Introduzione a Stuart Hall, Tony Jefferson, Rituali di resistenza

di Luca Benvenga

Resistance Through Rituals, tradotto per la prima volta in italiano con il titolo Rituali di Resistenza1, raccoglie e sistematizza quelli che sono stati i Working Papers in Cultural Studies n. 7/8 (1975) del Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, un Centro di ricerca post-laurea fondato nel 1964 da Richard Hoggart, già docente di letteratura ingle­se. Una collazione che consente di dar conto simultaneamente ad una serie di tendenze codificate raffiguranti il contesto di vita dei giovani della comunità operaia – in una società le cui sorti etico-comportamentali (come in tutto l’Occidente) erano prevalentemente segnate dai rapporti di produzione, resti­tuendo l’eterogeneità dei vezzi intellettuali su cui sono stati appuntati buona parte degli indirizzi di ricerca dello stesso Centro, sostanzialmente orientati all’esplorazione della lived experience mediante uno sguardo partecipante e visioni penetranti.

La prospettiva da cui muove lo studio è orientata all’esplorazione delle nuove aggregazioni di giovani che hanno squarciato la società inglese negli anni successivi l’ultimo conflitto bellico. Le immagini, le logiche intrinse­che, l’antagonismo e la critica latente sviluppati dai figli della classe operaia britannica rappresentano il focus dello studio socioantropologico, con i con­tributi dei vari studiosi (curati per l’occasione da Stuart Hall e Tony Jeffer­son) tesi a dimostrare come le formazioni oggetto d’analisi fossero sensibili all’avvicendarsi delle dinamiche di mutamento storico-culturale. (Particolare attenzione riveste il rapporto di causa-effetto tra l’interazione dei giovani e le trasformazioni urbanistiche prodotte dalla modernità capitalista nell’East End londinese, concettualizzazioni che seguono la scia illuminante indicata da Phil Cohen nel suo articolo “Sub-Cultural Conflict and Working Class Community”2.)

Invalidando la celebrazione della razionalità “economica” del periodo for­dista, e del disciplinamento ortopedico dei corpi funzionali all’estrazione di valore mediante la logica robotizzante del produci-consuma-crepa, dalla di­namicità dei processi vitali del singolo individuo (tradotti in regolarità com­portamentali collettive) traspare la fabbricazione di una soggettività in guisa di aporia all’auto-collocazione sociale, nell’interesse di preservare gli incon­trovertibili territori delle appartenenze (fisici ed ideali) eletti ad agenti del cambiamento della fisionomia, dell’azione e della semiotica corporale di inte­re sacche di individui. Inclini alla costruzione di una identità originale, insce­nata mediante una serie di simboli, eccezionalmente fuori dal lavoro e dalle istituzioni adulte, ecco palesate le premesse assiomatiche, oltre all’esistenza di una consapevolezza di classe, legittimanti produzioni subculturali e pratiche attoriali in questo circuito cumulativo dello stravolgimento dei segni.

La presenza co-articolata dei differenti generi (sessuali e stilistici) discussi si impongono come cruna d’ago se si vogliono indagare i percorsi di eman­cipazione, tanto individuali quanto collettivi, dei crescenti frammenti di po­polazione giovanile da una lente sincronica (senza ignorare l’importanza di un lavoro diacronico per una maggiore chiarezza del fenomeno). Da questa figurazione è possibile individuare caratteri e significati da assegnare alle varie condotte nel contesto delle reiterate relazioni soggetto-potere, interrogandosi sui tanti perché, domandandosi come mai ad un certo punto della Storia recente si sia sentito il bisogno di scegliere la strada del travestimento, di ap­portare una critica simbolica alla borghesia negli anni della sindacalizzazione degli operai, del boom della rappresentanza politica e dell’impegno partitico.

Osservando il diffondersi dei rapporti che si stabiliscono tra questi itinerari e il più ampio universo sociale di riferimento all’interno del quale aderisco­no biograficamente, e culturalmente conservano o rovesciano, a mettersi in luce è stato senz’altro l’esistenza di uno sfondo comune che ha contribuito a ridefinire la posizione occupata dai teen-ager nella società, declinando modi­fiche personali intervallate e avallate dalla conquista di una maggior rilevanza nell’ambito del tempo libero (indotto da una crescente autonomia salariale e da un’auto-emancipazione che si rifletteva nel consumo di beni voluttuari) e della socialmente trasversale esistenza more opus, spiccatamente condizionata da un tessuto urbano che spingeva ad una immediata ed irreversibile filosofia esistenziale avanguardista.

