Referendum Lombardia-Veneto: intervista a Guglielmo Forges Davanzati

 a cura di Nicola Quaranta

Il processo referendario avviato da Lombardia e Veneto per chiedere allo Stato forme e condizioni particolari di autonomia, ha riacceso il dibattito sull’opportunità di trattenere nelle regioni di residenza le risorse altrimenti destinate a finanziare la spesa nazionale e quindi delle altre regioni. Sarebbe una penalizzazione per il Mezzogiorno?

Sì, lo sarebbe certamente. Il processo referendario si inquadra in una linea politica che riflette un ben preciso orientamento di teoria economica, secondo il quale, per produrre crescita economica, occorre accentrare le risorse nei poli che sono già più produttivi: in altri termini, una variante degli effetti c.d. di sgocciolamento (trickle down). L’ipotesi, tutta da dimostrare, è che le diseguaglianze (in questo caso territoriali) generano crescita. E’ la metafora del treno: se la locomotiva parte, si tira dietro tutti i vagoni. Fuor di metafora, si ritiene che la crescita dei profitti delle imprese del Nord incentivi la domanda di sub-forniture, tipicamente rivolta alle imprese meridionali, con conseguente aumento dei profitti anche a beneficio di queste ultime. Il problema è che questo effetto non si è mai storicamente verificato e, al contrario, ciò che è accaduto è crescita delle divergenze regionali. Anzi. L’evidenza storica mostra – in linea con la posizione teorica di molti meridionalisti contemporanei – che la crescita economica italiana è tanto maggiore quanto maggiore è la crescita del Sud. Assecondare un processo di ristrutturazione del capitalismo italiano basato sull’accentramento delle produzione ad alta intensità tecnologica al Nord appare, in questa prospettiva, una strategia di lungo periodo perdente, sia sul piano economico sia sul piano politico, dal momento che, con riferimento a quest’ultimo aspetto, rischia di assecondare nuove (ma già viste) rivendicazioni identitarie, di piccole patrie. Consideriamo poi qualche dato a riguardo. L’ultimo Rapporto SVIMEZ segnala che la crisi nel Mezzogiorno ha assunto dimensioni devastanti e che il Mezzogiorno recupererà un sentiero di crescita pre-crisi soltanto nel lontano 2028. A fronte del dato generale per il quale l’Italia è stata la sola, fra i maggiori Paesi dell’Eurozona, a far registrare un tasso di crescita negativo nel 2014, dal 2008 al 2016 le regioni meridionali hanno perso circa il 13% del Pil, a fronte di una flessione (anch’essa rilevante) del 7.4% per il Centro-Nord. In più, la lunga recessione meridionale si associa a un significativo aumento delle diseguaglianze distributive: l’ultimo Rapporto ISTAT sul “Benessere Equo e Sostenibile”, del 2015, certifica che il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti è 6,7 volte superiore a quello posseduto dal 20% delle famiglie con i redditi più bassi mentre nel Nord il rapporto è di 4,6. Le cause dell’aumento dei divari regionali sono fondamentalmente tre. In primo luogo, data l’esistenza di effetti c.d. di polarizzazione, una volta determinatasi aggregazione di imprese in una data area, tale area attrae investimenti e manodopera altamente qualificata. Il Mezzogiorno è pienamente coinvolto in questa dinamica perversa che, si osservi, si attiva spontaneamente, in assenza di interventi di istituzioni esterne al mercato. In secondo luogo, le politiche di austerità hanno maggiormente colpito le regioni meridionali a ragione, fondamentalmente, del fatto che lì sono collocate prevalentemente imprese che vendono su mercati locali. In tali circostanze, la riduzione della spesa pubblica riduce i mercati di sbocco, generando, per conseguenza, riduzione dei profitti (o fallimenti), degli investimenti, dell’occupazione. A ciò si può aggiungere che, rispetto al Nord, sono maggiormente presenti nel Mezzogiorno imprese di piccole dimensioni, che, proprio per questo, sono fortemente dipendenti dal sistema bancario e pagano tassi di interesse sui fondi a prestito notevolmente più alti rispetto al resto del Paese, o comunque hanno maggiori difficoltà di accesso al credito. In terzo luogo, i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno somministrato dosi relativamente maggiori di austerità proprio alle aree più deboli del Paese.

Diversi gli studi sul residuo fiscale. Corretto sostenere che il Mezzogiorno riceve in beni e servizi pubblici molto più di quanto versa in gettito fiscale?

Assolutamente non corretto. I trasferimenti pubblici pro-capite sono minori nel Mezzogiorno (cioè, i cittadini residenti al Sud ricevono una quantità di risorse pubbliche e di servizi pubblici minore rispetto a quanto ricevono i residenti al Nord) e la tassazione pro-capite è maggiore al Sud. Lo certifica la Corte dei conti.

Il Mezzogiorno già oggi accusa un gap di sviluppo con il Nord. Con il federalismo la situazione andrebbe a peggiorare?

Ovviamente sì. Ma il referendum va inquadrato all’interno di un’interpretazione di carattere più generale della ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi. Una possibile ipotesi interpretativa che dia conto del totale abbandono del Sud, in questi ultimi anni, può partire da questa considerazione. Il Mezzogiorno oggi, come SVIMEZ certifica, è oggetto di un vero e proprio tsunami demografico: gli imponenti flussi migratori degli ultimi decenni, soprattutto di individui con elevata scolarizzazione, hanno determinato un processo di progressivo invecchiamento della popolazione residente associato a un significativo calo delle nascite. Il combinato della deindustrializzazione, e dei connessi fenomeni di ‘ritorno alla terra’, e della crescente incertezza, imputabile alla crescente precarizzazione del lavoro, ha ridotto la propensione al consumo, accrescendo i risparmi per motivi precauzionali. Il Sud non è più, quindi, un rilevante mercato di sbocco. E peraltro lo è sempre meno se si considera che, rispetto a qualche decennio fa, la totale deregolamentazione dei flussi commerciali, unita alla notevole compressione dei costi di trasporto, rende possibile, per le imprese del Nord, individuare agevolmente mercati di sbocco in altri Paesi. Le ultime rilevazioni ISTAT-ICE certificano che la crescita delle esportazioni italiane è essenzialmente imputabile all’aumento delle vendite di imprese localizzate al Nord e che queste imprese esportano prevalentemente in Germania e Francia, all’interno dell’Eurozona, e negli Stati Uniti. In tal senso, il Sud interessa sempre meno perché non svolge più la funzione di mercato di sbocco delle produzioni delle imprese del Nord. In questo scenario, le prospettive economiche del Mezzogiorno sembrano andare sempre più nella direzione di un modello di sviluppo basato su produzioni a bassa intensità tecnologica, in settori maturi (agricoltura e turismo). Avvalorando la retorica che vuole che compito dell’azione politica sia semplicemente assecondare le “vocazioni naturali” del territorio, anche se queste rischiano di accentuare e prolungare la recessione e amplificare i divari regionali.

Le imprese devono temere una possibile svolta federalista dello Stato?

Sì, perché le imprese che operano nel Mezzogiorno – per quanto si può ipotizzare – vedranno ridotta ulteriormente la domanda interna, per effetto del calo dei consumi conseguente a possibili ulteriori incrementi della pressione fiscale dei consumatori meridionali. E poiché si tratta di imprese, di norma, di piccole dimensioni che operano su mercati locali vi è da attendersi una ulteriore compressione dei margini di profitto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 26 ottobre 2017]

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