Un maestro immortale

di Evgenij Permjak

Alla buona memoria di P. P. Bažov [1]

Il nonnino Astutan Petrovič nelle giornate dei S.S. Pietro e Paolo, allegra festa della fienagione, era considerato, secondo il vecchio ordinamento, essere nel giorno del proprio onomastico, perché nell’estratto di nascita era stato registrato con il nome di Pietro. Veniva chiamato dalla gente semplicemente Petrovan, secondo le abitudini linguistiche del luogo. Il nome Astutan, invece, gli era stato affibbiato più tardi dalla stessa gente del luogo. Il fuoco che ardeva nell’animo di Astutan Petrovič era davvero a bizzeffe. Era servito a tanta, tantissima gente. Era riuscito a riscaldare ed accendere molti cuori. Soprattutto quelli infantili. I ragazzini, c’è da dire, gironzolavano attorno ad Astutan Petrovič come dei passerotti presso una spiga matura di frumento. Avevano un sacco da beccare per saziarsi: storielle vere e fantastiche; fiabe, frottole ed aneddoti; racconti, riassunti, preamboli e leggende… Chissà dove da solo li prendeva? Sapeva di tutto. Poteva ragionare su ogni cosa ci fosse sulla terra.

Soprattutto teneva tanti discorsi a proposito delle mani. In quanto le mani per la testa sono i principali e i più affidabili fattori. Una testa priva di mani è come un genitore senza prole: c’è da comandare, ma non c’è a chi lo si possa fare.

Le mani dei ragazzini poi, si sa, hanno da sempre una presa davvero forte. In modo particolare dalle nostri parti crescono dei ragazzini dalle mani grosse. Alcuni non stanno ancora solidamente in piedi per camminare, ma già li si può scorgere fare amicizia con qualche strumento da lavoro. E’ per questo motivo, si vede, che le terre degli Urali hanno partorito tanti maestri di straordinaria fama. Succede sovente di dare un’occhiata ad un giovinetto, che dovrà crescere ancora per cinque-sei anni per diventare un uomo da potersi sposare, ma già stupisce i vecchi maestri esperti con un’opera plasmata e fusa di rara fattura o acceca con un magnifico manufatto forgiato. Tale è il costume, tale il modo di vivere: si apprezza la testa secondo le mani che ha. Prendiamo, per esempio, un fabbro: a guardarlo, è nero più nero della stessa fuliggine, è brutto più brutto dello spaventapasseri, ma viene chiamato bello amore adorato e non è mai abbastanza lodato e ammirato. Ciò avviene per il fatto che la gente semplice, di fatica, cerca e scorge la bellezza non nella veste, né nei riccioli dei capelli su una testa vuota, né in una mano affusolata e ben curata, né in uno stivale elegante su una gamba flaccida, ma nella sostanza di tutte le sostanze, nel mestiere, nell’arte… nel lavoro, insomma.

Proprio questa sostanza i ragazzini cercano di scoprire da Astutan Petrovič: quale mestiere per loro sarebbe il più adatto, cui avvicinarsi, per prenderlo in modo che non se ne vada più dalle mani, porti la felicità, indichi la strada per la vita, per diventare un vero uomo.

Sovente Astutan Petrovič stava seduto sul cocuzzolo del suo monticello, quale guardiano dei boschi, aggiungeva nel fuoco del falò della legna e trasmetteva la sua saggezza ai ragazzini.

«Senza la testa» – diceva, – «come, peraltro, senza le mani, nessuna faccenda può essere sbrigata, nessun lavoro può essere considerato ben fatto. Ma anche con una testa intelligente e mani forti non si fa niente. Bisogna avere il materiale. La legna, per esempio, o la pietra. O, nella peggiore delle ipotesi, perlomeno l’acqua. Se no, come si potrebbe soffiare anche una bolla di sapone? Fare una buona bevanda o cucinare una minestra.»


Così, a mano a mano, Astutan Petrovič faceva addentrare i ragazzini nella fitta foresta linguistica e, dài e dài, li conduceva per i più stretti e i più sconosciuti sentieri. Ma, alla fine del discorso, li portava comunque sulla larghissima strada battuta e qui, nuovamente c’era una parabola: «Un buon materiale significa tanto ed è molto importante. Ma le mani buone hanno rilevanza assai maggiore. Certe mani riescono a raccogliere degli stupendi fiori vivi tutt’al più in una comune scopa, mortificandoli nel tedio, altre obbligano a vivere la paglia morta in un allegro cappellino. In poche parole, quando il “capecchio” non è adatto alle mani, la giornata è nera e assai lunga la settimana!»