Le note che seguiranno si propongono di interpretare (senza pretesa di esaustività) il dissociazionismo simbolico (e di riflesso identitario) annuncia­to e reificato dalle culture giovanili oggetto del presente volume, e nel senso più esteso, di comprendere il complesso processo di costruzione dinamica del corpo, sempre più soggetto ad un rituale di vestizione, postulato essenziale per conoscere le articolazioni che hanno incoraggiato il sorgere di un’auto-produzione dell’esperienza di vita, in una società in cui i destini individuali costituivano, nove volte su dieci, la copia conforme a quelli familiari, con il dispiegarsi di una progressiva sottrazione all’invasività degli spazi totalmente assolutizzati dall’egemonia culturale, con le classi dominanti intente a produr­re soggettività che aderissero alle loro proposte culturali-ricreative. In questo cono d’ombra è stato possibile scorgere un attraversamento di individui in­tenzionati a concorrere al riprodursi di una identità autovalorizzante, in cui prende forma e sostanza il sé sociale e culturale in filiazioni collettive.

 

Dissociazionismo, simbolizzazione e autodeterminazione

Conditio sine qua non per lo studio di una qualsiasi disidentificazione gruppale analizzata in una sua dimensione temporale è l’analisi del tessuto antropologico e socioculturale di riferimento, quello anglosassone negli anni successivi il secondo conflitto mondiale, caratterizzato dall’estraneità dei gio­vani alla tradizione di classe, così come avveniva nel resto dell’Occidente, premessa essenziale che favorirà la perpetuazione di una pulsione generazionale tutta nuova. Per l’osservazione dei modelli culturali posti in essere in un dato scenario, dunque, analizzare le strutture economiche e politiche come fatto dagli studiosi britannici, è un prerequisito indispensabile per una eventuale comparazione, ad esempio, con un quadro storico-cronologico completamen­te “rinnovato” come quello attuale, labile, flessibile e poroso nelle aderenze perpetrate dalle infinite e multicolori facciate delle comunità di giovani, in cui si scorge una predilezione ad aggregarsi virtualmente sui social network e/o negli shopping mall, metronomi e corollari del forum culturale esplicitato nella contemporaneità (Cfr. V. Codeluppi, 2014), lontano parente del setting in cui sono maturati i molteplici comportamenti perpetrati dai protagonisti del testo.

Esaltando l’importanza della dimensione dello spazio urbano (fisico, il mu­retto italiano per intenderci, una microzona autonoma che inciti al lancio di nuovi stili di vita, uno “spazio sociale liminare” lefevbriano ricco di possibilità relazionali che si sottraggono alla logica dell’organizzazione capitalistica-indu­striale), in una società di produttori che aveva raggiunto un saldo equilibrio tra salari e profitti, con una allocazione ordinata di forza lavoro e risorse (il per­fetto sviluppo della “curva logistica” direbbe David Harwey), i membri di una subcultura determinano una cortocircuitazione dei processi di soggettivazio­ne, con un linguaggio (pensiero, azione, corpo) in frizione con l’ordine sociale, proiettato alla “conquista” di frammenti di territorio, trasfigurati e vissuti (Cfr. M. Canevacci, in L. Benvenga, 2017, p. 70) da realtà disomogenee tra loro e incompatibili con il Potere. Potere che tendenzialmente muove(va) nello scopo di razionalizzare le modalità di vita degli attori sociali al fine di espellere o limi­tare i processi di insubordinazione, tanto nel centro quanto nella periferia della metropoli.

