Dantisti salentini

di Luigi Scorrano

In un saggio del 1965, intitolato Correnti letterarie e studiosi di Dante in Puglia, così esordiva Aldo Vallone:

“Ad apertura della sua conferenza Dante e la Puglia, tenuta nel Palazzo Comunale di Bari il 25 aprile 1900, pubblicata nello stesso anno nel «Giornale Dantesco», Nicola Zingarelli scriveva: «Manca un articolo Dante e la Puglia». Ne echeggiava la voce, nello stesso anno, Giuseppe Petraglione, annotando: «Nel Salento… gli studi danteschi non hanno mai prosperato». Né, oggi, la situazione è mutata, anche se ad intervalli irregolari altri scritti più generali non sono mancati sull’argomento. Ricordiamo, così per fare qualche nome, i saggi di Francesco Torraca su Il regno di Sicilia nelle opere di Dante, di Corrado Zacchetti su L’Italiameridionale nel pensiero di Dante, di Antonio Masciullo su Studiosi di Dante nel Salento, che, per diverse vie e con metodo diverso, presentano di scorcio o a prima fronte, nelle scarne citazioni o nei grandi silenzi un panorama piuttosto desolante degli studi danteschi in Puglia.”

Diremo che in seguito, oltre la data del 1965, l’attenzione per Dante in Puglia e nel Salento si è intensificata grazie sia ad un più attivo impegno su questo fronte delle Università pugliesi, sia a un drappello di studiosi che con sistematicità o, comunque, con notevole frequenza hanno rivolto la loro attenzione all’opera dantesca. L’Ateneo leccese in questo senso ha potuto vantare la presenza di due dantisti di gran nome come Mario Marti e Aldo Vallone che temi e problemi danteschi hanno affrontato in tanti loro interventi. Né ultimo della piccola ed agguerrita schiera annovererei Enzo Esposito, che sulla mole degli studi danteschi ha costruito preziosi repertori bibliografici, oltre che essere anch’egli interprete dell’opera del poeta fiorentino. E per allargare un poco il campo di osservazione si potranno ricordare i saggi danteschi di Mario Sansone, e quelli di Francesco Tateo una cui linea di sviluppo si continua oggi nell’attività di Domenico Cofano e di più giovani allievi tra Bari e Foggia, come traccia di sé negli studi dei loro allievi hanno lasciato Marti e Vallone (e farei i nomi, per gli allievi di Vallone, di Pasquale Sabbatino – a Napoli, però – e quelli di Ruggiero Stefanelli e di Leonardo Sebastio in Puglia, tra Bari e Taranto). Né trascurerei gli interventi di Michele Dell’Aquila, stesi in una prosa elegante e suggestiva. Oggi lo sguardo di Vallone, ricercando figure di dantisti in Puglia e nel Salento, sarebbe confortato da un numero più sicuro di presenze nel campo dei suoi studi prediletti; e si può dire che l’interesse per Dante è cresciuto per altri stimoli che vengono dalla sua poesia e dallo stato dell’edizione delle sue opere. Né ci meravigliamo di trovare Dante sempre più al centro di letture sceniche o come protagonista di romanzi o come ispiratore di complessi intrecci romanzeschi (e non solo da noi in Italia).

Certo, non sono mancate anche letture isolate di qualche parte del poema dantesco. Non tutte hanno avuto come effetto di orientare chi le ha fatte ad un più continuo impegno nello studio di Dante. Il nostro Ennio Bonea, ad esempio, tenne una lettura dantesca nella Casa di Dante in Roma, ma i suoi interessi erano rivolti esclusivamente alla cultura d’oggi, cui dedicò interamente le sue ricerche. Con partecipazione ed intelligenza profonda del poema s’accostò a Dante il nostro Donato Moro, ma i suoi interessi preminenti erano rivolti allo studio delle fonti otrantine o al Galateo, temi sui quali egli ha sparso tanto lume di conoscenza. Più frequenti gli interventi, oggi raccolti nel volume intitolato Dante maestro (Caramanica Editore, Marina di Minturno, 2009), del napoletano-salentino Bruno Lucrezi.

