Sull’antropologia poetica di Leopardi

di Antonio Prete

“Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella”. Questo frammento dello Zibaldone (1 ottobre 1820), che può sembrare una scaglia fantasiosa e stralunata nella fitta trama di un pensiero filosofico e filologico, può fare da epigrafe a una riflessione sull’antropologia poetica di Leopardi. Perché espone, in lampeggiante abbreviazione, elementi propri del procedimento conoscitivo leopardiano: la leggerezza, ad esempio, con l’implicito senso di elevazione, cioè di sguardo rivolto dall’alto verso il linguaggio del mondo e  delle cose, così come prenderà forma nell’Elogio degli uccelli; la presenza cosmografica (una stella) come principio che sostiene persino ciò che è più familiare (una casa); infine il legame (con funi) tra quel che è sovranamente altro, inattingibile, inappartenente, con quel che è terrestre e quotidiano, insomma il legame tra lontananza e prossimità, tra oltretempo stellare e condizione umana.

E subito, in analogia, altre configurazioni si affacciano dietro questo appunto fantastico, e vanno a definire l’orizzonte del pensare leopardiano. Anzitutto lo sguardo sull’esistenza individuale – sulla singolarità corporea, sensibile, immaginosa- mai disgiunto dall’attenzione alla physis vivente, a una natura, cioè, che è vita, e per questo tutto muove e comprende e agita e trasforma. Il respiro della finitudine, del suo chiuso cerchio, messo sempre a confronto con un desiderio d’infinito che è costitutivo, biologico, e tuttavia consapevole del suo scacco. E ancora, il tempo, irreversibile per sua natura, sempre già stato, il tempo che mai non ritorna,  osservato nel caldo specchio della lingua poetica, dove, sebbene in forma di parvenza trasognata e fuggitiva, quel tempo concluso e fatto cenere prende un nuovo ritmo, sicché quel che da sempre è perduto ritrova un suo provvisorio palpito, e nel vuoto della mancanza risuona la musica del verso. Inoltre, una davvero fisica passione della felicità, nel senso del patire la contraddizione tra il desiderio della felicità e il sapere  certo  della infelicità. Infine, la condizione dolorosa, lo stato di “souffrance”, proprio di ogni cosa vivente, osservato sullo sfondo costante di una cosmologia abissale, suprema, imperturbata.

Questa premessa, o meglio questo preliminare compendio, è l’arco –di teoresi e di passione-  lungo il quale si dispiega l’antropologia poetica di Leopardi. La quale consiste in un’assidua dislocazione del punto d’osservazione: dal soggetto alla natura, dal sentire del singolo al ritmo cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’ anteriorità luminosa nella quale la favola è custodia del vivente, il mito è riserva di immagini, l’infanzia del mondo è specchio, o paragone, di quell’incantamento e di quell’animazione delle cose che appartengono all’infanzia di ciascuno. Nello Zibaldone questa mobilità dello sguardo, questo riverbero su di sé dello sguardo dell’altro, questa eccentricità che privilegia l’estremo, il lontano, l’anteriore, è metodo di indagine e di confronto, e per questo la scrittura non può che affidarsi alla forma del preludio, dell’essai, insomma a un movimento del pensiero sempre interrogativo, comparativo, aperto. Del resto  “nello scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe” consiste, per Leopardi, la facoltà del filosofo. Che coincide, per questo aspetto, con quella del poeta. (Zib., 1650, 7 settembre 1821).