Oggi, forse, spendersi narrativamente sulle formazioni dei giovani britan­nici che hanno preso piede in un passato a noi lontano, sulle appartenen­ze territoriali (la strada, il pub, la piazza, il negozietto di quartiere) e sulla classe, per definire i comportamenti come fatto da Hall et al., si tradurrebbe nella dicotomia blochiana della “contemporaneità del non contemporaneo”, una a-temporalità nell’epoca dello sharing, del fake, dell’assolutizzazione del cyberspazio e del soggetto-performativo (dal lavoro al consumo). Negli ulti­mi decenni un insieme di condizioni di vita tutte nuove hanno infatti preso stabilmente piede, a beneficiarne è (stato) un processo osmotico tra culture “a consumo di immagine”, non più identificabili come soggetto collettivo immu­tabile (nelle sue radici) ma come collettività flessibile e ultra-individualizzata, racchiusa attorno ad una specificità estetica, teatralizzante, pirandelliana, opa­ca. In questo panorama è osservabile una condizione oggettiva di accelerato cut-up delle generazioni degli anni Ottanta, Novanta e a venire, inscritte in una contingenza in cui saltano i confini sociali e politici, la linea di demarca­zione tra uomo-donna inizia a sgretolarsi (per esempio) con le culture gothic e emo (anche se qualcosa del genere era già rinvenibile nei Mods), con la moda dei grandi marchi a proporre potenzialmente soggetti androgini (si frantuma l’antitetico dualismo visivo tra sub-cultura workin’class – vedi Skins e Teds –, e contro-cultura middle-class, connotato nel rifiuto, nel primo caso, e nell’esal­tazione, nel secondo, di un atteggiamento “effeminato”, imputabile, tra le altre cose, alla lunga chioma).

Con i loro estetizzanti simbolismi, i teen-ager rappresentati in questa ri­cerca sono stati soliti invertire quel rapporto esistente tra lavoro (posizione sociale), tempo libero e consumo compensativo, reiterando un modello di costume idealizzato, a mezzo del quale comunicare i personali attributi socia­li, sottolineando una irripetibilità del soggetto e l’unicità edulcorata del segno (seppur omogenei nell’esteriorità, gli abiti seguivano la fisicità del singolo). Gli oggetti di consumo, intesi in questi termini, aprono ad uno scenario di liberazione visionaria: trasformati in linguaggio in un sistema di significati, l’individuo esprime l’esistenza di una trascendenza psichica condivisa, una “demarcazione totemica” (Cfr. M. Augé, 2016) che attiva un meccanismo di significazione ancestrale del gruppo e che si formalizza in una concezione ritualistica. Con l’uso “distintivo e simbolico” di uno stile si interpreta la dis-connessione con la realtà egemonica, si invalidano le supposizioni generali di senso (upper-class equipollenza con abito elegante, un ragionamento che vale anche se invertito, proletariato uguale abiti consunti. Cfr. D. Hebdige, infra, cap. 4), un sistema sociale riassunto erroneamente nell’adagio “l’abito fa il monaco”, prontamente invalidato dai mods, con il loro manifesto sov­vertimento estetico che ha scardinato i caratteri dell’immagine stereotipata. Allargando il raggio di interesse, si è davanti ad un processo dinamico che ingloba con il passare degli anni le subculture britanniche con quelle di Piazza Mercanti a Milano e del Quartiere Latino di Parigi, capace di edificare una realtà pluralizzata dalla cui portata internazionale si può comprendere ancora oggi la forza di rottura scagliata contro il credo materialista su cui si ergeva la società in Occidente (Cfr. P. Bollon, 1991), mantenendo tuttavia una sua specifica geo-territorialità.

In sostanza, le subculture giovanili stanziano in una linea di confine che circoscrive il rapporto soggetto-oggetto, una sommatoria di sistemi autorefe­renziali fondati sulla modalità d’uso della merce e l’esaltazione del culto del corpo: “Siamo ciò che vogliamo” è la sintesi di un lungo dibattito su chi sono questi giovani, una routine inscenata (si è pur sempre in una dimensione tea­trale della vita) dai figli della workin’ class anglosassone, con il corporale a rap­presentare quel terreno di identificazione (nelle aspirazioni e nelle percezioni) ad una data circostanza storica o ad un gruppo sociale, la cui produzione con­diziona il dialogo tra i diversi contesti di vita quotidiana, da quello tra i sessi a quello familiare e amicale, compreso il modo che si sceglie di consumare il tempo libero, con i suoi luoghi e le sue frequentazioni. Ed ecco che il look subculturale del secolo scorso, nella sua radicale soggettivazione alternava visi smunti, capelli corti talvolta colorati e brillantinati, collant con mocassini, anfibi o stivali, doppio petto e jeans, soprabiti sgargianti, giacche di pelle, creste e borchie, impermeabili e parka, indici di adesione in cui si fonde il concetto di simbolo a quello di egoico: binomio che con il passare degli anni è stato passibile di modifiche correlate al periodo storico e ai meccanismi di significazione indotti dalla cultura di massa, così come interdipendente dalla provenienza dei vari teen-ager e dal loro uso consapevole (nella sostanza e non nella forma) degli oggetti, ambito principale dell’industria dello svago giovanile attraverso cui veicolare l’autonomia, rigettare la leadership adulta e opporsi ad un universo ambientale maggioritario (Cfr. G. Lapassade, 1995).