I ragazzini ascoltavano, tacevano e se lo tenevano bene a mente. Specialmente il più piccolo dei ragazzini. Il vecchio intanto aggiungeva del legname sul fuoco dell’astuzia ed andava oltre a mostrare loro altri sentieri nuovi. In modo che ognuno cercasse e scegliesse il suo ed uscisse sulla propria strada felice del lavoro.

Tante lunghe serate furono dedicate a tali discorsi davanti ad un fuoco, sul cucuzzolo del monticello della guardia forestale. I ragazzini di una volta erano diventati oramai dei giovanotti. Si sparpagliarono per le loro strade. Ognuno scelse un “capecchio” per le proprie mani e si affezionò al proprio mestiere. Chi prese gusto a trasformare il minerale fossile di ferro e divenne un bravo tecnico altofornista. Uno si occupò della sua estrazione e divenne un minatore. Un altro si mise a vivificare il marmo. Un terzo intraprese a soffiare dall’ordinaria sabbia uno splendido vasellame vivente. Un quarto soffiò nel ferro l’anima, facendolo diventare una macchina. Un quinto fece qualche altra cosa… Un sesto ancora di più di tutti gli altri…

Si dispersero tutti, quasi. Rimase vicino al vecchio guardiano dei boschi soltanto uno di loro. Il più piccolo. Non era riuscito a scorgere la propria strada. E sì che era un ragazzino dalla fronte ampia, con la vista lunga, dall’occhio assai acuto. Pur non avendo una statura alta, era forte, robusto, tarchiato. Aveva, però, mani troppo piccole, inadatte per il mestiere del fabbro. Le gambe che aveva non erano proprio quelle di un aratore. Era, però, un ragazzo oltremodo attento. Le sue orecchie erano dotate di ottima memoria. Quello che udivano, lo captavano e non se lo facevano mai più sfuggire. Riuscivano a memorizzare persino le voci e le chiacchiere degli uccelli. Quello che diceva Astutan Petrovič, lo teneva tutto in serbo, parola per parola, riuscendo, peraltro, a rinarrare ogni detto, ogni racconto con propri arricchimenti dei particolari in modo favoloso. Ecco come!

Succedeva che il ragazzetto ripeteva ad Astutan la sua stessa favola fantastica o altro, in una tale maniera, da portarlo ad ascoltare a bocca aperta dalla meraviglia.

«Ma guarda che bel campo arato da seminare! Ho gettato appena appena una manciata di grano e tu sei riuscito a trebbiarne cento pud di raccolto. Non di un frumento così così, da nulla, ma ogni granello d’altissima scelta! Germinabilità d’oro! Sono costretto, a questo punto, mio giovanissimo amico, a raccontarti del materiale di tutti i materiali del mondo.»

«Ma di quale materiale dei materiali stai parlando, nonnino Petrovan?» – domandò il ragazzino a questo punto al vecchio.

«Si tratta di un materiale» – rispose Astutan Petrovič, – «da cui si può creare, se si vuole, ogni cosa. Un cielo blu, la terra, i regni, gli stati… Degli stupendi fiori mai visti sulla terra, la bellezza inaudita, la felicità indescrivibile… Si possono costruirne palazzi di cristallo ed immensi castelli di pietra. Se venisse in mente di creare un fiume nuovo, come per incanto, scorrerà il fiume. Se venisse in mente, lì per lì, di fare crescere un bosco, fruscerà con migliaia e migliaia di foglie, in un batter d’occhio, una bella foresta nuova. Può anche far abitare un uomo dei tempi futuri tra la gente di oggi. Oppure, volendo, far diventare immortale una persona ormai defunta.»

«Ma di quale materiale si tratta, nonno?» – chiese il ragazzino un’altra volta.

Ed Astutan rispose: «E’ un materiale semplice e comune. Di uso quotidiano. Ognuno lo ha sulla punta della lingua. E’ assai conosciuto da tutti. In quantità, a bizzeffe. Da rivestire i monti. Da ricoprirne, se si vuole, la terra. Ma è assai difficile trasformarlo ed utilizzarlo per un vero mestiere!»

«E come mai?» – domandò il piccoletto.

«Ci vuole una gran bella selezione. Il materiale in questione necessita di un lungo ed operoso lavaggio. Strada facendo, senza prestare la massima attenzione, non si riesce granché a lavarne i granelli preziosi. Se, talvolta, si dovesse anche riuscire a tirarne fuori questi granelli preziosi, è molto difficile utilizzarli!»

Il ragazzetto non sapeva che pesci prendere: credere o non credere? Non riusciva a comprendere, se si trattasse di una assai complicata parabola o di una seccatura epica.

«Che razza di granelli sono, Petrovan Petrovič? Come sono d’oro o di pietre preziose?»

