Le “appannate visioni” di Pasquale Geusa

di Pietro Giannini

Le Appannate visioni, di cui nel titolo della raccolta poetica di Pasquale Geusa (Lecce, Edizioni Milella, 2018), sono le visioni offuscate, non chiare, che restano al poeta dall’osservazione della realtà. Questa si presenta turbata da “banchi di nebbia”, “cortine di fumo”, “vetri smerigliati”: così nella poesia introduttiva che, condividendo il titolo del libro, acquista il valore di una dichiarazione di poetica. Le ragioni di questo ‘appannamento’ sono, da una parte, l’intrinseca natura della realtà, dall’altra, l’atteggiamento del poeta che spesso è turbato da “lacrime interiori”. In questa condizione, il suo compito è quello di cercare di penetrare nella nebbia della realtà con la forza della parola, di chiarirla, di renderla semanticamente riconoscibile (è quanto si sostiene nella ‘Introduzione’ al volume).

Il risultato di questo sforzo espressivo è appunto la silloge di poesie di cui stiamo parlando. I componimenti si presentano senza un ordine stabilito (forse solo cronologico), tranne la poesia introduttiva, di cui abbiamo detto. Per il resto i testi si susseguono l’uno all’altro in modo casuale, seguendo solo gli “impulsi dell’anima”, come l’Autore precisa nell’Introduzione. L’unico dato costante che è possibile rilevare in tutta la raccolta è il fatto che in genere i componimenti nascono da occasionali osservazioni della realtà per poi elevarsi a riflessioni di carattere generale. Un esempio di questo procedimento è in Salice piangente (p. 24):

Sempre ricurvo/ stai/ salice piangente./ Quella posizione lacrimosa/ non è conscia dei prodotti/ che derivano dalla tue specie:/ ceste da vimini, pali, foraggio, pelli, materiale da tintura./ Già fermo sei utile/ per consolidare i terreni./ Oh, salice piangente!/ Come te tanti uomini stanno/ a capo chino/ frustrati,/ eppur non valorizzano/ e non vedono/ le loro virtù”.

Come si vede, si parte da una descrizione quasi oggettiva della pianta e delle sue funzioni fisiche, per approdare alla fine ad una considerazione che riguarda gli uomini.

Il tono degli ultimi versi ci dà una cifra sentimentale che ritorna in altri luoghi, dove si accenna alla condizione esistenziale dell’uomo, limitato da “alte barriere, muri invalicabili” (Oltre lo sguardo, p. 41) oppure da “alti fossati” (Prigionia, p. 46): una condizione che egli può superare con la fantasia e l’immaginazione, le quali restituiscono all’uomo la sua libertà.

Il ‘male di vivere’ di cui il poeta si fa portavoce è bene espresso nella lirica Noia (p. 23):

“Ti riveste del suo vestito grigio/ nelle attese interminabili,/ nei pomeriggi spompi di domenica,/mentre cerchi un lavoro/ e non sai dove sbattere la testa/ per occupare il tempo,/ nello zapping della TV,/ nella solitudine che non t’abbandona./ E’ una tristezza/ che t’opprime il petto/ e non ti fa respirare/ aria pura./ La sua presenza/ a lungo andar/ ti uccide.”

Dal testo si evince che lo stato d’animo negativo non è esistenziale, ma è contingente, legato alle difficoltà della vita.

Questo atteggiamento negativo si accentua in componimenti successivi (anche cronologicamente?) a costituire una climax che sembra riguardare altre persone o almeno entità astratte. Così in Ragazzo triste (p. 49):

“In letargo la gioia/ della tua vita./ Non una luce,/ un piccolo lumicino/ che rinfocoli la speranza./ D’allegria in te nessuna semenza,/ né di bene alcuna conoscenza./ trascorri il tempo così:/ senza possibilità di cambiamento.”

Ma poi in Sentieri inviolabili (p. 52):

“Senza orma né macchia./ Vuoti,/ liberi da ogni presenza vivente/ sono i sentieri del tuo cuore./ Non esiste veleno/ che possa ucciderlo/ se tu non lo versi addosso./ Ogni gesto d’amore/ è una goccia di rugiada/ che lo disseta/ come la luce del mattino./ In quest’angolo nascosto del mondo/ trovi pace e conforto./ Solo tu puoi avervi accesso:/ le coltellate altrui/ sono la vetrina della tua inettitudine/ nell’allontanare il male/ dalla tua roccaforte di pace.”