 

Conclusione

Oggi, la fine della metropoli industriale, e con essa quella di una esistenza quotidiana che per gran parte del Novecento ha seguito la partitura disegnata dal mondo del lavoro, con interazioni e valori atemporali ad esso riconducibili e declinabili (E. Bevilacqua, 2002), ha prodotto uno slittamento della dialet­tica di emancipazione dei corpi (non più da intendere come soggetto collet­tivo ma somme di frammenti in solitaria), riconvertito il rapporto individuo-società, autonomizzato il “consumo”, incentivato forme di sperimentazione sociale centrate su forme collettive di riappropriazione della terra e dei mez­zi di produzione, e rigenerato le relazioni inter-personali su un dato tessuto urbano (sempre più eterogenee, pena una loro estinzione, alla tassonomica classificazione sinistra-destra e proletari-borghesi di una certa cultura moder­na). La direttrice autodeterminante dei destini individuali e collettivi, che nel passato si scontrava in prevalenza con la riappropriazione del plusvalore, con la sottrazione del tempo all’autorità padronale (M. Grispigni, 1990), e con la contestazione simbolica e la conquista di mezzi e accessori per godere del tempo libero (come nei casi di studio sciorinati in RDR), nelle società odierne percorre i confini pluralizzati dell’accumulazione esperienziale per (soprav) vivere (nel)la quotidianità, sempre più precaria, con i luoghi di socializzazione ravvisati nei parchi divertimento e nei centri commerciali, con l’estetizzazione non avvalorabile più come segno di un codice sociale (Cfr. M. Ilardi, 1990), ma costola del processo produttivo che abbisogna di soggettività creative da immettere nei propri circuiti, di individui che producono innovazione auto­consumandosi (F. Chicchi, 2015).

Le trasformazioni sociourbanistiche (compressione dello spazio, contra­zione del tempo con l’automazione dei processi di produzione accostati alle nuove tecnologie della comunicazione e dei trasporti) hanno frantumato la differenziazione topografica della metropoli industriale, omogenea per classe nei luoghi dell’abitare e le cui forme relazionali erano allora trans-generate (dai rapporti di scambio economico), prefigurando nuove esigenze raziona­li di sviluppo urbano (terziario, trasformazione della periferia in centro, ab­bandono dell’inner city dei ceti medio-bassi), e riconvertito l’organizzazione capitalistica in seno al lavoro: la flessibilità organizzativa e contrattuale ha minato l’autorevolezza dei grandi soggetti collettivi e minacciato il senso di appartenenza alle rispettive classi, consegnando uno scenario contraddistinto da una coazione all’espulsione della forza-lavoro. Il conflitto oggi passa dalle resistenze all’esproprio, dal diritto all’abitare e dalla cooperazione sociale (red­dito, miglioramento della qualità della vita mediante “isole ecologiche”, auto­gestioni come reazione allo smantellamento dello stato sociale, si veda, tra gli altri, ancora una volta M. Ilardi, op. cit.), e dissalda gli equilibri istituzionali che hanno caratterizzato buona parte del secolo scorso, mediante il serpeggia­re di percorsi iper-individualizzati refrattari ai compromessi e alla mediazione degli attori politici tradizionali (W. Privitera, 2009), con l’evidenza di una componente prettamente culturale (ma non sub, semmai massificata perché manca l’alter-ego egemonico univoco), che si sottrae alla cornice parlamenta­re del canonico dibattito politico-ideologico, sprovvisto delle relative appar­tenenze, in cui non avrebbe più senso parlare di comunità di destino come intese dai giovani britannici causa la depauperazione del concetto di identità.