Il primo movimento dell’antropologia leopardiana è la critica della civiltà. Della civiltà che nella sua “pretesa perfezione” si manifesta come  astrazione dalla singolarità corporea, senziente e fantasticante dell’individuo. Se osservata nel suo fondamento, la civiltà mostra  come la miseria dei molti è radice del bene dei pochi : di fatto la “pretesa perfezione” sociale è una fabbrica di illusioni che allucina o nasconde il dolore dei singoli (si vedano nello Zibaldone, ottobre 1823,  le fitte pagine sulla “società stretta”, sulla società, cioè, vincolata in rapporti di potere). Il processo di crescente astrazione in cui consiste il progredire della civiltà, quel processo  che Leopardi chiama “spiritualizzazione delle cose, e dell’idea di uomo, e dell’uomo stesso” (Zib., 3911, 26 nov. 1823), è distanza da  un sentire vivo, desiderante, corporeo, da un sentire consapevole della contraddizione tra l’essere per la felicità e il non poter essere felici, consapevole della finitudine che è suo respiro e di quei lampi d’oltretempo che visitano talvolta la condizione umana. L’astrazione come procedimento proprio della civiltà è distanza da quella fisica poetica che è orizzonte di riferimento costante del pensare leopardiano.

Il viaggio è, in civiltà, figura della conoscenza.  Ma l’operetta La Scommessa di Prometeo, vero racconto etnografico,  quasi annunciando l’ amaro sapere – l’ amer savoir – del Voyage di Baudelaire, mostra il tragico e la ripetizione che sono sotto ogni cielo.  Come già, nella adolescenziale formazione del poeta, la lettura del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce, aveva rivelato, dell’antico, i rituali intorno al sapere della morte. Il viaggio avventuroso dell’Islandese si concluderà  con una tanatografia ironicamente aperta alle due varianti: il corpo dell’esploratore divorato dai sopraggiunti leoni affamati oppure sepolto dalla sabbia, mummificato ed esposto nel museo di una città europea, a testimoniare i progressi della scienza. Quanto al viaggio di Colombo verso l’inesplorato, non è l’approdo il centro narrativo del Dialogo, ma lo stato di attesa, di sospensione, il turbamento e il presagio. L’ironia sulle fantasmagorie della civiltà ha nell’operetta La Moda e la Morte, come ben riconobbe Benjamin, la rappresentazione più mirabile:  nel teatrino frivolo e grottesco s’affaccia quel tragico che la modernità rimuove e che consiste nella cancellazione del corpo, del suo sentire, della sua leggerezza e vitalità, del suo desiderio.

Una relazione viva con la natura è invece preservata proprio in quell’ altrove su cui la civiltà appone il cartiglio di selvaggio. Leggendo le annotazioni leopardiane sui Californi ci sembra di sentire l’eco della grande ironia di Montaigne intorno al concetto europeo di sauvage.

La critica della civiltà ha in Leopardi anche la forma di un’antropologia della vita quotidiana, si svolge come microfisica dei comportamenti, disegna una mappa degli stili di sopraffazione, come accade nel Discorso sul costume degli italiani e, soprattutto, nei postumi 111 Pensieri. Dove alle forme omologanti, pervasive, veicolate dal dominio della maschera, dell’opinione, del danaro, e alle promesse di un mondo che invita a prendere parte al suo spettacolo dimettendo ogni riserva di alterità, o di fantasiosa ascesi, pare non sia possibile sottrarsi. A meno che non si faccia parte di quelle “quasi creature d’altra specie”, creature disutili, fragili, la cui lingua ha accenti estranei alla lingua del mondo, e forse per questo ha a che fare con la poesia. E infatti “restare bambini fino alla morte nell’uso del mondo” pare possa essere la sola forma di resistenza.

Per Leopardi il sapere della civiltà ha reso opaca la percezione del vivente, della sua singolarità pulsante e desiderante, e ha sancito un’irrimediabile distanza dal naturale: “come abitare la natura in un mondo snaturato” era già un progetto poetico-politico del giovanile Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. E tuttavia conseguenza del processo di “spiritualizzazione” è anche la conoscenza della “universale miseria della condizione umana”. Una conoscenza che, se svuota la forza delle passioni, e affievolisce il legame con l’immaginazione, dischiudendo la gelida lingua del nulla, disvela tuttavia, allo stesso tempo, una nuova sensibilità: e dunque una cura dell’invisibile, un’attenzione all’interiorità, ai suoi sommovimenti e turbamenti,  una minuziosa fisiologia dell’intimità e dell’amore, si dispiega proprio nel cuore della civiltà. La modernità è allo stesso tempo distanza dal vivente e affinamento della sensibilità, abbandono del corporeo-fantastico e sottigliezza dello sguardo. Ma questo nuovo sguardo tuttavia non può cogliere quell’ “intiero e intimo delle cose” che solo una nuova filosofia, una “ultrafilosofia”, potrà forse un giorno vedere.

