Di mestiere faccio il linguista 13. Dalla volgarità agli insulti

Qualcuno (a mio avviso troppo benevolo) sostiene che la volgarità nei film di Scorsese e di altri non è mai fine a sé stessa, anzi è funzionale al racconto. In Il lupo di Wall Street servirebbe a descrivere un mondo fatto di eccessi, di sesso e di droga che non potrebbe essere spiegato in altri modi o con altre parole. Parolacce e  volgarità servirebbero a rafforzare una certa idea  di realismo, servirebbero a descrivere.  Ma la domanda è: perché altri registi raggiungono lo stesso scopo senza abusare di un certo lessico?

E poi. Dalla rappresentazione cinematografica quel modello entra nella vita quotidiana (non sempre per ottenere effetti di realismo); o forse la direzione è inversa, non so. Non mi rassegno a riconoscere a parole e locuzioni triviali la funzione di intercalare innocuo (come dire, una parola vale l’altra) o di moltiplicatori di espressività (vuoi mettere? è così bello usare le parolacce…).

Dalla volgarità si passa spesso agli insulti, il passo può essere breve. Tocchiamo per questo un altro settore della nostra vita, quello politico. Su Facebook Salvini definisce il presidente Mattarella «complice di scafisti, sfruttatori e schiavisti». Lo cito, facendogli involontariamente pubblicità, ma non è certo unico; succede troppo spesso nei dibattiti televisivi di oggi, che fanno rimpiangere le educate e argomentate (anche se un po’ soporifere) tribune televisive di un tempo. E non succede solo in Italia. Hillary Clinton e Donald Trump arrivano a scambiarsi offese sul piano personale, dimenticando che aspirano alla presidenza della nazione più potente del mondo e uno dei due avrà enormi responsabilità verso il mondo intero.

Poco male (forse) se la mancanza di educazione e la aggressività verbale fossero confinate in cerchie ristrette. Ma così non è: i cattivi modelli sono come le male erbe, proliferano. E la aggressività verbale spesso è accompagnata da comportamenti aggressivi.

Le prediche non servono. La domanda è: si può fare qualcosa di concreto? Avrei un’idea, per cominciare: chiamiamo le cose pessime con il loro nome, evitiamo i camuffamenti.

Sono numerosi i casi di «bullismo», con  conseguenze tragiche; i soggetti deboli o vulnerabili non ce la fanno, soffrono e si suicidano.  Molti giovani si sentono  «bulli», spesso se ne vantano, mettono in rete le loro imprese. Chiamiamo quel comportamento «sopraffazione» e «prevaricazione», definiamo «sopraffattore» e «prevaricatore» chi si comporta in un certo modo. Le cose saranno più chiare.

A volte ricorriamo alla lingua inglese, usiamo le parole «stalking» e «stalker» estranee alla nostra lingua: le capiamo poco, involontariamente contribuiamo a mascherare la brutalità delle azioni. L’etimologia non ci aiuta, il verbo inglese «to stalk» significa ‘camminare con circospezione’, quasi il comportamento di uno che si muove discretamente per non disturbare. Usiamo invece «violenza» e «violentatore», capiremo tutti meglio.

E infine. Oggi molti parlano di «furbetti», «del quartierino», «del cartellino», ecc. Invece no: chi tenta una frode affaristica o immobiliare,  chi  invece di lavorare va in giro a passeggiare e ruba lo stipendio non è un «furbetto», è un «criminale» (nei casi più gravi) o uno «scansafatiche» o un «nullafacente», chiamiamoli così.

I mezzi di comunicazione possono dare l’esempio, cominciamo noi. Usare bene la lingua aiuta a capire cosa succede nella società, quindi contribuisce a migliorarla.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di sabato 8 ottobre 2016]

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (prima serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *