Se nelle nostre mense si serve il pangasio

di Ferdinando Boero


Quando ero bambino, più di mezzo secolo fa, nelle pescherie di Genova c’era solo pesce pescato in Liguria. A parte lo stoccafisso del Mare del Nord. Oggi, il pesce più venduto è il salmone, allevato in Norvegia, e altri prodotti di acquacoltura, come spigole e orate. I pesci “nostrani” sono sempre più scarsi e più cari, i prodotti ittici devono essere importati. In pochi anni abbiamo depauperato le popolazioni selvatiche e anche in mare, come a terra tantissimo tempo fa, stiamo passando all’allevamento: l’acquacoltura. I mammiferi e uccelli terrestri che cacciavamo erano specie che non generano grandi numeri di nuovi individui ad ogni riproduzione. Se ne vengono uccisi più di quanti se ne producono naturalmente, le popolazioni crollano. Questo vale anche per i pesci, ma nelle aree marine protette le loro popolazioni si riprendono rapidamente. Come si stanno riprendendo i tonni a seguito di politiche restrittive sul loro prelievo. Il motivo è semplice. Le femmine dei pesci producono milioni di uova. La mortalità larvale è altissima ma i numeri di nuovi nati sono comunque elevatissimi. Non tanto, però, da sostenere il prelievo industriale: se si catturano anche gli individui più piccoli, prima che si riproducano, le specie marine fanno la fine di quelle terrestri. La pesca è sostenibile se il ritmo di prelievo è compatibile con il rinnovo delle popolazioni attraverso la riproduzione. Invece, al diminuire delle rese della pesca, abbiamo migliorato le tecniche di prelievo passando dalla pesca artigianale a quella industriale. Il capitale economico per un po’ è aumentato, grazie all’aumentata efficienza dei mezzi di pesca. Poi sono finiti i pesci. Un fenomeno non previsto dalle analisi economiche che, di solito, non considerano l’erosione del capitale naturale: i pesci. I milioni di uova prodotti da ogni femmina, però, ci dicono che, in mare, possiamo rimediare. Dobbiamo pescare con criterio la gamma di specie che il mare ci offre, a cominciare dalle acciughe, lasciando che le specie più grandi si riprendano, come sta avvenendo con i tonni. La pesca soffre della tragedia dei beni comuni: i pesci sono di chi li prende. Si innesca una corsa a chi pesca prima e i pesci sono pescati quando ancora non si sono riprodotti adeguatamente. La pesca misura la salute del mare: se crolla significa che il mare sta male. E’ interesse dei pescatori che il mare stia bene e che i pesci “naturali” tornino sulle nostre tavole. Anche l’acquacoltura deve essere sostenibile, ma non può essere di carnivori: van bene mitili e ostriche che non hanno bisogno di mangimi. C’è bisogno di regole, e possono essere i consumatori ad imporle. Solo che le devono conoscere. Se nelle nostre mense si serve il pangasio e nei ristoranti trionfa il salmone, allora il pubblico non è abbastanza informato su quel che mangia. Il fine di slow fish è proprio di promuovere una cultura che permetta ai consumatori di fare scelte responsabili, per il bene dei pesci, dei pescatori e di tutti noi. 

[“Il Secolo XIX” di domenica 12 maggio 2019]

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