 

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Il senso della lontananza come principio di osservazione. Una lontananza che  privilegia il riso democriteo dinanzi ai mali del mondo,  che sperimenta il disincanto dal pathos dopo l’affanno amoroso e conosce l’ascetica distanza dal se stesso palpitante. Che sa guardare da un’altra immemoriale lingua quel “punto acerbo / che di vita ebbe nome”. Una lontananza che tenta l’estrema dislocazione nella volta notturna dello stellato per scorgere l’insignificanza della terrestre rappresentazione del mondo. Una lontananza che, infine, sa evocare quell’inattingibile luce alla quale, secondo il Vangelo giovanneo (III, 19), gli uomini hanno preferito piuttosto le tenebre. Ma disegna anche, quella lontananza, lo spazio di un’anteriorità che possiamo dire antropologica. Un’anteriorità trasparente e allo stesso tempo irripetibile, trasognata e impossibile, priva di nostalgia e tuttavia, per dir così, interrogante. Si dispongono in questa anteriorità le figure dell’ antico , del primitivo e del fanciullo. Ed è sull’energia poetica di queste figure, sottratte a ogni rimpianto e a ogni sacralità, che prende forma la leopardiana lettura dell’origine, schermo per una lettura, in controluce, della modernità. In quelle prime figure, ancora vichianamente, si congiunge conoscenza e immaginazione, sapienza e poesia, senso del vivente e piacere dell’indeterminato, singolarità e passione. Tracce del “naturale” e del “semplice”, lingua propria di quelle figure,  il poeta cercherà sia nell’ordine dei rapporti –si pensi a quella vera e propria teoria della grazia come a più riprese è formulata nello Zibaldone– sia nell’ordine del linguaggio e dello stile. Nella poesia degli antichi Leopardi ritroverà i caratteri propri di quelle originarie figure : prossimità alla natura, percezione del vivente, senso corporeo e fantastico della relazione col mondo, leggerezza e semplicità del dire. E in più, nascondimento sapiente dell’arte, capacità di suscitare emozioni forti attraverso pochi elementi descrittivi, senso della misura che è tuttavia in grado di produrre nel lettore il massimo di risonanza immaginativa. L’attenzione leopardiana all’antico, al primitivo, al fanciullo, non ha radice nel  gusto dell’ingenuo, nella fascinazione dello stupore, ma nel riconoscimento di una forte energia poetica. Per questo, già nelle prime pagine dello Zibaldone, possiamo leggere: “Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia”.