E, infine, in Lacrime a secco ( p. 87):

“Vuote, nude, senza consistenza/ sono quelle lacrime/ che il dolore ha annientato/ per frustrazione e imposizione./ Quale sfogo, quale via d’uscita/ per questa malattia/ che provoca la siccità dell’anima,/ non la pulisce/ ma reca macchie indelebili/ che provocano sempre di più/ sottomissione all’altrui volontà.”

In questo momento non ci sono più nemmeno le lacrime che possono dare conforto (si  veda, a contrasto, la loro funzione rigeneratrice in Pioggia sopra citata).

Tuttavia il ‘male di vivere’ non esaurisce la vena poetica di Geusa. Infatti i temi da lui trattati sono molto vari ed è difficile darne un resoconto analitico: ogni componimento vive nella sua singolarità e nella concreta lettura.

Tentando di dare una visione riassuntiva del contenuto del libro, possiamo dire che un tema ricorrente è la natura, vista come elemento che dà consolazione e gioia. Così in L’uomo e il mare (p. 65) dove “i pesci e le alghe,/ la fauna e la flora/ che questo grande fratello blu/ contiene/ concorrono a farti sentire/ in armonia con la natura/ e con il cosmo, uomo”.

O ancora in Arcobaleno (p. 21):

“Spettacolo variopinto/ e multiforme/ si presenta ai miei occhi./ Papaveri, margherite, violette,/ grano, erba dei campi./ In questo scorrere veloce/ da un oblò a quattro ruote/ si dà via a giochi di luce/ e colori./ Verde, giallo, blu,/poi rosso, giallo, arancione,/ e di fronte a quest’arcobaleno della natura/ io resto muto/ d’incanto.”

Altre volte lo spettacolo della natura offre lo spunto per riflessioni più o meno amare sulla vita. In Pioggia (p. 85) il paragone, abbastanza scontato, tra la pioggia ed il pianto mette l’accento sulle potenzialità rinnovatrici che essi rappresentano, l’una sul rinnovarsi della natura, l’altro sulla rinascita dell’uomo:

“Un’orda di lacrime/ si posa sul terreno/ per irrorarlo,/ per irrigarlo./ Lo umidifica/ e così/ contribuisce al fiorire della vita./ Anche gli uomini, in fondo,/ quando piangono/ sfogano/ e rinnovano/ quel che hanno dentro”.

Le riflessioni sono espresse sempre in forma impersonale. Solo raramente il poeta si lascia andare a sfoghi esplicitamente personali. Lo fa, ad esempio, con La ragazza dai capelli rossi (p. 95) dove la donna oggetto dei suoi sentimenti è caratterizzata con i colori del suo viso:

“Papaveri, pomodori/ e la luce del sole/ al crepuscolo/ sono in te./ Quelle lentiggini/ come stelle nere nel firmamento/ sono sormontate/ da due zaffiri verdi, /come l’erba del prato. Quanto ti ho sognato/ e agognato regina,/ che non necessità di corona/ di vivere assieme a te/ nell’eternità”.

Infine, non mancano nei versi di Geusa accenni al ‘mestiere’ di poeta. I poeti sono per lui “produttori di emozioni” (Appannate visioni, p. 13), i loro versi devono colpire il lettore “come un diretto” (Inchiostro, p. 18), l’ispirazione è un impulso interiore cui non si può resistere. Per questo si veda Le doglie dell’anima (p. 58):

“C’è qualcosa che spinge,/ e tu non sai cos’è./ Informe,/ incolore/, senza alcuna caratteristica intrinseca./ Eppure spinge. Spinge. Spinge./ E tu non sai farlo uscire fuori/ sebbene fosse lì/ dentro di te./ Ti chiede la vita/ ma la sua voce è mistero,/ inconscio,/ infinito./ Sta a noi dargli forma/ attraverso la parola”.

I versi esprimono con una certa efficacia (vedi la triplice ripetizione di “spinge”) il travaglio della creazione poetica che è chiamata a dare forma linguistica ad impulsi emotivi “informi”.

Possiamo dire che l’urgenza espressiva di Geusa si è tradotta, in questi componimenti, in un dettato sincero, piano, che si discosta poco dalla prosa. Ma, pur adottando il verso libero, Geusa non rinuncia alle risorse del ritmo, tagliando i versi in modo che essi mantengano una certa musicalità, che è quella naturale della lingua.

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