Alcuni nomi di quelli che ho ricordato portano a Galatina o agli immediati dintorni; e, dunque, siamo in casa e ci stiamo benissimo. Il dantismo mancato che Vallone rilevava attraverso le citazioni di Zingarelli e Petraglione era tale perché, spesso o sempre, non aveva creato continuità; la ricerca dello studioso che lo coltivava non aveva fatto sorgere una scuola (se non sembri presuntuoso parlare di scuola!), al contrario di quanto è accaduto soprattutto con Marti e Vallone nel secondo Novecento o dal sorgere dell’Università in avanti. Il nostro dantismo salentino, con la triade Marti Vallone Esposito è felicemente rappresentato e lascia una traccia fruibile anche nel futuro degli studi danteschi per l’ampiezza della visione, per la mole di contributi prodotti. Dunque è su questi nomi in particolare che si può puntare per individuare una linea del dantismo salentino. E diciamo dantismo salentino non perché cerchiamo, attraverso di esso, una improbabile traccia di presenza di Dante, del poeta in persona, nel Salento (molto ipotetica!), ma perché salentini ne sono gli operatori. Ed è un dantismo che ha fatto scuola, che ha creato aggregazioni senza tradire le scelte personali. I maestri hanno seguito il lavoro dei loro discepoli rispettandone la personalità, condividendo con loro la positività dei risultati. Ed è questo che conta.

Mi soffermerò, dunque, sulla figura di questi tre studiosi le cui esperienze si sono, sì, svolte individualmente, con personale originalità, ma i cui percorsi si sono intrecciati talvolta, talvolta mossi parallelamente, talvolta divaricati per temi e modi di trattarli. Se c’è un motivo unificatore tra queste esperienze diverse e tutte qualificatissime è da cercare nel fondamento filologico delle ricerche, nel saldo riferimento storico che sottrae l’interpretazione ad ogni impressionismo e stabilisce, per le cose dette, un sicuro terreno su cui muoversi.

Esigenza comune, che in Marti trova anche degli addentellati teorici o, almeno, un’idea della critica da rivedere rispetto a quella che era ormai una semplificazione, a volte fuorviante, delle idee e dell’eredità di Croce. Penso ad un suo saggio di cui vale sempre tener conto, Critica letteraria come filologia integrale. Più che di un manifesto teorico si trattava di un esame di coscienza del critico di fronte al proprio concreto operare. E Marti scriveva: «Questa nota non vuole compiutamente trattare argomenti tanto gravi [come, ad es., i rapporti tra individuo e società, tra poesia e tecnica o altri], né tanto meno proporre affrettate ed inconsistenti conclusioni: vuole essere soltanto una spontanea e indifferibile meditazione». Occorreva, secondo Marti, non più ritagliare una fisionomia d’artista soprattutto in quelle che erano (o che sembravano) le sue riuscite ma guardare «alla personalità integrale del poeta» per cogliere nella sua voce l’eco dei grandi ideali civili ma soprattutto la realizzata poesia. Necessario, per Marti, nello studio di un’esperienza poetica, integrare il profilo individuale con quello della società nella quale il poeta vive e della quale interpreta il mondo interiore. Filologia e storia, dunque; rifacendo dall’interno il cammino percorso dall’artista per pervenire ai risultati ch’egli ha raggiunto.

La nota, del 1949, mostra un Marti impegnato a chiarire i processi attraverso i quali egli ricostruirà il cammino di una poesia: ne faranno fede, in momenti diversi, da una parte l’antologia dei Poeti giocosi del tempo di Dante, un volume della collana dei Classici Rizzoli diretti da Maurizio Vitale (e siamo nel 1956), dall’altra la fondamentale Storia dello Stilnuovo, edita a Lecce da Milella (e siamo nel 1973). Sono traguardi ai quali si giunge per tappe successive; ma traguardi che stimolano a ripartire, ad approfondire ulteriormente i risultati conseguiti.

Se vogliamo vedere quando si profila, nei nostri dantisti salentini, l’interesse per i temi danteschi dobbiamo dare un’occhiata alla loro bibliografia.

In Marti dall’anno di avvio (1943) fino al 1948 non appare nulla che porti a Dante sia pure su percorsi non specifici. Ma nel 1949 troviamo un saggio su Guido Cavalcanti e la recensione ad un volume di Alberto Del Monte dedicato a La poesia popolare nel tempo e nella coscienza di Dante. Poi verranno saggi e letture sempre più fitti e Dante diventerà per Marti un autore costantemente frequentato ed acutamente interpretato.

