lavoro che conosce meglio dello Stato e meglio del sindacato l’assetto tecnico e organizzativo dell’impresa ed è dunque l’unico agente economico che può, meglio degli altri, stabilire un livello di retribuzione pari a quello della produttività.

3) La contrattazione di secondo livello consente una più efficiente allocazione della forza-lavoro anche per il tramite della maggiore mobilità intersettoriale dei lavoratori. Viene fatto rilevare che, in Italia negli ultimi anni, l’occupazione è aumentata nei settori meno produttivi e che i salari sono cresciuti maggiormente laddove è cresciuta meno la produttività del lavoro. Si imputano questi esiti, che producono inefficiente allocazione della forza-lavoro, al peso relativamente elevato della contrattazione centralizzata e si sollecita, per conseguenza, maggiore contrattazione aziendale. L’allocazione inefficiente della forza-lavoro deriva, in questo schema teorico, dal fatto che, vigente la contrattazione centralizzata, i salari sono più alti nei settori meno produttivi, il che comporta lo spostamento di lavoratori in quei settori, con conseguente calo della produttività del lavoro.

Vi sono, tuttavia, buone ragioni per ritenere che lo spostamento della contrattazione a livello aziendale non produca sempre e necessariamente benefici per i lavoratori, che non abbia effetti significativi sulla crescita economica e che possa determinare un aumento dei divari regionali.

Partiamo innanzitutto da un dato. All’accordo del 1993 – e dunque alla prima sperimentazione della contrattazione decentrata – fece seguito una caduta dei salari reali pari al 5.24% nel periodo compreso fra il 1993 e il 2000, determinando, su fonte Bankitalia, la riduzione della quota dei salari sul Pil dal 72.7% del 1991 al 68.1% del 2000.

La contrattazione decentrata rischia di ridurre i salari dal momento che rende più ‘atomistico’ il mercato del lavoro, ovvero riduce l’intermediazione sindacale e lascia al singolo datore di lavoro e ai singoli lavoratori la quantificazione delle retribuzioni. Ma poiché i datori di lavoro hanno strutturalmente un potere contrattuale superiore ai loro dipendenti e poiché per i singoli datori di lavoro il salario è esclusivamente un costo di produzione, la tendenza alla caduta dei salari appare pressoché inevitabile. Ciò a maggior ragione in un contesto – quello italiano – dove la platea di imprese di piccole-medie dimensioni è molto ampia e dove, cioè, la presenza di organizzazioni sindacali all’interno dell’impresa è marginale, se non nulla. Non a caso, le pochissime esperienze di successo (in termini di incrementi retributivi) si hanno nelle imprese di grandi dimensioni, le sole, peraltro, a fare contrattazione aziendale.

La contrattazione decentrata rischia poi di ridurre il tasso di crescita della produttività del lavoro. Se si guarda il profilo macroeconomico, e se la contrattazione decentrata produce calo dei salari, quest’ultimo effetto si traduce, a sua volta, in un calo della domanda. Al quale le imprese reagiscono riducendo le assunzioni e trovando conveniente accrescere la loro competitività mediante riduzione dei costi e non mediante miglioramenti organizzativi e innovazioni. L’evidenza empirica conferma che laddove l’occupazione è elevata e sono alti i salari, è alta la produttività del lavoro.

Infine, la contrattazione decentrata rischia di accrescere i divari regionali. Nel Mezzogiorno, circa il 90% delle imprese si colloca nella classe dimensionale di 1-9 addetti. E’ ragionevole aspettarsi che, data questa struttura produttiva, la contrattazione aziendale – se anche la si fa in imprese di così piccole dimensioni – anche per questa ragione porta verso il basso le retribuzioni. Nelle imprese di piccole dimensioni, di norma, la produttività del lavoro è più bassa (dal momento che queste imprese non possono sfruttare economie di scala) rispetto alle imprese di piccole dimensioni. Poiché l’obiettivo primario della contrattazione decentrata è far sì che i salari si adeguino alla produttività, non può non discenderne una riduzione dei salari dei lavoratori meridionali rispetto ai salari dei loro colleghi del Nord.

Non è un mistero il fatto che molti economisti e giuristi che propongono lo spostamento della contrattazione a livello decentrato leggono questa misura come alternativa alle c.d. gabbie salariali: un dispositivo che ope legis differenzierebbe (come accadeva negli anni cinquanta) le retribuzioni su scala regionale. Ma non vedono che la contrazione dei salari al Sud produrrebbe ulteriore deflazione e comprimerebbe ulteriormente i già esigui mercati di sbocco non solo delle imprese meridionali, ma anche di quelle del Nord. Si tratterebbe di una strategia iniqua e fallimentare ai fini della crescita economica, che non farebbe altro che riprodurre la vecchia idea (rivelatasi sempre fallimentare alla prova dei fatti) per la quale il Nord è la “locomotiva” e quando la locomotiva parte i vagoni se li tira automaticamente dietro. A ben vedere, si è sempre verificato che la locomotiva è partita solo quando è stata spinta dai vagoni, ovvero, fuor di metafora, l’economia italiana nel suo complesso è crescita solo quando è cresciuto il suo Mezzogiorno.

La contrattazione decentrata potrebbe avere effetti benefici, se pensata in modo diverso. Ovvero se pensata sulla base di un preventivo accordo delle parti sociali sulla produttività programmata: le imprese dovrebbero impegnarsi a realizzare investimenti per innovazioni organizzative e di processo che spingano il tasso di crescita della produttività del lavoro; i sindacati adeguerebbero le loro rivendicazioni salariali agganciandole a quel tasso di crescita (programmato ed effettivo) della produttività stabilito ex-ante. Potrebbe trattarsi di un avvio di un circolo virtuoso di crescita della domanda – per effetto della crescita dei salari – e di crescita dell’offerta che ponga anche le imprese meridionali (almeno quelle che vogliano potenziare la contrattazione in azienda) in condizioni di competere, e di competere via innovazioni.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, lunedì 28 maggio 2018]

 

 

 

 

 

 

 

 

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