Tutta l’eternità in una stanza. Per Ercole Ugo D’Andrea

di Antonio Errico

Ci sono poeti che a un certo punto perdono ogni cognizione della differenza tra una cosa e il suo nome, tra una sillaba e un respiro, una parola e un batticuore, tra un verso e le ombre della memoria, tra gli eventi che accadono nella realtà e quelli che accadono in una poesia.

A un certo punto diventa tutto confuso; tutto viene avvolto da una nebbia, e il poeta guarda le figure della vita galleggiare come luci fioche dentro quella nebbia.

Ci sono poeti che a un certo punto non riescono più a fare a meno di pensare come fossero parole anche l’aria che respirano, le vene delle mani, la polvere sul tavolo, un inciampo, un souvenir,  i riflessi degli occhiali, una lumaca sulla cornice di un ritratto, il fiorire dei mandorli, il sonno della madre, una neve improvvisa, i ceci messi a mollo.

Ercole Ugo D’Andrea fu un poeta così.

Fu un poeta che a un certo punto si accorse che tutta la poesia possibile era dentro la sua casa, che non c’era bisogno di cercare nulla fuori, oltre quel perimetro, al di là dei muri di confine; tutto l’universo era dentro la sua casa: il nascere, il morire, il vivere l’attesa, il sentire la speranza, il soffrire di un’assenza, il fantasticare una diversa vita senza davvero mai volerla.

Ercole D’Andrea si accorse, a un certo punto, che in quella casa c’era tutta l’eternità e tutto il transeunte, le felicità e i dolori di tutte le stagioni, i frutti ancora acerbi e quelli oramai sfatti, le parole da tacere e i silenzi da parlare, le menzogne e le verità che si aggrovigliano nel mondo. Si accorse che in quella casa c’erano tutte le metafore, l’inizio e la fine di ogni storia, che bastava soltanto attraversare le stanze, osservare le trasparenze degli occhi, comprendere stanchezze, interpretare delusioni, tessere i ricordi. Era tutta lì ogni poesia. Per scoprirla occorreva solo uno sguardo perforante, capace di raggiungere il mistero che ci cela nell’apparenza anonima e innocente.

Aveva un libro già scritto tutto nella mente: un’opera che ininterrottamente compattava frammenti,  scaglie,  minuzie, attimi del tempo, millimetri di spazio.

Diceva di  avere un diario celeste e terreno anche quando non scriveva parole.

Usciva poco da quella casa. Usciva sempre di meno. Sempre più stancamente, malvolentieri. Come se ogni uscita fosse uno strappo, una diserzione.

Era quella la sua misura, era quella il suo confronto, il suo conforto, il rifugio, la clausura per vocazione. I  percorsi occasionali tra i paesi del Salento, per Lecce – “la morta” – o per Firenze, o per Urbino, forse erano soltanto provocazioni che faceva a se stesso, in modo da sentire un desiderio bruciante di ritorno.

Ma questa condizione del vivere lo spazio era  – probabilmente – derivante dall’esperienza del vivere il  tempo.

“ Non scendo a patti/ rifiuto il secolo/ con furia delicata”.

Nel tempo poeticamente ed esteticamente misero, Ercole D’Andrea viveva con il disagio di uno straniero che non comprende i linguaggi, che non sente richiami, che si disorienta nelle strade troppo anonime, troppo grandi, sommerse da una folla solitaria.

Allora elabora un proprio presente  di parole.

Sospeso.  Mitico. Separato da qualsiasi altro tempo presente.

In questo presente colloca lo spazio: quello spazio che gli dà motivo e materia di poesia.

Lo spazio è una casa tra grata e gelsomino; una casa che è “quasi una leggenda”.

