La bellezza immanente nelle cose che durano

Forse per capire se il nuovo sia bello o non lo sia, risulta necessario  fare la distinzione tra il profondo e il superficiale.  Non è facile capire quale sia davvero il livello delle nostre competenze rispetto a questo argomento. A volte si ha l’impressione che ci si lasci intontire dalla grancassa battuta dalla banda  dei vecchi e nuovi media di massa, dal vociare dei social, dal cianciare assordante delle chat.

Dovremmo imparare a distinguere, a capire. Soprattutto quando  quella che si definisce bellezza riguarda i fatti della cultura, perché quelli sono fatti che determinano la sostanza di una civiltà.

Si deve imparare a distinguere, per non farsi sedurre e imbrogliare dal superficiale che ha la sembianza ma non la sostanza della bellezza.

La sostanza della bellezza consiste nella capacità che ha un’opera di riprodurre i suoi significati.  Il mosaico di Pantaleone nella cattedrale di Otranto, riproduce significati, in ogni tempo. Così la chiesa di San Domenico Maggiore a Taranto, le colonne romane di Brindisi, la grotta del Cavallo e di Uluzzu, la Romanelli di Castro, i  dolmen e i menhir nel loro ininterrotto  dialogo con il cielo, la pietraia dov’era una volta Càsole con i suoi codici spalancati sul Mediterraneo, Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, le torri a strapiombo sul mare. Una bellezza che riconferma e riproduce significati, in situazioni sociali e culturali diverse, anche sottraendosi  alle coordinate storiche,  costituendosi come modello di esperienza, metafora, archetipo.

Allora, forse si deve imparare a capire quali sono le cose che possono resistere all’infuriare del tempo, all’erosione che fa l’oblio, che in qualche modo configurano il nostro pensiero, il nostro linguaggio, la nostra visione del mondo, che rinnovano il senso della storia. Forse non aveva ragione Gioacchino Rossini. Anche il nuovo può essere bello. A condizione che se ne possa prevedere la durata, e la durata si può prevedere soltanto percependo e indagando la profondità del nuovo, ipotizzando la sua assimilazione nella nostra esperienza, nella nostra conoscenza.

Ogni giorno ci si ritrova davanti a qualcosa di nuovo: un oggetto, una parola, una proposta, un prodotto, una teoria, un metodo,  anche un’idea.  Ogni giorno si dismette qualcosa che solo il giorno prima era nuovo. Anche una nuova idea: quella per la quale si era giurato di non smettere di crederci mai.

Non è il vecchio o il nuovo, l’antico o il moderno, il presente o il passato che producono la bellezza di qualcosa. E’ la  consistenza dell’ opera. Consistenza vuol dire  qualità,  spessore,  compattezza,  rilevanza, densità; vuol dire  il valore  che qualcosa assume nell’età e  nei contesti ai quali appartiene, i riflessi che riesce a spandere oltre quell’età, oltre quei contesti.

Non possiamo essere noi, forse, a decidere se il nuovo che ci circonda abbia o  non abbia una bellezza. Se le nuove costruzioni, i nuovi dipinti, le statue, le filosofie, le musiche, le sculture, le poesie di questi tempi, le narrazioni di questi tempi, abbiano o non abbiano bellezza. Decideranno quelli che verranno. Se le cose che produciamo in questo tempo saranno per loro un punto di riferimento, allora significherà che sono belle. Se non saranno belle, non arriveranno a loro, sprofonderanno nella botola senza fondo dell’oblio.

Come per ogni cosa che è opera dell’uomo, anche la bellezza si affida al giudizio inappellabile del tempo.

La bellezza di  tutto quello che non è opera dell’uomo, non è sottoposta mai a nessun giudizio. E’ bellezza sovrumana, quindi assoluta, inconfutabile.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 16 aprile 2023]

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