Nuova Americana 2. Credere ciecamente: La saggezza nel sangue di Flannery O’Connor

Dunque, uno scrittore del Sud degli Stati Uniti doveva produrre una narrativa che dipingesse quegli scenari grotteschi, doveva farsi profeta “nel vedere in primo piano le cose lontane” (Un ragionevole uso dell’irragionevole, minimum fax, 2019, p. 135). Hazel Motes è ossessionato da una “cristofobia” che diventa nichilismo perché è meglio non credere in nulla che accettare l’esistenza di un Cristo persecutore e punitore dei peccati. Ma quello che si ha nel sangue difficilmente si può lavarlo via e Hazel ha ereditato il “sangue saggio” di suo padre e di suo nonno nel quale Cristo circola incessantemente e, per quanto voglia liberarsene, non fa che incontrarlo. Il suo fanatico nichilismo si scontra con una fede altrettanto estrema alla quale sembra non vi sia scampo, che sembra essere dovunque. Nei luoghi della sua città, negli sguardi dei personaggi bizzarri che la popolano, nelle prostitute, nei vecchi predicatori. O’Connor spiega che il suo romanzo è interamente incentrato sulla redenzione. Solo che la redenzione, per O’ Connor, talvolta risiede nei gesti più orribili. L’incessante fuga da un Cristo ingombrante, sanguinante e sofferente sulla croce, diventa continuo inciampo nella presenza dello stesso, labirinto oscuro nel quale Cristo diviene suo persecutore. La redenzione non può avvenire senza fiducia, senza affidarsi ciecamente alla fede e Hazel Motes, alla fine del romanzo, cede alla sua. Se il mondo che vede non gli piace, se nelle cose che lo circondano, illuminate dalla luce del sole, non riesce a trovare la propria salvezza, se l’uomo è malato e corrotto, se le azioni umane non solo altro che imbarazzanti tentativi di creare soluzioni consolanti all’incomprensibile mistero della vita, allora Hazel Motes sceglie di non posare più il proprio sguardo su tutto questo. Non vuole più guardare il reale, non vuole più vedere i ridicoli tentativi di salvezza che mettono in atto gli uomini, ma sceglie di guardare da un’altra parte, verso una nera profondità, quella del suo animo: “se gli occhi sono senza fondo contengono di più” (p. 195). E si acceca. Compra della calce viva e crudelmente, dolorosamente, si fa autore della propria redenzione. Riconoscendo la propria natura di peccatore, intraprende un percorso di feroce autopunizione. La cecità diventa la sua salvezza e, come moderno Edipo,  si acceca per non vedere più l’orrore del mondo e per potersi perdere nel solo orrore della propria anima. La cecità sarà solo un’anticipazione della morte prossima: esala l’ultimo respiro nell’auto di due poliziotti che lo riportano nel suo alloggio, dopo averlo trovato moribondo “disteso in un canale di scolo accanto a un edificio in costruzione abbandonato” (p. 201). Hazel Motes esce di scena così, fragile figurina sconfitta in una lotta spietata contro se stesso e contro un Cristo che sembra inghiottirlo in un buio infinito.

[“Clinamen”, maggio 2024]

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