Elementi di questa anteriorità sono in una figura che è invece  presente, ma che allo stesso tempo è oggetto di un’immensa rimozione umana: l’animale. Quando, molti anni fa, scelsi di concludere il mio primo libro leopardiano, Il pensiero poetante, con un capitolo intitolato La traccia animale, non immaginavo che a lungo quella parte del discorso leopardiano sarebbe rimasta pressoché inesplorata. Perché allora vedevo, nelle osservazioni leopardiane sugli animali, addensarsi le domande più forti di un cammino teoretico e poetico. Di fatto, dai versi puerili alle dissertazioni filosofiche dell’adolescente, dall’attenzione alla biblioteca degli antichi naturalisti al disegno di una zoologia fantastica e mitografica, il racconto leopardiano sugli animali è ricchissimo di implicazioni. E appare più prossimo ai tanti passaggi etologici di Montaigne, della sua Apologie de Raymond Sebond, che alle storie naturali dei classici, da Aristotele a Plinio. Una diversa storia naturale, un’altra “histoire des animaux”, prende forma nel racconto leopardiano: non il dispiegamento descrittivo e classificatorio delle forme viventi, ma una diversa lettura della differenza tra l’uomo e l’animale. Quella che per Buffon era la soglia di una separazione tra due mondi – la coscienza, “la conscience de l’homme”- per Leopardi è il luogo dove leggere la storia di una condizione infelice. Mentre nel non sapere animale c’è l’ombra di una sottrazione alla ferita, al sapere della morte, quasi l’annuncio dell’Aperto di Rilke. Il racconto animale di Leopardi va oltre il rifiuto, pure espresso da Buffon, della cosiddetta “théologie des insectes”, della lettura cioè provvidenziale che era propria di alcuni naturalisti.  E vede nell’animalità che la civiltà “spiritualizzata” rimuove non l’oscuro recinto delle passioni, ma il tempo-spazio di un rapporto “ragionevole” con la natura, la forma compiuta di una socialità in equilibrio, i modi di una società proporzionata alla specie (“più o meno società proporzionatamente alla natura rispettiva”), e infine un linguaggio fortemente legato al corpo, ai suoi sensi. Nel mondo animale Leopardi legge insomma  il sintomo dell’altro e scorge la distanza, sensibile e linguisticamente strutturata, da quella “substance spirituelle” che Buffon vedeva come propria dell’uomo. A smentire la pretesa superiorità di quella “spirituale sostanza” per Leopardi è sufficiente osservare il legame tra civiltà e guerra. Nella guerra moderna, in virtù dell’astrazione dal corpo vivente del singolo propria della civiltà, si dispiega tutta la differenza uomo-animale: “…che proporzione, anzi che simiglianza può aver l’uccisione di uno o di quattro o di dieci  animali fatta da’ loro simili qua e là sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con quella di migliaia d’individui umani fatta in mezz’ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria d’ alcun di loro, ma comune… e che neppur conoscono affatto quelli che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un’ora, tornano all’uccisione della stessa gente…?” (Zib., 392-93, 25-30 ottobre 1823).

 

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La meditazione leopardiana sull’esistenza del singolo e dell’universo non si raggela in un’ontologia del nulla, come non si dissipa romanticamente in un sogno d’infinito, per il fatto che nulla e infinito, com’è detto nello Zibaldone, sono nel linguaggio, sono linguaggio: la loro apparizione, la loro presenza, è solo un tremito d’ombra nella lingua. E’ piuttosto verso il disegno di un’antropologia del male che inclina il domandare leopardiano. Un’antropologia del male che non cerca punti d’appoggio in una teologia della caduta, o in una gnostica katabolé, e se è sfiorata qualche volta dalla fascinazione di un principio – orientale e antico – che ne fondi la potenza, presto si ritrae nell’orizzonte del vivente, nel respiro della sua condizione. Del resto è dal chiuso di quella condizione che lo sguardo ha cercato una ragione che trascendesse la povera singolarità infelice e in qualche modo sollevasse il soggetto dalla responsabilità del male che è nel mondo. E laddove, come accade nei passaggi zibaldoniani del maggio 1826,  il male si dispiega nella sua crescente potenza e penetra ogni cosa vivente e include nel suo ordine il ritmo stesso dell’universo, insomma laddove il “tutto è male” diventa l’ouverture di una cosmica gelida sinfonia, è la dislocazione del punto di vista, la finzione di un altro sguardo filosofico che è all’origine della sequenza: “Si potrebbe  esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec.”. Sia detto tra parentesi: sull’orientalismo leopardiano, sulla sua –linguistica e filosofica-  raffigurazione e sulle sue analogie con le immagini dell’antico, si dovrebbe finalmente riflettere. Torniamo ai frammenti sul male:  quando, sul fondo della nera assoluta egemonia del male, appare la pallida alterità del non essere – del non essere come bene -, o quando traluce per un istante l’iridescenza delle “cose che non son cose”, sentiamo che la conoscenza immaginativa del poeta sta cercando una sponda – di silenzio supremo,  di assoluta alterità, di tremolante inesistenza – sulla quale il dolore del mondo sia per un poco sospeso. Dove accada, in modo estremo, quel che la lingua della poesia e dell’arte qualche volta annuncia, sospendendo il tempo tragico nella musica del verso. Per questa ragione vorrei concludere queste sparse riflessioni con un appunto (solo un appunto, non un’esegesi) intorno al Canto notturno. Perché in quel canto ha compimento l’antropologia poetica leopardiana e molte delle cose dette fin qui riappaiono, affidate al rigore musicale e interrogativo di un pensare che ha la poesia come sua lingua necessaria.

