Il rogo dei libri: la lettura come atto di libertà

di Paolo Maria Mariano

Immaginateli: in migliaia s’apprestano frenetici a recitare un canovaccio che prevede il rogo di libri, un gesto che vuole dichiaratamente essere al tempo stesso simbolico e catartico. Accadde tra il 10 maggio ed il 21 giugno 1933, talvolta con declamata ritualità, come fu per Berlino, dove vennero arsi circa ventimila volumi trasportati su camion e preceduti da musiche, talaltra in modo più carnascialesco, come in altre delle trenta città universitarie tedesche coinvolte. Immaginate ancora i volti resi stolidi, taluni dalla costrizione dovuta al timore che spinge ad essere gregge, altri dal convincimento, altri ancora dall’istinto d’acquisire potere (per tendenza innata, per rabbia da frustrazione, per mero interesse) e forse soprattutto da sfrenata euforia, quella dovuta alla perdita dei freni inibitori, volti che nella Opernplatz di Berlino (la piazza dell’Opera) ascoltarono il primo giorno del periodo dei roghi il discorso di Paul Joseph Goebbels. Il propagandista declamò il valore simbolico del gesto in vista di un futuro in cui (almeno nel suo dire) il cittadino tedesco non sarebbe stato e soprattutto non sarebbe dovuto essere “un uomo di libri”. C’erano in quella piazza le Sturm Abteilungen (SA), i gruppi paramilitari di Ernst Röhm, che erano il braccio armato del partito nazionalsocialista  e che ormai a quel tempo avevano raggiunto i due milioni in numerosità, c’erano le Schutzstaffel (SS) di Heinrich Himmler, reclutate tra le SA per costituire la guardia personale di Hitler che era a capo del governo dal gennaio di quell’anno, e che aveva già fatto sospendere le garanzie costituzionali e posto la magistratura sotto controllo, prevedendo che il criterio di legalità fosse espresso solo dalla sua persona, c’erano studenti a cui Goebbels attribuì, lodandoli, l’iniziativa dei roghi, ed infine professori. Per questi ultimi, che avevano marciato con gli studenti in una processione che precedeva i libri destinati alle fiamme, mi sembra di poter dire che dei professori avevano solo il nome, non la qualità che si dovrebbe richiedere a chi a quel titolo ambisce o quel ruolo ha già. Per gli altri la Storia ha ampiamente provveduto ad emettere l’inevitabile giudizio.

Nel rogo finirono scritti che contenevano idee non congrue con quanto pareva convenire alla tipologia di regime che si instaurava (si è sempre in un regime, infatti, la questione cruciale è di quale tipo si tratti). La lista degli autori dei libri arsi comprende, in ordine sparso, Theodor Wiesengrund Adorno, Ernst Bloch, Ludwig Wittgenstein, Albert Einstein, Sigmund Freud, Edmund Husserl, Max Weber, Walter Benjamin, Hannah Arendt, Eric Fromm, e tanti altri, fin troppi. Erano tutti rappresentanti di quella cultura tedesca che attraversava un periodo d’inusitata creatività ma che forse non era riuscita a riversarsi in una maniera adeguatamente costruttiva nella qualità del sistema educativo, se si guarda al percorso che portò a quella storia naturale della distruzione (per parafrasare in senso più esteso un titolo di Winfried Sebald) che ha caratterizzato la prima parte del secolo scorso. Comunque vi era già critica circostanziata alla direzione intrapresa dal sistema educativo tedesco. Qualche anno prima, nel 1931, Ernst Robert Curtius, filologo attratto dallo sviluppo delle idee nella vicina Francia, anche per le sue origini alsaziane, firmava sulla Die Neue Rundschau, una rivista svizzera, un saggio che intitolava “Abbau der Bildung”, letteralmente “abbattimento della formazione”, che l’Editore Aragno ha riproposto nel 2010 con il titolo “L’abbandono della cultura”. Lungo le linee di un generale paragone tra l’integrazione che egli rilevava in Francia tra sviluppo culturale e cognizione dello Stato e della propria tradizione, Curtius registrava come la gioventù tedesca leggesse in quel periodo soltanto ciò che veniva “consigliato in foglietti di associazioni di lega o politico-partitici” e ricordava come, ad esempio, il ministro prussiano della pubblica istruzione, nel discorso di apertura del museo Pergamon, sostenesse che non fosse propriamente più da giustificare la cura dell’arte antica. Si era progressivamente persa, quindi, una visione culturale ampia, lo stesso desiderio di essa. Tutto ciò era funzionale al controllo della società. È la ricerca di un potere privo di etica che avversa i libri ed ha in sé l’enfatico disprezzo per una formazione culturale sostanzialmente formativa, vasta, e non solo meramente informativa. “Però ricordati di impadronirti prima dei suoi libri; senza di essi egli è solo uno sciocco come me, e nessuno spirito potrebbe obbedirgli. Solo i suoi libri, devi bruciare.” È questo il consiglio che Calibano offre a Trinculo e Stephano per togliere l’isola a Prospero. È “La Tempesta”. È William Shakespeare, con cui tutti noi dobbiamo fare i conti quando scriviamo, come non si stanca di ripetere da anni Harold Bloom.