La bibliografia di Vallone ha il suo anno di partenza nel 1933 ma Dante non vi appare che nel 1947 con uno smilzo volumetto pubblicato a Galatina da Pajano, Prime noterelle dantesche. Si apriranno da allora due linee di ricerca che connoteranno l’opera di Vallone fino alla fine della sua attività: da un parte Dante, il suo mondo, l’interpretazione dell’opera; dall’altra, in parallelo, la storia della critica dantesca. I due percorsi culmineranno nei volumi vallardiani Dante (1971) e Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo (1981).

La bibliografia di Enzo Esposito parte dal 1944, ma nessun riferimento dantesco vi appare fino al 1953 quando Esposito pubblica un intervento minimo, Precisazioni su un manoscritto dantesco: un manoscritto di riferimento dantesco conservato nella Biblioteca dell’Università di Barcellona e una scheda dedicata a Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante di Mario Marti. Un impegno dantesco, più specifico e preciso, non limitato a schede di presentazione di opere altrui, arriva solo nel 1962 con una lettura del canto XX del Purgatorio. La produzione dantesca si infittisce a partire dal 1965, con una lettura del c. XXXIII del Paradiso e altri scritti d’argomento dantesco. E del 1965 è un saggio di bibliografia dantesca apparso in un volume miscellaneo dedicato a Dante: La critica dantesca dal 1921 al 1965. Nel 1966 la bibliografia di Esposito registra unicamente voci dantesche e la preminenza di voci dantesche continua almeno fino al 1970, è presente un poco più sporadicamente negli anni seguenti ma culmina nel 1990 con la monumentale Bibliografia analitica degli scritti su Dante. 1950-1970 in quattro tomi) pubblicata a Firenze da Olschki. Altri interventi si avranno in seguito; molte sono, poi, negli anni dopo il 1965, le ‘voci’ redatte per l’Enciclopedia Dantesca della Treccani.

Dante, dunque, per questi nostri studiosi è l’autore che finisce per assumere una centralità della quale altri autori non godranno. Si pensi a Bembo o a Leopardi per Marti; all’ampia campionatura di presenze che attrarrà Vallone storico della “civiltà meridionale” attraverso la letteratura; a figure importanti per la storia dell’attività bibliotecaria come Antonio Panizzi per Esposito. In anni fervidi tutto sembra, per questi studiosi, essere condizionato dall’attenzione che la figura e l’opera di Dante reclamano. E grazie a queste figure si può realmente, oggi, parlare di un dantismo salentino.

Ma è tempo ormai di esporre le loro direzioni di studio, in argomento, attraverso la loro stessa scrittura critica. Marti, in una pagina di Con Dante fra i poeti del suo tempo, spiega che considerare un poeta, un artista, avulso dal proprio tempo è un’illusione. Filologia e critica associate ci dicono altro. Ma sentiamo quello che il critico scrive.

La libertà assoluta e incondizionata di un poeta o di un artista è una mera utopia: anche i più grandi creatori di bellezza e d’armonia sono vissuti nel loro tempo, ne hanno usato e sublimato il linguaggio, riscattando una precisa tecnica sul piano dell’arte e dello stile, ne hanno vissuto la particolare sensibilità e i peculiari problemi, traducendo nei modi della contemporanea bellezza estetica le realtà e le ragioni eterne dell’uomo. […] Così Dante […] è immediatamente riconoscibile – per la sua tecnica, per la sua mentalità, per il suo mondo – come poeta dell’ultimo Medioevo […] che egli riassume nella propria problematica ed esalta nel più alto esemplare della civiltà letteraria di quell’epoca. E anch’egli, come tutti i grandi poeti, opera nel proprio tempo, in un continuo mutuo movimento di dare e di avere, in una sorta di reciproca osmosi, attraverso la quale la potenza demiurgica dell’uomo si rivela, prende corpo, diventa realtà imponente ed emblematica nel tempo e fuori del tempo.