«Ma no, ragazzo mio. Azzarda pure molto più in alto. Per uno solo di questi granelli a volte non basta il costo di due panieri di pietre preziose. Possono capitare anche tali di questi granelli che da soli, uno per uno, non valgono in sé nulla. Ma basta unirli insieme e si metteranno a brillare in una collana talmente preziosa, da non scambiare con cento pud d’oro puro. C’è una forza misteriosa racchiusa in quei granelli. La forza di tutte le forze! Non c’è nulla per contrastare la forza di questa forza, caro “occhioni mio”, diceva Astutan Petrovič, carezzando i riccioli castani sulla testa del ragazzino e guardandolo negli occhi, come se gli domandasse: «Hai capito di che si tratta?»

Ma un ragazzino così piccolo come avrebbe potuto capire? A comprendere un concetto simile non arrivano a volte neanche gli adulti. Non è che il nonno Astutan lo stia prendendo in giro? Alletta per farsi seguire da qualche parte, ma dove si andrà non lo dice. Ribolle tutto a questo punto il ragazzino e domanda: «Tu dimmi, nonno, chiaramente, di quale forza di tutte le forze si tratta? Come si chiama questo meraviglioso materiale dei materiali, del quale tu stai parlando?»

Allora smise il vecchio di essere riservato e disse in modo chiaro: «Il materiale dei materiali e la forza delle forze, si chiamano entrambi con lo stesso nome e la stessa parola, la parola! La parola umana. Non esiste nulla di più prezioso. Non c’è nulla di più forte. Riesce a conquistare grandi città intere. A far fermare e retrocedere il nemico. A conquistare e riempire i cuori. A resuscitare i morti. A far patire a morte dei viventi. Ad indicare e portare sulla strada giusta o far finire nel baratro. Ad insegnare ad odiare. Si fa seguire. A far uscire dall’oscurità interi popoli. Ad illuminarli con la luce del sole. A fare crescere le ali… Ogni cosa è soggetta alla parola… Certamente purché si tratti di una parola grande, vera e non di una parola vana e vuota… Ecco tutto.»

Disse così Astutan Petrovič e tacque. Aveva lasciato il ragazzo a riflettere, se un materiale tale ed una forza tale fossero adatti alla sua intelligenza e alle sue mani.

Tanta acqua scorse da quei tempi sotto i ponti. Si spense il falò allegro sul monticello della guardia dei boschi. Da tanto tempo lasciò la vecchia casupola del guardiano un ragazzino attento dall’ampia fronte. Sta filando il suo “capecchio” d’oro linguistico in fili preziosi. Lava e rilava il materiale semplice e risaputo da tutti, da cui scegliere e selezionare con molta cura la forza di tutte le forze. Sta cercando e ricercando dei preziosi granelli.

Molte giornate di S.S. Pietro e Paolo festeggiarono i falciatori sui luoghi di fienagione degli Urali. Il ricercatore di parole inestimabili era diventato ormai un omaccione barbuto. Dodici mesi all’anno lavorava nella miniera linguistica. Si tratta di una miniera eterna. Inesauribile. Vieni e prendi, scava l’oro e le pietre preziose verbali nel linguaggio. Metti tutti i tuoi sforzi nell’estrazione dell’oro dalle miniere delle leggende natie del luogo. Scava il pozzo verso le favole e le fantasticherie del passato remoto. Anima gli intenti ed i pensieri luminosi dell’antichità con le favole dalle pietre preziose per dei figli e dei nipoti.

E’ così egli fece. Soleva scovare alcune tra le più ammuffite leggende, dicerie, storielle, ripulirle, disincrostarle dalle escrescenze dei tempi, portarle al nocciolo della faccenda, evidenziarne il principale prezioso granello, per poi incastonarlo, come un’icona, in una bella cornice d’oro, da non poterne staccare più gli occhi dalla meraviglia.

Persino dall’antico pozzo, in cui gli anziani oziosi avevano gettato dentro una malvagia strega blu, riuscì a tirare fuori una stupenda favola. Non passava a cuor leggero vicino a un cigno. Di questo magnifico uccello esistono dicerie popolari di ogni sorta e specie. E’ sufficiente solo saperle scegliere. E che dire del capriolo dei monti che non saltava soltanto da asperità ad asperità del suo habitat naturale, cui la popolazione locale nelle sue leggende, riuscì a ferrare con un fiabesco ferro d’argento un suo piccolo zoccoletto, ogni battuta del quale donava alla povera gente monete d’oro, pietre preziose e diamanti. Ed eccoti una favola nuova. Quella, per esempio, di una forza misteriosa che sta a preservare le viscere dei monti, ammalia le persone, pure è assai diffusa ed è viva nei discorsi della popolazione. Sarà forse perché le belle pietre luminose vennero estratte nel buio quasi pesto. Nei cunicoli strettissimi delle miniere. C’era da avere una gran paura! Persino la propria ombra fu facile scambiare per un orrendo mostro montano. Eppure, quanta bellezza! Quanti meravigliosi affreschi naturali di pietra! Come non considerare tutto ciò, come un ricchissimo minerale fossile delle favole? E’ sufficiente prelevarlo e fonderlo in un favoloso getto magico!