Probabilmente questo verso contiene il senso intimo  (una poetica segreta aspirazione),  che D’Andrea attribuisce allo spazio di quella casa e al tempo di quello spazio. La leggenda ha sempre un’origine indefinita, un tempo svincolato da ogni cronologia e quindi indifferentemente identificabile come passato, presente, futuro, in relazione ai significati che si vogliono consegnare agli accadimenti e ai personaggi della leggenda. E in questa dimensione spaziale e temporale, in questa rarefazione di leggenda, D’Andrea consuma il suo quotidiano continuo  monologo con le care  presenze: con i vivi che con lui abitano la casa; con i morti che condividono i destini dei vivi attraverso il ponte del ricordo saldamente legato alle due sponde.

Nessuno è mai davvero andato via da quello spazio e da quel tempo.

La morte non ha mai sciolto nessun nodo. La poesia resuscita gli esseri, li riporta alle faccende di ogni giorno. Tutto è sempre vero perché forse  niente è  assolutamente vero. Tutto e una mistione di realtà e immaginazione. Come in una leggenda.

Ogni cosa è sempre prossima alla fine, nella poesia di Ercole D’Andrea: ogni corpo, ogni passo, ogni sguardo, hanno sempre un rapporto con la fine. I fiori, i grilli fra le case, il mandorlo, l’alba, la foglia, il passero sul davanzale, tutto precipita verso la fine.

E’ poesia che dice la consapevolezza, a tratti angosciosa, della fragilità dell’esistenza, che dice lo sbigottimento, la rassegnazione davanti allo sgretolarsi delle creature, al dissiparsi delle loro storie.

La morte si affaccia nel paesaggio discretamente o con prepotenza, affiora dalle pagine di un libro, si insinua dentro un verso come similitudine o metafora, assume le sembianze di un perduto affetto.

Tutto è preda dell’effimero e tutto si eleva per  l’ eterno. Ma l’eterno non è altro che una rivelazione della realtà: è lo stupore che viene da un ricordo, dai fenomeni delle stagioni, da un abbaglio, dai colori del cielo o di un’icona.

L’eterno è nella metafora del mare, nel desiderio di un senso d’infinito, indefinito, sconfinato: “Ditemi: prima di morire/ avrò varcato il mare?”.

Prima di morire: l’eterno, quindi, è un’ansia che attraversa l’esistenza, che non sta dopo, oltre, ma dentro, nelle profondità.

Il tempo della poesia di Ercole D’Andrea, non è che continua replica: tutto quello che accade è già accaduto; ogni pensiero è già stato pensato; i giorni e le notti sono soltanto la copia – copia annerita- dei giorni e delle notti che sono ormai stati.

Una figura di madre va e viene tra il tutto e il niente, l’effimero e l’eterno, tra la vita e la morte, tra il presente e il passato, tra la veglia ed il sonno, tra una ragione e un incanto.

Creatura di cielo e di terra, la madre è l’incarnazione dell’idea del tempo, il punto di riferimento nella spazio quotidiano, l’archetipo dell’origine dell’universo.

Da una figura di madre D’Andrea ha in dono temi, motivi, modelli culturali, significati che vengono continuamente caricati di valenze nuove e poi rinviati alla madre stessa, forma primitiva ed esemplare, che li accumula, li stratifica, li pone in relazione.

La madre è un codice dell’esistenza; è un reticolo segnino, un testo fluttuante, in continua espansione.

Ed è verso questa forma, verso questa figura, che si orienta la ricerca del senso dell’esistenza; in essa si cercano le ragioni, si generano le domande e le risposte, si indagano i rapporti con il passato, con la propria storia e con quella dell’altro; è questa figura che muove il desiderio di conoscenza che poi si realizza – o tenta di realizzarsi – con un gesto di tradimento: “la madre racconta, ma il figlio/ vuole vedere il mare,/ la prima stella sul mare/ e lascia il pozzo bianco al verdeoro della campagna”.

Al figlio non basta più il racconto della madre, la sua conoscenza, la sua esperienza. Vuole cercare altre storie da aggiungere, da sovrapporre, da confrontare, da stringere, da tramandare con le sillabe di una poesia. Per l’istante che una poesia può durare.

(2012)

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