C’è l’accortezza di chi non accetta semplificazioni generali o, ancor più, di chi non cede alla tentazione di una formula passe-partout che risolva in una definizione riassuntiva i problemi critici che un’opera, o una parte di essa, o anche un solo componimento, un verso, una frase un rigo appena pongono al lettore specialista. Croce aveva elaborato formule di questo genere; imitatori e seguaci poco accorti le avevano imbalsamate, depauperate dei loro nuclei più vivi. Avevano reso meccanica la distinzione di poesia-non poesia. Marti, come tanti che pure hanno succhiato buone linfe dal magistero crociano, sente che bisogna uscire da quelle strettoie, interrogare quelli che sembrano i tempi morti di un’opera e provare a rileggere con più acume, o con l’aiuto di nuovi strumenti, opere e pagine condannate. A questa ri-lettura provvedono filologia e storia. Acutamente temi e situazioni dantesche saranno riletti alla luce di più puntuali accertamenti. Così, ad esempio, si penetra con altra sensibilità nella struttura di un canto o di una serie di canti; ci si interroga sulle ragioni di una disposizione della materia poetica che desta perplessità e si dà una risposta acuta, convincente, che recupera alla poesia anche quello che prima ne era escluso. Un esempio, sempre per Marti, può essere tratto da una lettura del canto XVI dell’Inferno. Nella sequenza dei canti XV-XVII, là dove sembra crearsi una frattura immotivata, Marti coglie le intenzioni dell’autore: il trattamento asimmetrico degli episodi che vi sono rappresentati è motivato dalla qualità diversa, dal profilo morale, dei dannati. Ma sentiamo questa pagina di Marti, almeno in qualcuna delle sue linee principali.

…nessuno dei motivi che ne [del c. XVI dell’Inferno] costituiscono […] la fitta tematica, è capace di esaurire in unità l’intero canto XVI: non quello di Firenze, non quello della fama, o della «cortesia e valor», e neanche l’altro dell’incredibile apparizione del mostro. Ricercata in questa direzione, l’unità del canto si apre sempre e necessariamente in bipolarità: da una parte Dante e i fiorentini, e dall’altra Dante e Gerione. Né questa bipolarità può essere ricondotta a unità dal taglio del racconto poetico o dall’equilibrio narrativo, elementi stilistici generalmente validi e non certo caratterizzanti, pur se siffatta bipolarità sia considerata in stretto rapporto dinamico. Intanto ci si potrebbe chiedere perché mai Dante abbia in effetti anticipato a questo canto l’attesa di Gerione, simbolo della frode e custode del cerchio dei frodolenti, e abbia spostato dal canto seguente, dopo ‘apparizione del mostro, l’ultimo anello del ciclo dei violenti, quello in cui sono racchiusi gli usurai.Le due parti hanno estensione pressoché uguale, e quindi una loro reciproca sostituzione non avrebbe dato luogo ad inconvenienti di sorta, quanto alla lunghezza di ciascun canto. Il poeta avrebbe ben potuto concludere qui il ciclo dei violenti e iniziare col XVII quello dei frodolenti. Ma invero l’atteggiamento etico e fantastico di Dante contro gli usurai è ben più sferzante e violento che verso i sodomiti, là dove si esaltano la cortesia e il valore. […] Così il canto XVI sembra porsi al centro di un processo di degradazione che dal canto XV va fino agli avvilenti paragoni del XVII; e gli usurai, implicati nel tono generale del XVII, che si apre con la potente descrizione dell’umano-ferina bestialità di Gerione, par quasi che partecipino alla bassa vita delle incipienti Malebolge. […] Per questa strada può già essere riconosciuta al nostro canto [XVI] una sua unitaria fisionomia, tra XV e XVII, per via di un contenuto alto e ispirato come nel XV, ma calato in una più realistica accezione delle cose, verso i modi del XVII.

Il lavoro di Vallone su Dante trova il suo più organico svolgimento nelle due grandi opere che ho ricordato: i volumi vallardiani dedicati a Dante e alla Storia della critica dantesca.

La vicenda esistenziale di Vallone appare attestata, sì, nella umanità che nasce dai rapporti familiari, dalle evenienze della quotidianità; ma si connota soprattutto come vicenda di uno studioso attento, probo (per usare un aggettivo che sempre gli fu caro e che ricorre frequentemente nei suoi scritti), galantuomo (è la qualificazione umana che, nella sua conversazione, era riservata, come elogio riassuntivo, alle persone che, qualunque fosse la loro attività o la loro area di interessi, sapevano vivere in fondamentale onestà il loro compito). Probità e galantomismo ch’erano quasi una pallida, sopravvivente traccia di cortesia e valore studiati nella cultura del Medioevo e nell’opera dantesca, soprattutto nella Commedia.

