Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XIII

di Gianluca Virgilio

La coscienza della morte ci ha indotto a scandire il tempo, a pensarlo come finito dentro una dimensione infinita. Del resto, che senso avrebbe avuto pensare al tempo come infinito, se noi moriamo e dunque interrompiamo questo tempo infinito? La morte ci ha insegnato a scandirlo e la paura della morte a sottometterci alla sua tirannia, poiché dobbiamo riconoscere che siamo nati con una data di scadenza, come gli umanoidi replicanti del film Blade Runner. Di qui il nostro destino tragico, che in mille modi, con mille credenze, appellandoci al mito, alla religione, alla filosofia, cerchiamo di evitare o combattere; e alla fine lo accettiamo come si accetta l’inevitabile.

La nostra idea del tempo, dunque, deriva dalla coscienza della morte e dal sentimento della nostra caducità. Il nostro dramma è riposto nella coscienza. Ma cos’è questa coscienza? È forse un sapere certo? Una convinzione? Un dato di realtà? La coscienza è tutte queste cose insieme, ma è anche la modalità principale che rende schiavo l’uomo, schiavo della coscienza. Il pazzo non ha coscienza, su di lui si può agire solo costringendolo dentro una camicia di forza, in quanto il deficit di coscienza lo mantiene libero da ogni schiavitù.  La coscienza è la catena dell’uomo, poiché essa contiene il dramma e la sua irresoluzione. Non c’è catarsi nella coscienza, se non nella misura in cui l’uomo si impegna – così forgiando per sé una nuova catena –  ad appellarsi alle varie credenze, religioni, filosofie, ecc.

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