Jannik Sinner e i molti giovani umili campioni come lui

di Antonio Errico

Si capisce sempre all’ultimo rigore, all’ultimo gong sul ring, sulla linea dell’ultimo traguardo, quando si prende l’ultima curva della pista, quando finisce l’ultima scalata della roccia.  La grandezza di un campione si capisce sempre alla fine: quando il gioco è  tutto già giocato. Si capisce dall’eleganza della conclusione. Dalla sobrietà dello stile.  Dalla dignità.  Jannik Sinner è un’eccezione. La sua grandezza di campione si capisce dal principio. Ha detto che non gioca per la storia, ma per se stesso. Sul piano tecnico bastano poche parole: le ha dette Adriano Panatta, uno che di tennis ne capisce: Sinner è un alieno. Così ha detto, scherzando, ma non troppo. La sua grandezza si capisce dal principio, allora. Perché questo ragazzo di ventidue anni, ha una serietà, una compostezza, una riservatezza affascinanti. Poteva prendersi il palco di Sanremo. Ha detto di no; non voleva distrarsi, doveva lavorare. Sa che per durare ci vuole disciplina, perseveranza, costanza. Si racconta che per arrivare in tempo a scuola prendesse il treno prima dell’alba, che facesse più compiti di quanti ne dovesse fare.

Ma soprattutto è di un’umiltà che sbalordisce. Jannik ha compreso perfettamente che avventure straordinarie come le sue hanno bisogno di passione, sacrificio,  dedizione, preparazione, umiltà. Anche fortuna, certo.  Ma della fortuna non ci si può fidare.  Quella a volte gioca al tuo fianco, a volte a fianco dell’avversario che hai davanti. Non ci si può fidare.

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