Di mestiere faccio il linguista (terza serie) 1. La lingua italiana

di Rosario Coluccia


Il principe di Metternich in un ritratto di Thomas Lawrence del 1815, Kunsthistorisches Museum

Dopo una pausa di alcuni mesi (pochi? molti?), in coincidenza con l’arrivo della stagione che meglio si adatta al titolo della rubrica, torna «Parole al sole». La rubrica parla della lingua italiana, considerata nella varietà delle sue manifestazioni, apprezzata nella dinamicità dell’uso che ne fanno parlanti e scriventi, vista nei rapporti di dare e avere con le lingue straniere e con i dialetti. La lingua più di ogni altra facoltà ci appartiene e ci caratterizza. È esclusiva del cervello umano, per questo differiamo dagli animali, da tutti gli altri esseri viventi. Siamo sempre immersi nella lingua, durante l’intera giornata parliamo, ascoltiamo, leggiamo, scriviamo. Con tutti i mezzi possibili, antichi e nuovi, compreso l’onnipresente cellulare. Anche di notte comunichiamo con le persone, carissime o a volte sconosciute, che vengono a popolare i nostri sogni.

È un fenomeno individuale e collettivo, che ci coinvolge tutti. Quindi risulta naturale riflettere sulla lingua, nostra e degli altri. Dove sta andando l’italiano? È vero che non è più quello di una volta, che la scuola non insegna più a parlare e a scrivere correttamente, che gli scritti dei concorsi pubblici sono pieni di strafalcioni, che giornali e libri pullulano di sciatteria e badano poco alla limpidezza espressiva? Che troppe parole ed espressioni inglesi si insinuano dappertutto, nell’orale e nello scritto? Quanto incide internet su tutto questo? I dialetti valgono ancora qualcosa o dobbiamo abbandonarli, buttarli via come si fa con gli oggetti vecchi e inservibili? Siamo sempre sicuri di come parliamo e di come scriviamo? Qualche volta, dubbi ci sfiorano e temiamo di commettere errori?

Ci sentiamo tutti italiani perché abbiamo una lingua che ci unisce, dai confini alpini fino alle isole. Lo stato moderno che noi chiamiamo Italia è nato solo nel 1861, dopo un processo lento, che comportò entusiasmi e sacrifici e anche fallimenti, guerre, morti. Siamo arrivati tardi all’unità. Ci hanno preceduto di secoli l’Inghilterra, la Francia, la Spagna, compagini unitarie saldamente organizzate e molto forti. «L’Italia non è che un’espressione geografica» ammoniva una frase famosa attribuita a Klemens von Metternich, dal 1821 al 1848 cancelliere dello stato austriaco, dettata dal tornaconto politico di mantenere divisa la nostra penisola, storicamente frammentata in una serie di piccole entità in conflitto tra loro e in perenne competizione. Una quantità di piccoli stati, spesso di tradizione illustre e a volte di potere non disprezzabile, ma in ogni caso enormemente più deboli rispetto alla forza che potevano vantare le grandi compagini nazionali con cui ci misuravamo. Quindi fatalmente destinati (i piccoli stati d’Italia) a subire la preponderanza (diretta e indiretta) degli altri. Un po’ come succede oggi all’Europa, che alcuni vorrebbero frammentata e disunita, litigiosa al proprio interno, dimentica del sogno di Ventotene, quindi incapace di confrontarsi alla pari con Stati Uniti, Cina, Russia, tanto più forti. Intenzioni dettate da masochismo o da miopia quando vengono da cittadini europei, anche italiani, forse incantati dalle sirene del pressapochismo e del consenso irrazionale, non so giudicare.

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