Negli studi di Vallone il primo piano è per Dante. Si parte da quelle prime noterelle già ricordate. Vengono poi gli studi sulla Vita Nova e sulla prosa del Convivio in cui Vallone coglie già la tensione sperimentale che sarà poi piena e dispiegata nella Commedia. Il Dante vallardiano continua, con altre prospettive e altra metodologia, le opere che nella stessa collana dell’editore milanese lo hanno preceduto: il Dante dello Zingarelli e quello dell’Apollonio. Dei precedenti Vallone riconosce i meriti, ma il suo discorso si distacca da quelli. Il capitolo d’inizio offre la chiave di lettura dell’intera opera: S’intitola L’uomo di Dante e Dante uomo e mette in luce la situazione dell’uomo medievale posto tra i due poteri assoluti di Impero e Chiesa e da essi condizionato, ma capace – e proprio Dante ne è il campione significativo – di coltivare un ottimismo profondo poiché ha fiducia nel bene universale e nel realizzarsi della giustizia. È, questo, un tema che nasce dalla risentita e netta coscienza civile dello studioso.

Anni di lavoro e di meditazione assidua dell’opera dantesca in un laborioso processo di crescita, perché sempre la parola del poeta aveva da suggerire nuovi percorsi della mente e, soprattutto, della poesia.

Se il Dante rappresenta il ritratto unitario realizzato da Vallone dell’opera del poeta studiata nelle sue motivazioni profonde e nei suoi sviluppi (con la messa in luce dell’esaltazione dei valori laici; della tradizione letteraria occidentale riassunta dal poeta in una sintesi di eccezionale vigore ed originalità e aperta al futuro; della perizia tecnica del poeta, di cui si esplora in particolare la prosa e di cui si sottolineano i risultati straordinari delle Rime rilevati nella “lettura interna” di alcuni testi), la Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo dà conto del lavorio condotto per secoli sull’opera del poeta fiorentino, sulla Commedia in particolare. Opera di ampiezza mai prima tentata nel campo della storia della critica dantesca, il volume (in due tomi) si pone non solo come sistemazione del già fatto, ma come libro di apertura su zone poco esplorate (e l’avvertimento che riguarda la necessità di un’accurata indagine sul Seicento lo dice con chiarezza).

Sullo sfondo dei due volumi vallardiani c’è un complesso materiale bibliografico, ripreso e rifuso, non senza nuovi apporti, nelle due opere-sintesi: E tanti titoli si potrebbero ricordare della folta bibliografia: mi limito a citare Studi sulla “Divina Commedia” del 1955, La prosa della “Vita Nuova” del 1963; L’interpretazione di Dante nel Cinquecento del 1969; Cultura e memoria in Dante del 1988; Strutture e modulazioni nella “Divina Commedia” del 1990; Percorsi danteschi del 1991. In mezzo, negli anni 1985-1988, si pone il lavoro del commento al poema di Dante. Il poeta fiorentino è largamente presente (almeno per quanto riguarda specificamente le figure di Vico e De Sanctis) anche nelle pagine della Storia  della letteratura meridionale. Distingue la costruzione delle opere di Vallone una struttura robusta: c’è saldezza di rapporti tra le parti, c’è solidità d’impianto, c’è gusto di scoperta. C’è, inoltre, l’esercizio di un’analisi raffinata tendente a mettere in luce sottili modulazioni, trapassi delicati di sentimenti e d’immagini e, naturalmente, di toni che sono proprio ed inconfondibili della poesia dantesca. Per dare un piccolo saggio di questi procedimenti varrà ricordare un passaggio in cui si parla della coralità del Purgatorio.

Il colloquio nasce dalle cose stesse o dalla situazione […]. Nel Purgatorio siamo a livello umano e la parola è il sovrano segno dell’umano, come il colloquio è la condizione dell’esser civile.