Così andava il ricercatore delle miniere linguistiche tra la gente. Viveva in mezzo al popolo. Pernottava presso degli scavi. Soggiornava nei reparti degli altiforni. Stringeva rapporti con uomini navigati. Teneva all’amicizia degli anziani. Non si ritraeva dal discutere e parlare coi ragazzini. Ascoltava attentamente i fatti della vita. Sapeva gioire della felicità altrui e dispiacersi in modo sincero dei destini infausti. Sapeva entrare nel merito di ogni cosa. Non si sdegnava neppure del ciarpame. Succedeva che, insieme ad esso, si gettava fuori dall’isba anche qualche parola assai preziosa e rara. A pesarla non è più di quattro-cinque grammi, ma vale quanto un pud d’oro puro.

Non era un puritano, non si faceva fare due volte un invito per qualche allegra festicciola od una gozzoviglia. La gente ubriaca è un pozzo inesauribile di parole. Le getta di solito a fiumi e non soltanto ingiuriose. Per quanto a volte persino le imprecazioni possono luccicare come grani di diamanti puri.

Per non parlare delle caserme, in cui le parlate di tutte le regioni stanno in un unico schieramento linguistico. C’è soltanto da saper scegliere quelle che ti servono.

Intanto il tempo scorreva avanti e avanti. Cinquant’anni rimasero dietro le spalle dello scrittore di favole. Cinquanta inverni erano tutti dentro la sua barba. Gli inverni brinarono un po’ la sua barba, l’argentarono. Arrivò il tempo dell’ultimo lavaggio di finitura del ricchissimo minerale fossile. Era arrivata l’ora di mettere in opera tutti i granelli dell’inestimabile giacimento.

Accese il vecchio la luce di una lampadina elettrica di Lenin[2] (a quei tempi illuminava oramai tutti e tutto a pieno regime e forza) e… si confusero tra loro notte e giorno. Granello al granello, scintilla alla perla, pietra preziosa alla perlina, diamante all’argento, oro alla minuscola gocciolina di rugiada, parola alla parolina, rigo scritto al rigo scritto, foglio dietro al foglio, si resuscitava, si vivificava tutto il passato, sentito, vissuto.

Era molto riconoscente il vecchio scrittore di favole ad Astutan Petrovič per la prima scintilla accesa e al popolo per tutto il resto. Per l’animo onesto e luminoso. Per l’eroico lavoro. Per ogni rigo scritto. Sbocciarono sopra i fogli bianchi dei fiori di pietra imperituri. Si rianimarono mostri cattivi e buoni. Colubri d’oro. Biscette azzurre. Agili lucertoline. Allegri caprioli. Fedelissimi cigni.

Si mise a parlare una fiabesca regione. Si svegliarono i monti. Si misero a brillare con un nuovo scintillio le pietre. Ai vecchi maestri fu restituita una gloriosa fama meritata, che era stata soffocata nei tempi oscuri dai ricchi signori-padroni. Le bisnonne si illuminarono con la fanciullesca ardente bellezza di una volta.

Cinquantasei preziose favole e leggende forgiò il gran maestro della parola scritta, di cui la buona metà per le mani intelligenti e la fatica. Certo, per forza, era un figlio di un operaio. Viveva in mezzo ai fumi degli altiforni. Misurava il tempo con la sirena dello stabilimento produttivo.

Il vecchio scrittore di favole sfaccettava premurosamente il duraturo e il durevole. Senza accorgersi, aveva immortalato se stesso. Il grande mago – il lavoro – l’ha dotato della forza delle forze, contro la quale è impotente persino il tempo. Ed adesso, faceva vivere e vivere all’infinito il maestro immortalato nel marmo e nel bronzo. Nei fogli scritti dei libri di favole. Nei magnifici fiori di pietra. Nella stravagante bellezza della malachite. Nelle leggende care al cuore del popolo…

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

 

 

[1] Pavel Petroviã Bažov, scrittore russo-sovietico (1879-1950). E’ considerato il maggiore scrittore di favole folcloristiche degli Urali, di cui la più rappresentativa è la raccolta intitolata Lo scrigno di malachite.

[2] Uno dei primi decreti di Lenin, quale Capo del Governo sovietico, fu: «Tutto il potere ai Soviet + l’Elettrificazione dell’intero Paese» .

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