Tra Carmelo Bene e Vittorio Bodini: Barocco del Sud (parte prima)

di Antonio Lucio Giannone

Vittorio Bodini e Carmelo Bene si conobbero negli anni Sessanta a Roma dove entrambi, di origine salentina, vivevano. Proprio nella capitale Bene, più giovane di ventitré anni rispetto a Bodini, alla fine del decennio precedente aveva fatto il suo esordio fulminante in campo teatrale, sconvolgendo gli schemi tradizionali della recitazione e della rappresentazione. Bodini, invece, si era trasferito lì nel 1960, continuando la sua attività di ispanista e di poeta e pubblicando le sue opere con le maggiori case editrici italiane (Einaudi e Mondadori). Era quindi inevitabile l’incontro tra i due, che era fatto di un’assidua frequentazione e di lunghe, accanite discussioni su temi di arte e letteratura. Lo stesso Bene, d’altra parte, ha ricordato, sia pure rapidamente, l’amico in un paio di occasioni. In uno scritto intitolato “Eusebio”, che fa parte del volume Sono apparso alla Madonna, del 1983, rievocando, non senza una punta di beffarda irrisione, Montale (chiamato, appunto, Eusebio dagli amici) e il suo hobby per la pittura, accennava anche alla presenza di Bodini, l’«indimenticabile Vittorio», il «Bodini-dimonio», oltre che di altri artisti come, in una occasione, il grande scultore inglese Henry Moore, durante i loro incontri estivi in Versilia:

Quanto a me, l’Eusebio – per gli amici, l’ho frequentato, suo e mio malgrado, una ben quindicina estiva d’anni in Versilia. Mi chiamava Malvolio, ed ero allora – lui dormiva – un sultano, un dongiovanni.

Certi meriggi, sotto i pergolati di Nino Tirinnanzi pittore, il vate dei disagi balneari imbrattava assai costosa carta da disegno coi fondi del caffè, con l’aranciata e altri impiastri (maldestro abuso d’un sistema tra i tanti dell’allievo di Rosai), ed io col Tirinnanzi e col Bodini – indimenticabile Vittorio – sottoposti a forzato giudizio, si cestinava, impietosi, quell’impoetico acquerello (noi li si comparava alle sue liriche quei giochini visivi del poeta). E Montale, brontolando silenzi, fischiettava ai cieli ariette da baritono, ormai assuefatto a nostra – invocata – villania scherzosa.

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