Magazzino 18

di Maria  Marinari  Moro

Il magazzino 18 è uno dei tanti magazzini del Porto Vecchio di Trieste, triste e dimenticato, come tutti i luoghi abbandonati. In esso sono accatastate, in uno spazio di circa 2.000 metri cubi, mobili, letti, comodini, sedie, valigie e bauli, povere masserizie, semplici oggetti di vita domestica, fotografie di nonni, di giovani sposi, di bambini e bambine coi loro grembiulini e i fiocchi bianchi in testa, ricordi di famiglia, di tempi passati, lieti e tristi, ma tutti importanti per chi li ha vissuti. Tutti questi oggetti sono stati lasciati lì dalle migliaia di persone che, alla fine della seconda guerra mondiale, sono state costrette ad abbandonare Fiume, Pola, Gorizia, Zara ed altri circa duecento comuni italiani. Col Trattato di pace del 10 febbraio 1947, infatti, l’intera Venezia Giulia e la Dalmazia sono state cedute alla Repubblica jugoslava del maresciallo Tito: di tutta quella regione è rimasta all’Italia la sola città di Trieste con un piccolo territorio circostante.

La fine della seconda guerra mondiale, tanto attesa, segnò invece nella Venezia Giulia, l’inizio di un periodo molto difficile e doloroso, intessuto di odio e di rappresaglie, che determinarono la scomparsa e la morte di migliaia di italiani, barbaramente uccisi e gettati nelle foibe carsiche, ancora adesso, dopo tanti anni, senza un nome e senza una dignitosa sepoltura. Il Trattato di pace stabiliva, tra l’altro, che gli abitanti di quei territori, in maggioranza italiani, dovessero presentare la loro opzione tra la cittadinanza italiana e quella jugoslava. Chi non esprimeva alcuna scelta diventava automaticamente cittadino jugoslavo; chi optava per la cittadinanza italiana rischiava di perdere il posto di lavoro e di venire espulso.

Trecentocinquantamila persone di ogni età, di ogni ceto sociale, operai, contadini, professionisti, suore, sacerdoti, scelsero di rimanere italiani e abbandonarono le loro terre d’origine, quelle terre dove erano nati e cresciuti, loro e i loro figli, ed erano  sempre vissuti i loro avi. “Fu questa – disse mons. Ugo Camozzo, l’ultimo vescovo di Fiume italiana – la più bella espressione d’amore che l’Italia abbia ricevuto durante l’ultima guerra”. E lo scrittore triestino Claudio Magris aggiungeva: “I profughi hanno dato un grande esempio di dignità, di moderazione e tolleranza, di intelligenza, pagando essi soli una colpa che ricade su tutta l’Italia”.

Io sono nata a Fiume e in questa città ho vissuto i primi diciannove anni della mia vita. La mia famiglia nel 1946 ha scelto, come tante altre, la via dell’esilio. Non fu facile, per nessuno di noi, prendere una decisione, in quei terribili anni: la nostra vita, nonostante i disagi e le sofferenze della guerra appena conclusa, trascorreva serena nelle città in cui eravamo nati e cresciuti, con le nostre famiglie, con gli amici, nelle nostre case, che mai pensavamo di dover abbandonare. All’improvviso ci trovammo in città divenute straniere ed ostili, città che fino ad allora si erano dimostrate accoglienti ed ospitali verso tutti. Ci trovammo travolti da avvenimenti più grandi di noi, avvenimenti che avrebbero cambiato per sempre i nostri progetti di vita. Dovevamo andarcene, ne eravamo convinti. Ma gli oggetti che avevano riempito le nostre case, ad ognuno dei quali erano legate tante memorie, quelli almeno li volevamo portare con noi. E così ce li siamo portati dietro, quelli che potevamo, i più cari, i più significativi.

L’Italia, però, era appena uscita dalla guerra, distrutta dai bombardamenti, e non aveva molto da offrirci. In Italia ci attendeva lo squallore dei campi profughi, sparsi per tutta la penisola: vecchie caserme, depositi abbandonati, locali fatiscenti, dove molti di noi dovettero rimanere per lunghi anni, in attesa della ricostruzione. Molti altri, non riuscendo a trovare lavoro in patria, dovettero emigrare ancora, verso l’Australia, l’America, il Canada, la Nuova Zelanda. Ecco perché le nostre cose sono rimaste ammassate in quel Magazzino 18 di Trieste, umili testimoni che appartengono alla quotidianità della nostra vita, e sono perciò ancora più vive ed emozionanti. Ormai nessuno più andrà a reclamarle.

La storia degli esuli giuliano-dalmati è ancora poco conosciuta, nonostante sia stato istituito dal Parlamento italiano, nel 2004, un “Giorno del Ricordo” ad essa dedicato.

