Estate salentina 2018: un bilancio critico

di Gigi Montonato

Diciamocelo francamente, a prescindere se quel che diciamo sia politicamente corretto o scorretto, conveniente o sconveniente. Mettiamo da parte una volta gli infingimenti e le ipocrisie.

A noi salentini le torme di turisti che invadono i nostri luoghi, sacri alla nostra quiete, danno fastidio e ci rendono il nostro ambiente alieno al punto che chi può se ne va altrove a vivere i tre mesi dell’estate, da giugno a settembre.

Sempre più persone che da anni hanno una casetta al mare, comprata o costruita in una campagna ereditata dai genitori e realizzata coi risparmi di una vita, durante il periodo vacanziero perdono le condizioni della quiete e gli spazi materiali, starei per dire vitali, per vivere senza ansie di sovraffollamento e aggressioni ambientali. Un enorme e crescente concorso di gente in quel periodo arriva da ogni parte d’Italia, perfino dalla Campania e addirittura da altre parti della Puglia, e invade il territorio, urbano e rivierasco, con tutte le conseguenze aggravate dall’impreparazione delle amministrazioni comunali a gestire il fenomeno.

Se per un verso la scelta di tanti italiani e stranieri di passare le vacanze qui da noi ci lusinga e ci fa piacere, per un altro ci inquieta, perché significa che per tutto il periodo delle cosiddette ferie noi salentini, di casa, ci sentiamo espropriati della nostra vivibilità. Traffico caotico e intasato, rumori di notte e di giorno; prezzi dei nostri prodotti tipici (verdure, frutta, formaggi, frise, pesce) alle stelle; tempi di attesa di ore nei servizi pubblici; parcheggi zero. A soffrirne non sono solo i residenti ma anche gli stessi turisti, che molto spesso vengono “rapinati” per una frisa al pomodoro o per un piatto di spaghetti alle cozze.

A tutto questo si aggiunge la politica delle amministrazioni comunali di concedere la riviera a privati cittadini per costruire lidi, che di fatto impediscono ai residenti di fruire di quegli spazi naturali, che dovrebbero essere inalienabili. Dove prima c’era il lungomare oggi c’è il lungolidi, una barriera che non ti fa vedere il mare neppure di passaggio. Andare a Leuca, tanto per fare un esempio, per credere.

L’obiezione è che il turismo è una risorsa economica importante per noi che non abbiamo strutture produttive adeguate e sufficienti per fare fronte alle sempre più complesse e crescenti necessità di vita.

Ma, a quel che si riscontra, alla fine di ogni stagione, è che gli introiti non sono soddisfacenti, che il turismo mordi e fuggi e peggio ancora di rapina, con tutti i fenomeni malavitosi connessi (spaccio di droghe, furti in casa, sporcizie pubbliche diffuse) non compensa affatto quel che si perde in vivibilità. Non pare che le pubbliche amministrazioni traggano dal fenomeno turistico grandi benefici economici.

Chi al turismo non è per niente collegato – e si tratta della gran parte della popolazione – ché riceve in compenso? Nulla. Si trova, anzi, ad un bivio: andar via per tutto il periodo o patire tutto il disastro del disordine. La stessa popolazione, che prima d’estate se ne andava al mare o in campagna, oggi non sa come riposarsi. Nel paese e nelle città, dove uno potrebbe rifugiarsi facendo a ritroso il percorso di una volta, la situazione è appena appena migliore.

La seconda obiezione è che noi salentini non possiamo essere gli unici al mondo a rinunciare al turismo, che evidentemente non è solo un fatto di soldi ma più in generale di civiltà.

Ebbene. La risposta a quest’ultima obiezione è no! Peccato che la scrittura non sia sonora, per farlo anche sentire il no. Non dobbiamo affatto bandire il turismo – ci mancherebbe altro – sarebbe una cosa assurda oltreché impossibile. Viva il turismo! Che sia sostenibile, però!