Il Canto notturno, al di là della  sua esplicita fonte antropologica –la notizia sui canti lunari dei pastori nomadi kirghisi tratta dal Voyage d’Orembourg à Boukhara del barone Meyerdorff, pubblicato a Parigi nel 1826- ha come orizzonte, persino formale, la riflessione leopardiana sull’oralità, sulla sua energia meditativa ed evocativa, peraltro contemporanea alle composizioni pisano-recanatesi. “La poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura”: l’affermazione (Zib., 4347, 21-22 agosto 1828) sopravviene nel corso della lunga riflessione intorno all’origine del canto, alla priorità della lirica sull’epos, alla relazione tra oralità e memoria, tra poesia e prosa. Per Leopardi, come del resto per Vico, all’inizio c’è il canto. La forma poetica non è separabile dal canto, dalla voce nel canto. La memoria accoglie la lingua del canto, la trasmette e perpetua. La lirica è il genere radicato nell’oralità. Quando nacque la scrittura, dice Leopardi, la poesia aveva già una sua storia, mentre la prosa era ancora “infante”. Presto però la scrittura, che s’impossessò anzitutto della prosa, rese questa raffinata e colta, mentre via via sottraeva alla poesia la sua radice musicale, e, con essa, la sua appartenenza popolare. Quella oralità perduta e fatta canto, quella sapienza antica, popolare, fatta musica, torna a respirare nella finzione del pastore errante. Risentiamo una precedente affermazione leopardiana, di sapore ancora vichiano: “E infatti i primi sapienti furono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia (Zib., 2940-41, 11 luglio 1823). Ma nella sapienza del pastore il poeta moderno fa tremare  l’assillo di un interrogare estremo, inconciliato.   Nella notte  abitata da un silenzio infinito e percorsa dal passo celeste della luna, il domandare del pastore confronta l’esistenza del singolo, il suo affanno, la finitudine, con l’esistenza universale, di cui il volto lunare è pensoso emblema. Quella luminosa presenza  -prossimità insieme familiare e sfingica- è come la porta di una cosmologia sconfinata e perduta (in una delle più antiche Upanisad è dalla  porta della luna che si accede al mondo celeste). Il suo sapere però è tutto involto nel silenzio, in un silenzio che è la forma musicale, per dir così, del nascondimento del senso: il “tacito, infinito andar del tempo”  e “quell’ aria infinita”  sono la grande scena inconoscibile, inattingibile, sono l’oltrelingua che nulla può dire: per questo la domanda del pastore torna su stessa, sulla propria solitudine. Tuttavia un lampo di alterità si affaccia nel cuore del tragico, e ha il segno di una felicità animale opposta al sapere doloroso dell’uomo. Quel lampo riappare con il fruscio d’ali di un sogno leggero: “Forse s’avess’io l’ale”. Il volo tra le nubi, il “noverar le stelle”:  un varco nel quale trema una lontananza assoluta, e persino, per un istante, sorride una metamorfosi angelica. Un varco che presto si chiude. E tuttavia la levità fuggitiva di quel volo, il fruscio presto abolito di quelle ali, troverà, di lì a qualche anno, una sua risonanza: il profumo di un fiore, il suo consolante espandersi nel deserto della vita. La poesia -nel sapere della morte, nel tragico al quale tutti apparteniamo-  ha quella stessa fuggevole, suprema, forse sorridente, levità.

[Recanati, XII Convegno a cura del Centro Nazionale di Studi Leopardiani: Relazione introduttiva (23 settembre 2008)]

 

 

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