Sfondo è il coro delle voci, tutte umane, ognuna per se stessa («ciascuna pareva») e ognuna insieme alle altre in armonia. Quando si guarderà a questi sfondi […] si scopriranno altre fonti della struttura dantesca e altri accorgimenti, non sempre criticamente sottolineati, atti a dare risalto alle grandi figure. Se il magnanimo protagonista, il «personaggio» dà il tono all’episodio (e questo piacque sommamente al De Sanctis); il minore e il minimo definiscono i contorni, si caricano talvolta del didascalismo e assumono i compiti del ripartire le azioni e ritagliare i riquadri; l’ambiente poi o lo si assorbe nel protagonismo, come accadde in età romantica, o lo si destina e lo si vincola al canone della struttura. Ma a ricreare l’ambiente, con o senza la traslazione dell’umano e del subumano o dell’extraumano, concorre, e forse ancor più decisamente, l’atto di consenso o di dissenso, il coro delle anime, cioè, ognuna con i modi propri e adatti al proprio ambiente.

Se la parola è il segno dell’umano, qui nel Purgatorio la preghiera le corrisponde per natura; è il fondo naturale, il coro che dà significato e risalto al personaggio scelto, all’azione che si svolge narrando.

Tanti altri esempi si potrebbero ricordare, soprattutto dalle letture di singoli canti del poema. Nessun canto è letto mai come chiuso in se stesso ed autosufficiente. Tutto è riportato alla fondamentale unità dell’opera. La “lectura Dantis” di Vallone è una lettura dinamica. Essa si confronta di continuo con le più ardite, o spericolate, prove esegetiche cresciute sul vigoroso tronco del poema. Due sono i motivi che caratterizzano fortemente le letture dalla fine degli anni Sessanta: quelli dell’intellettualismo e della sperimentazione. Qualche lettura impostata in altro tempo è ripresa, ridefinita, arricchita con nuovi apporti di riflessione. È il caso di Paradiso XXXIII: la prima versione è del 1955, la seconda del 1965, la terza del 1988.

Riprese e ritorni testimoniano d’un risultato mai dato per definitivo ma suscettibile di sviluppi sempre nuovi. E significativa può essere anche la diversità del montaggio del discorso critico. Questo rivela la tenace fedeltà ad un metodo sottoposto ad una verifica continua: all’insegna, sempre, del rifuggire dal vago e dell’ancorarsi saldamente a dati oggettivi legati dal riferimento alla unità della cultura dantesca.

Ma è tempo di accennare almeno al terzo dei nostri dantisti salentini, ad Enzo Esposito. Nel 1990 l’editore Longo di Ravenna, salentino d’origine, pubblicò un libro (si trattò quasi di un’edizione privata) di studi di vario argomento per festeggiare le “nozze di corallo” di Enzo Esposito e di sua moglie. Gli amici autori dei saggi pensarono che questa delle nozze di corallo fosse una simpatica invenzione di Enzo, ma aderirono con entusiasmo all’invito alla collaborazione. In quel libro, apre il discorso un breve saggio di Mario Marti che non tratta argomenti danteschi ma rievoca la storia di una rivistina locale di breve vita ma combattiva ed ambiziosa. Un segno della vita culturale di quegli anni nella nostra provincia: un riferimento da tenere storicamente in conto con attenzione. Ascoltiamo, intanto, le parole rivolte da Marti ad Enzo Esposito:

Tu mi scuserai, Enzo, amico mio carissimo, se prima di entrare in qualsiasi merito, mi permetto di spendere qualche rapida parola per chiarire che cosa fu “Antico e nuovo” e perché io ne parli con te, in linea diretta e pubblicamente, che di “Antico e nuovo” fosti il fondatore, l’organizzatore e l’anima, purtroppo, ahimé, di breve vita.

Dunque, mio benevolo lettore, chiunque tu sia, sappi che “Antico e nuovo” fu una “rivista di cultura” pugliese, ma più salentina, diffusa fra il novembre del 1945 e il giugno del 1948 sempre a Galatina, patria di Enzo Esposito, in provincia di Lecce, dove venne puntualmente stampata (tipografia Pajano prima, “Marra” di G. Bellone poi, Mariano alla fine); ma aveva, per così dire, una bifocale “Direzione”, scissa tra Bari e Galatina stessa […].