Che significa? Significa che dovremmo accogliere i turisti che le nostre strutture ricettive sono in grado di accogliere. Chi accoglie i turisti? Chiedo scusa per il carattere catechistico di questo mio procedere. Gli alberghi, le pensioni, le strutture agroturistiche, i B&B. Le autorità preposte sono in grado di sapere quanti sono i posti letto in offerta; hanno tutti i dati in loro possesso. A questi si aggiungono i privati cittadini, che danno in affitto – e sono liberi di farlo – le loro case. Non dovrebbe essere difficile chiedere loro di comunicarlo formalmente agli uffici competenti ogni anno entro una data precisa, magari attraverso le agenzie immobiliari, peraltro più facilmente controllabili. In questa maniera le pubbliche amministrazioni saprebbero quanti turisti il territorio sarebbe in grado di accogliere.

Un turismo del genere sarebbe sostenibilissimo e la gente del luogo – non solo gli operatori interessati – avrebbe piacere di averlo, non solo per soddisfare l’innata disponibilità dell’uomo di incontrare e conoscere altri ma anche di dare al territorio impulsi di crescita e di miglioramento dei servizi, senza perdere i suoi caratteri di mondo quieto.

Non è, questa, una predica alla luna; è la normalissima aspirazione di gente che ha il diritto di vivere nel migliore dei modi che la natura e la storia le consentono.

Ciò detto, non si può non tornare sulla questione economica. Il Salento, che si pregia di avere il sole, il mare, il vento – fattori questi tutti naturali – dovrebbe darsi da fare per avere anche qualcosa di suo, voglio dire frutto dell’ingegno e del lavoro umani; ovvero una qualche autonomia economica. Il che sarebbe possibile creando aziende compatibili col territorio, come coltivazione della terra e trasformazione dei prodotti in loco. Ce ne sono di queste aziende, ma sono poche e stentano a crescere. Questa è la nostra strada, oltre quello che offre il mondo dell’elettronica, e tanti altri settori della produzione che non hanno un impatto ambientale negativo.

Il caso Gallipoli, che quest’anno ha registrato un calo di turisti fino al 60%, è emblematico: ha voluto fare l’Ibiza d’Italia, la Rimini del Sud, senza avere strutture e cultura turistica adeguate. E’ bastato che le autorità chiudessero due locali perché la bolla turistica si sgonfiasse. Forse con qualche sospiro di sollievo della popolazione residente, che l’anno scorso dovette assistere a cose ignobili, giovani che dormivano sui balconi e sui marciapiedi come lanzichenecchi in una città saccheggiata.

Le masserie della nostra campagna, una volta centri di lavoro, trasformate in luoghi di piacere, agroturistici, dopo essere state stravolte dall’originaria struttura architettonica, non ci rappresentano bene dal punto di vista culturale ed economico. Sono il simbolo della nostra rinuncia a lavorare. Quelli che prima erano luoghi di lavoro, produttivo, templi di sacrifici e di sudori, modelli di produzione e di difesa, oggi sono luoghi di piacere. Essi fanno sì economia, creano ricchezza, ma questa non dipende soltanto da noi. E’ aleatoria; dipende da altri, da chi viene da fuori.

Il Salento deve premunirsi di risorse proprie, poter fare anche a meno della ricchezza che ci viene dagli altri. Se un bel giorno per una disgraziata congiuntura i turisti non venissero più o non venissero nel numero conveniente per una ricaduta positiva dei conti, che faremmo?

Ma è anche importante che i nostri operatoiri economici la smettessero di volersi arricchire in breve tempo sulle spalle dei turisti per un verso, dei cittadini residenti per un altro e degli enti pubblici per un altro ancora. Questo, in definitiva, fanno quanti abusivamente in tutto o in parte entrano nel processo turistico per prendere quanto più possibile e dare il meno possibile o niente addirittura.

Un territorio, la cui economia non ha basi in una produttività propria, corretta e rispettosa, è destinato al sottosviluppo o alla dipendenza.

[“Presenza taurisanese” anno XXXVI n. 304 – Settembre 2018, p. 2]

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