Con i sempre più nuovi sistemi di cibernetizzazione del lavoro, la fab­brica e la produzione come teatro di lotta e aggregatore sociale, perlomeno nell’Occidente post-industrializzato, ha lasciato il posto alla comunicazione (inversione dell’ordine normativo del discorso sociale, es. gli indiani e i punk sul finire degli anni Settanta), agli stili di vita e ai consumi critici, ovvero ad un conflitto sempre più inglobante ma meno rough street corner e tendenzial­mente anomico (le organizzazioni di difesa territoriale stile vittoriano sono erose perché le molteplici relazioni individuali e la strutturazione del tempo sono state “tematizzate”). Ci sarebbe da domandarsi, acquisendo criticamen­te gli assunti teorici di RDR e traslandoli di qualche decennio, quale legame si stabilisce oggi tra la periferia e i suoi residenti? Assumendo l’insicurezza, l’ansia, la paura dell’“altro da sé” come collettore planetario dell’attuale con­figurazione sociale e politica, i rapporti interpersonali tenderanno all’infinito a manifestarsi prevalentemente in luoghi securizzati e sempre di rado nei quartieri come in passato (con una evidente omogenizzazione segnica dei consumi e degli stili di vita)? Quale fisionomia assume oggi nelle periferie la banda di strada? È la classe (come per i culturalisti britannici)? È la colloca­zione territoriale (come per i chiganiani)? O sono entrambi i suoi caratteri fondanti?

È innegabile come con la rifrazione obbligata e accelerata del tessuto me­tropolitano si sia andati incontro al collasso della dimensione solidale (per questo che nell’attuale contingenza parlare di coesione e univocità dei teds, skins etc. avrebbe senso solo per imporre la conservazione e perpetuazione di un valore eminentemente storico), le forme del vivere tradizionale si sono disciolte, destrutturando legami, economie di quartiere e meccanismi impli­citi di ammortizzatori sociali. Le eteroclite articolazioni non ci consentono di comprendere ontologicamente cosa si intende oggi quando si parla di “americanizzazione” della gioventù post-atomica; aspirazione alla “mobilità verticale” dei “miniaturisti” Mods; rivitalizzazione dell’“antagonismo opera­io” dello Skinhead, indicatori che a cavallo tra due decenni hanno trainato le giovani generazioni sensibili a multipli processi, con un’ascesa di svaria­te “unità generazionale” (Cfr. K. Mannheim, 2002) non affatto traducibili come mero prodotto di simmetrie anagrafiche, bensì risultante di una col­lettivizzazione e diversificazione delle esperienze, di energie, di similarità co­agulate che si cementavano nello street corner, nei quartieri proletari, nella rielaborazione critica e riflessiva dell’estetizzazione benjaminiana congiunta alla componente di classe, negli effetti terapeutici del rinnovamento sociale proposto dalle aggregazioni di strada, quale valvola di scarico delle pulsioni collettive dei subalterni (Cfr. V. Marchi, 1998), che hanno trovato sfogo ne­gli oggetti e negli ornamenti sbandierati virilmente in questa “sfida totale”, popolare e dal sapore antico.

 

Bibliografia

 

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“Sui processi di soggettivazione. Intervista a Federico Chicchi”, in Sudcomune, n. 0, 2015.

 

1 Nel tradurlo ci si è serviti della ristampa del 2006 edita dalla Routledge.

2 P. Cohen, “Sub-Cultural Conflict and Working Class Community”, Working Papers in Cultural Studies, No. 2 (Spring). CCCS, University of Birmingham, pp. 5-51.

[Introduzione a STUART HALL, TONY JEFFERSON, RITUALI DI RESISTENZA. TEDS, MODS, SKINHEADS E RASTAFARIANI. SUBCULTURE GIOVANILI NELLA GRAN BRETAGNA DEL DOPOGUERRA, a cura di Luca Benvenga. Prefazione di Davide Borrelli. Postfazione di Massimo Canevacci. Traduzione di Luigi Cocciolo e Angela Giorgino, Novalogos 2017. Si pubblica per gentile concessione del curatore.]

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