Questa scarna e schematica notizia era necessaria, non per te certo, amico Enzo, ma per quanti allora ti furono vicini […]. Era necessaria per tutti coloro che sono venuti dopo e che ignorano tutto quanto maturò qui da noi scrivo, naturalmente, stando a Lecce) subito dopo la guerra disastrosa, in fatto di passione, di ripresa, di recupero culturale e letterario. Fatti locali, infine; minimi, seppur infinitamente significativi e quasi emblematici, che è legittimo pensare siano rimasti ignoti ai nostri amici, per esempio, romani, o fiorentini, o  milanesi, o d’altrove […].

Dunque, a ricordare la tua “rivista di cultura” non mi spinge il desiderio di dire la mia circa un momento assai complesso della vita culturale qui nel Salento, nell’ambito di certi miei specifici, e spero non del tutto ignoti, interessi storici; e neanche di gettare amabili fasci di luce sulle tue capacità organizzative, sulla tua fervida attività di operatore culturale, sindacale, politico…, quando ti ci metti; oppure sulla tua dottrina, sulle illusioni degli avvii, quando ci si aspetta tutto quello che poi non succederà (di te, oggi, rispetto al “te” di “Antico e nuovo” che scriveva di Montale, di Quasimodo, di Ermetismo…, si potrebbe certo esclamare col poeta: quantum mutatus ab illo!, con la tua monumentale bibliografia dantesca sotto gli occhi!); e neanche, infine, aggiungere un insignificante contributo alla critica di me stesso in quegli anni di pena, di sofferenza, di privazioni, di disorientamento, eppure di fatiche e di speranze e di attese. Niente. Dopo le pagine, assai lucide e centrate ella specifica analisi diacronica, scritte da Donato Valli su “Antico e nuovo” nei suoi Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960 (Lecce, Milella, 1985, pp. 122-130), mi riuscirebbe difficile, impossibile, non ripetere; le sue affermazioni diventerebbero le mie, inutilmente. Forse correggerei un po’ il tiro sulla “militanza” e sull’”accademia” della rivistine (l’allegoria dell’antico e del nuovo), sforzandomi di guardare con eguale “simpatia” e l’una e l’altra […].

Esposito, come si vede da questo ricordo di Marti parte con lo sguardo rivolto alla modernità, ad una operatività sul proprio territorio d’origine che, per quanto possa apparire circoscritta, costituisce il seme di future importanti esperienze. L’attenzione a Dante non cancellerà le altre direzioni di ricerca; stimolerà a preparare strumenti bibliografici di notevolissima importanza. In tal modo Esposito si assume consapevolmente, e non solo per la specificità del suo insegnamento di Biblioteconomia, una preziosa funzione di servizio e costituisce un punto fermo della ricerca bibliografica su Dante. Oggi la bibliografia dantesca, nella sua smisuratezza, si serve, come allora si serviva Esposito, delle tecniche più moderne: per questo basta controllare quella che appare in Dante on line della Società Dantesca Italiana per rendersene conto. Ma, almeno per ora, quello che ci ha reso utilissima la Bibliografia di Esposito pubblicata da Olschki è stato l’avere l’autore, per ogni titolo, fornita una sintetica carta d’identità che consente di avere un primo sicuro orientamento rispetto allo scritto cui si riferisce. Però noi cerchiamo, al di là di questo indubbio valore dell’opera bibliografica, il valore della voce di Enzo lettore di Dante. E ci piace, almeno una pagina, trarla da un commento al canto più impervio della Commedia dantesca: il XXXIII del Paradiso. La preoccupazione dell’interprete è quella di rendere chiaro e spiegato quello che nella pagina dantesca è talmente condensato da far sembrare vana l’impresa di dargli una veste comunicativa più agevole. Esposito ci prova e vi riesce mettendo in campo la competenza del lettore di poesia, il garbo e l’eleganza del dire che furono propri della persona. Ma ascoltiamo quest’ ultima citazione.

Dall’unità alla trinità. Dante sa ormai che tutto il bene, a cui ogni volontà tende, è perfetto solo un Dio; sa dunque, per interna necessità, di non potersi né doversi volgere ad altro. Così è che con occhio avvalorato continua a fissare, immobile e assorto, e anzi s’addentra sempre più nell’alta luce fino all’intuizione del nuovo mistero:

Ne la profonda e chiara sussistenza

De l’alto lume parvermi tre giri

Di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri

parea reflesso, e ‘l terzo parea foco

che quinci e quindi igualmente si spiri.