Per contribuire a non far dimenticare quegli avvenimenti, il cantante e compositore Simone Cristicchi, che aveva avuto l’occasione di visitare il magazzino di Trieste, ha scritto una canzone che ha intitolato, appunto, Magazzino 18. Cristicchi non sapeva quasi nulla della vicenda dei profughi (i libri di storia, infatti, le dedicano, ancora adesso, appena poche righe): «Da ragazzo – egli racconta – andando al Liceo all’EUR, attraversavo ogni mattina il Quartiere Giuliano Dalmata. Pensavo che fosse un condottiero o roba del genere».

Quasi contemporaneamente un giornalista italiano di origine polacca, Jan Barnas, ha pubblicato, presso l’editore Mursia, un volume intitolato «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani – Storie di esuli e rimasti», che raccoglie, oltre a notizie storiche sull’esodo e le sue cause, le testimonianze di coloro che avevano vissuto quelle vicende sula loro pelle. Il volume di Barnas è molto interessante, perché illustra vari aspetti dell’esodo dalla Venezia Giulia, alcuni dei quali ancora non ben conosciuti. Pochi, infatti, sanno che, oltre agli italiani che hanno scelto l’esilio per non vivere sotto il regime comunista di Tito, ci sono stati altri italiani che, pur desiderando partire, sono rimasti nelle loro città occupate, perché costretti da gravi motivi di famiglia (persone molto anziane, malate, invalide e quelli che si sentivano obbligati ad assisterle; vecchi contadini, specie nell’Istria, che non riuscivano a staccarsi dalla loro terra coltivata con fatica ed amore per tutta una vita; vedove con figli piccoli, da crescere…). Altri sono rimasti perché convinti di poter contribuire così alla nascita ed allo sviluppo del socialismo reale nella Jugoslavia di Tito; tra questi anche soldati italiani che si trovavano nei Balcani  l’8 settembre 1943 e, non potendo raggiungere la madrepatria, si erano aggregati alle brigate partigiane jugoslave.

Ancora meno conosciuta è la vicenda del cosiddetto “controesodo”. Circa duemila operai comunisti italiani, “duri e puri”, provenienti soprattutto dai cantieri di Monfalcone, lasciarono i loro posti di lavoro in Italia e si trasferirono con le loro famiglie a Fiume e a Pola, per sostituire gli operai italiani che avevano lasciato quelle città. Era stato facile, infatti, per le autorità jugoslave, sostituire i contadini istriani con braccianti agricoli fatti arrivare dall’interno della Jugoslavia, ma nei cantieri navali occorreva manodopera altamente specializzata, che la Jugoslavia di quei tempi non poteva assolutamente fornire. Grazie ai “monfalconesi”, dunque, fu possibile la ripresa della produzione industriale nelle zone passate alla Jugoslavia. I nuovi arrivati, perciò, furono accolti molto bene nelle città in cui si erano trasferiti, ma ben presto si scontrarono con una realtà assai diversa da quella che si aspettavano, fatta di fame, miseria, disorganizzazione nel lavoro.

La situazione politica precipitò, poi, nel 1948, quando avvenne la rottura tra Mosca e Belgrado e la Jugoslavia fu espulsa dal Cominform. Gli operai monfalconesi decisero di rimanere legati alla linea politica del Partito Comunista Italiano, fedele a Stalin; all’improvviso divennero persone sospette, sottoposte alla sorveglianza dell’OZNA, la polizia politica segreta di Tito. I più fortunati furono destituiti dai loro incarichi e costretti a lasciare immediatamente il loro paese. Ma molti di essi furono arrestati e, dopo un processo sommario, furono condannati a vari anni di carcere, da trascorrere nei cosiddetti “campi di rieducazione”, come quello, tristemente noto per la sua durezza, di Oli Otok (l’Isola Calva), sulle coste della Dalmazia, o nei lager della Bosnia Erzegovina, definiti da uno dei più grandi scrittori sloveni Boris Pahor, che vi fu detenuto a lungo, addirittura peggiori di quelli tedeschi. Molti vi lasciarono la vita: tra i sopravvissuti alla prigionia i più decisero di far ritorno in Italia, ma rimasero isolati e solo negli ultimi anni si è saputo qualcosa della loro drammatica storia.

Simone Cristicchi e Jan Barnas si sono conosciuti e dal loro incontro è scaturita l’idea di unire testimonianze e musica e di realizzare un lavoro teatrale, intitolato anch’esso Magazzino 18, che da qualche mese viene rappresentato nei maggiori teatri italiani (il primo spettacolo è stato fatto a Trieste) ed è stato portato anche in Istria e nei più importanti centri della Croazia e della Slovenia.