Nel 1950, tra altre cose Jorge Luis Borges scrisse quanto segue: “lessi, giorni addietro, che l’uomo che ordinò l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel Primo Imperatore, Shih Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui. […] Bruciare i libri ed erigere fortificazioni è compito comune dei principi; la sola cosa singolare in Shih Huang Ti fu la scala sulla quale operò”. Forse, per accettare la generalità dell’affermazione di Borges, non serve neanche ricordare altri esempi quali i libri bruciati dall’Inquisizione spagnola, la distruzione sistematica della Biblioteca Nazionale bosniaca da parte dell’aeronautica serba nel 1992 o infine, giusto per interrompere la lista, l’incendio della biblioteca di Baghdad nel 2003.

La lettura è l’antidoto alla massificazione bruta. Sviluppa lo spirito critico, la sensibilità naturale del singolo, la coscienza del ruolo sociale delle istituzioni. Non lascia mai soli ed al contempo permette di rimanere soli con se stessi a pensare. Ma lettura di cosa? Nel 1644, John Milton, poeta, in uno dei suoi scritti con intenti politici, l’Areopagitica, scrisse che “uccidere un buon libro equivale a uccidere un essere umano; chi uccide un essere umano uccide una creatura ragionevole, l’immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione medesima”. Il punto sta proprio nell’aggettivo “buono” che implica la necessità di un giudizio di valore. Per esso sono necessarie sensibilità, competenza, onestà intellettuale. La prima è un istinto naturale che non si acquista in nessun mercato. La seconda richiede dedizione ed impegno. La terza è una qualità etica che pretende anche la capacità di andare oltre i limiti della propria psicologia. Trovare tutte queste caratteristiche in quantità adeguata nella stessa persona che sia impegnata in un giudizio di qualità che riguardi la formazione culturale non è impresa banale. Il percorso di scelta delle letture “buone” è quindi arduo. È fatto di tentativi, di ripensamenti, di costanza. Ha bisogno del lavacro del tempo. La lettura, infatti, non è un’attività passiva. Ciascuno di noi si accosta al libro con il proprio bagaglio di esperienze e rimane più o meno avvinto da ciò che vi trova in base al suo stato d’animo ed alla capacità di comprensione del momento. Ha, cioè, pre-comprensione, direbbe Hans Georg Gadamer. Ma quest’ultima viene alterata in un processo dinamico dalla lettura stessa. “Se l’evento della lettura è l’incontro di due solitudini, ognuna di esse risulta popolata da una molteplicità senza termine di voci e di ombre misteriosamente solidali lungo la trama temporale cui è inevitabilmente legata anche la nostra ricerca di senso nelle parole del passato”, annota Ezio Raimondi nel suo “Un’etica del lettore”, che il Mulino ha proposto nel 2007. E le modalità di lettura e la maniera di accostarsi alla lettura stessa e dare un senso a quell’atto non sono state sempre le stesse. È possibile, infatti, ricostruire “Una storia della lettura”, un titolo che Feltrinelli ha pubblicato nel 2009 con la firma di Alberto Manguel che ebbe possibilità di istruzione perché da adolescente ebbe la ventura di diventare lettore ad alta voce per Borges, quest’ultimo oramai a quel tempo in una fase avanzata di cecità, stato in cui resse la biblioteca di Buenos Aires, che conteneva allora ottocentomila volumi, ed immaginò quella di Babele, figurandola come un contenitore di tutti i libri possibili a partire da un alfabeto di venticinque lettere, una biblioteca che ai suoi occhi spenti sembrava una ragionevole immagine dell’universo, anzi con esso coincidesse.

Parlando dell’attività del romanziere in una raccolta di scritti “Sulla lettura” (BUR, 2011), Marcel Proust sosteneva che “per opera sua, perdiamo la nostra condizione precedente per conoscere quella del generale, del tessitore, della cantante, del nobile di campagna, la vita nei campi il gioco, la caccia, l’odio, l’amore, la vita degli accampamenti. Per opera sua, noi siamo Napoleone, Savonarola, un contadino, o addirittura – esistenza che avremmo potuto non conoscere mai – siamo noi stessi”. Ma non sono solo i romanzi. Così fa la poesia, così fanno i saggi.

Dal 2000 il 24 marzo è dedicato alla Giornata Nazionale della Lettura. L’intento è di contrastare l’analfabetismo funzionale (la non corretta e completa padronanza della lingua) che si registra in maniera inquietante anche nei mezzi d’informazione.

A tutto ciò credo che si debba aggiungere – come ho cercato di far vedere sin qui – che leggere è un cammino di crescita, è un atto di libertà, e per esso vale la pena accostarsi ad uno scaffale, prendere un buon libro, e leggerlo, infine.

[Trascrizione della lezione tenuta a Galatina il 24 marzo 2012 presso il Liceo Scientifico Statale “Antonio Vallone” da Paolo Maria Mariano, in occasione della Giornata Nazionale per la promozione della Lettura. Pubblicata in “Il Paese Nuovo” di sabato 31 marzo 2012]

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