(vv. 115-120).

Nel miracoloso recupero del ricordo l’espressione si fa raccolta, condensata. Il senso della figurazione è chiaro: tre persone uguali nell’essenza e diverse negli attributi; la natura divina, pur mantenendosi una, si comunica attraverso il Padre e il Figlio allo Spirito. La rappresentazione è affidata all’immagine dei tre arcobaleni, dei tre circoli uguali (e quindi non concentrici e non sovrapposti), ma di colore diverso, immagine che, al di sopra della forzata consistenza fenomenica, ha l’evidenza di una luminosa verità fantastica.

Si anela alla cima; e Dante sente ancora una volta la scarsità e debolezza della sua parola rispetto al poco, quasi nulla, che dell’immensamente grande è riuscito a ritenere.

Oh, quanto è corto il dire e come fioco

Al mio concetto! E questo, a quel ch’i’ vidi,

è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

(vv. 121.123).

Ma Dante non cede ancora; inadeguati concetto e parola, rimane operante il sentimento. Il dramma espressivo per un momento si placa nella geometria dottrinale della definizione del mistero: il linguaggio vi tocca punte assolute, risultando più che altrove insostituibile, immagine unica, inalterabile nel suo tessuto verbale, idea che si concreta senza discorso, unità sintetica indiscriminata del molteplice.

E a conclusione:

Ansia di conoscere e libero volere, intelligenza e amore hanno ormai il moto costante di ruota che giri sul proprio asse per impulso uguale e continuo: moto circolare ed uniforme che esprime la piena concordia della volontà umana con la volontà divina. Ma il moto uniforme può anche essere quello, sincrono, di due ruote imperniate agli estremi dello stesso asse: sentimento e volontà in azione miracolosamente unitaria ed uguale. Così  è che l’equilibrio dell’anima di Dante è, in un istante, perfetto: a dirigerlo e regolarlo è Dio, principio e fine della vita universa.

Con le figure e le opere degli studiosi che abbiamo ricordato, con le loro opere naturalmente, il dantismo salentino assume una sua precisa fisionomia e s’innesta vigorosamente sul tronco rigoglioso del dantismo internazionale.

Alcuni riferimenti bibliografici

Aldo Vallone, Correnti letterarie e studiosi di Dante in Puglia, Foggia, Biblioteca Provinciale, pp. 50; poi in Profili e problemi del dantismo otto-novecentesco, Napoli, Liguori, 1985.

Id., Dante, Milano, Vallardi, 1971.

Id., Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, Milano, Vallardi, 1981.

Mario Marti, Il mestiere del critico, Lecce, Milella, 1970.

Id., Con Dante tra i poeti del suo tempo, Lecce, Milella, 1986.

Id., Studi su Dante, Galatina, Congedo, 1984.

Id., Su “Antico e nuovo”: lettera al non obliato direttore Enzo Esposito, oggi in festa, in *Per le Nozze di corallo 1955-1990 di Enzo Esposito e Citty Mauro, Ravenna, Longo, 1990,

Enzo Esposito, Umile – Alta (Par. XXXIII), in * Realtà e simbolo della “donna” nella Commedia, a c. di Pasquale Sabbatino, Biblioteca “L. Pepe”, Pompei, 1987 (“Lectura Dantis Pompeiana”).

Id., Bibliografia analitica degli scritti su Dante. 1950-1970, Firenze, Olschki, 1990 (in quattro tomi).

Id., La Lectura Dantis nella «Casa di Dante» in Roma, in *Filologia e critica dantesca. Studi offerti a Aldo Vallone, Firenze, Olschki, 1989.

* La «bella scola» federiciana di Aldo Vallone. Storia dialettica della letteratura meridionale e critica dantesca nel secondo Novecento, a c. di Pasquale Sabbatino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007.

* Bibliologia e critica dantesca. Saggi dedicati a Enzo Esposito, a c. di Vincenzo De Gregorio (vol. I Saggi bibliologici; vol. II Saggi danteschi), Ravenna, Longo, 1997.

[Lezione tenuta presso l’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina, lunedì 14 dicembre 2009]

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