Si tratta di un musical di alto valore civile, con una scenografia imponente, un coro (il Coro di Voci Bianche della Venezia Giulia), un’orchestra (la FVG Mitteleuropa Orchestra). Cristicchi vi recita un lungo monologo, in cui si intrecciano le memorie degli esuli, raccolte dallo scrittore, e le musiche e le canzoni (alcune inedite) del compositore. Ad un certo punto dello spettacolo si inserisce, inaspettata, la debole voce di una ragazzina slovena che, nella sua lingua, racconta anche lei la sua storia di profuga, strappata dal suo villaggio distrutto e bruciato dalle milizie fasciste, e rinchiusa, lei, senza nessuna colpa) nel campo italiano di prigionia dell’isola di Arbe. In quel campo morirono di fame e di malattie migliaia di persone, soprattutto vecchi, donne e bambini, sospettati di aver dato aiuto ai partigiani slavi. Anche questi profughi – vuole ammonire la bambina – non devono essere dimenticati, anche loro sono vittime di quella stessa tragedia che ha colpito gli esuli giuliani. Il fascismo, infatti, durante la sua dominazione, perseguitò i cittadini di nazionalità slava: proibì l’uso delle lingue slave in tutti i luoghi pubblici, perfino nelle chiese; abolì in tutta la Venezia Giulia le scuole, i giornali, i libri, i circoli culturali slavi; condannò al confino o al carcere chi si opponeva a queste disposizioni. Furono molte, tra i croati e gli sloveni, le vittime del regime fascista, soprattutto dopo il 1941, quando le truppe italiane occuparono la Croazia.

Il musical di Cristicchi e Barnas ha il merito di far conoscere anche a chi, finora, lo avesse ignorato, soprattutto ai più giovani, la tormentata storia dei nostri confini orientali nell’ultimo secolo.

Da quegli avvenimenti, ormai, sono passati più di sessant’anni e molte cose sono cambiate: la Jugoslavia di Tito non esiste più, sono nate le repubbliche di Slovenia e di Croazia, che ormai fanno parte dell’Unione Europea. Nelle località slovene e croate I cartelli stradali e turistici riportano anche i nomi italiani di quei posti; le minoranze italiane sono tutelate, sono sorti circoli culturali e si pubblicano giornali italiani; sono stati riaperti gli storici licei di Fiume, Pola e Capodistria e si stanno stabilendo contatti fra queste scuole e le corrispondenti scuole italiane (da qualche anno il Comune di Roma organizza un” Viaggio nella civiltà giuliana e dalmata “, che porta studenti e docenti a conoscere i luoghi della memoria più significativi del nostro confine orientale).

Nel luglio del 2010, nella Piazza dell’Unità a Trieste, il Maestro Riccardo Muti e la sua orchestra “Cherubini”, formata da giovani di tutta l’Europa, hanno eseguito un concerto al quale hanno assistito i presidenti dei tre stati confinanti, l’italiano Giorgio Napolitano, lo sloveno Danilo Türk e il croato Ivo Josipović; in quell’occasione fu proposta la creazione di un comune «Parco della Pace» da Caporetto a Duino, su quella striscia di terra in cui, durante la prima guerra mondiale, morirono moltissimi soldati italiani, agli ordini del generale Cadorna, e anche molti slavi, comandati dal feldmaresciallo von Borovjević, di origine croata.

Il 14 maggio del 2013 si è tenuto a Brescia un convegno internazionale intitolato “Le vicende del confine orientale d’Italia e l’esodo dei giuliano-dalmati. Una memoria per la nuova Europa che sta sorgendo”, in cui hanno discusso e lavorato tutti insieme sloveni, croati e italiani, esuli e rimasti. A conclusione lo scrittore e giornalista Milan Racovac, rimasto in Istria dopo l’occupazione jugoslava, ha detto: “Le nostre memorie adriatiche parallele non viaggiano più su due rotaie di una stessa ferrovia senza mai incontrarsi. Oggi sono convergenti. Certo, ognuno di noi resterà radicato ai propri ricordi, ma, più ci addentreremo anche in altri ricordi, nei ricordi degli Altri, più impareremo a conoscere le verità diverse e differenti dalle nostre. Così, ritornando alle origini, … potremo realizzare anche per le nuove generazioni un mondo che abbia un senso”.

“In ciascun Paese si ha il dovere di coltivare le proprie memorie e di non cancellare le tracce delle sofferenze subite dal proprio popolo – ha affermato recentemente in un suo discorso il presidente Napolitano – l’essenziale è però non restare ostaggi degli eventi del passato”.

Noi no dimentighemo” (Noi non dimentichiamo) – promette Simone Cristicchi nel suo musical – ma i nostri ricordi devono soprattutto servire a stimolare in noi una nuova coscienza, che sappia rispettare i diritti degli altri ed instauri tra tutti gli uomini un dialogo di giustizia e di pace veramente costruttivo.

(2014)

 

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