A cosa serve la formazione universitaria

di Guglielmo Forges Davanzati

I dati pubblicati dal Rapporto Almalaurea, ripresi e commentati da questo giornale, fotografano un situazione per molti aspetti scontata e prevedibile: i laureati all’Università del Salento trovano più tardi occupazione rispetto ai loro colleghi laureati nelle sedi del Nord. Come hanno fatto presente il Rettore Zara e il collega Angelo Salento, il dato si commenta da sé, nel senso che la domanda di lavoro espressa dalle imprese salentine è notevolmente più bassa di quella espressa dalle imprese del Nord.

Il punto in discussione è se la finalità della formazione universitaria sia ‘produrre’ individui che siano immediatamente pronti per entrare nel mercato del lavoro. La questione è non banale, sebbene si possa presumere che per la gran parte dell’opinione pubblica la laurea serve ad avere una migliore e meglio remunerata occupazione.

Vi sono però buone ragioni per ritenere che questa posizione, sebbene sia del tutto comprensibile dal punto di vista degli studenti e delle loro famiglie, non è affatto l’unica possibile e, soprattutto, non è affatto l’unica politicamente ammissibile. L’idea che studiare conviene (ai fini dell’occupabilità) oppure non conviene (in relazione alle sedi e ai corsi di studio) non è affatto scontata e risente di una posizione politica e teoricamente che implicitamente rende la formazione funzionale al mercato del lavoro.

Innanzitutto va posto un punto fermo, che, per quanto ovvio, sembra sfuggire ai tecnici del Ministero: per quanti miglioramenti organizzativi un’Università può porre in essere, l’Università non può incidere sull’assetto produttivo dell’area nella quale opera.

In secondo luogo, vi sono buone ragioni per ritenere che l’istruzione abbia valore in quanto tale, indipendentemente dal fatto che la si acquisisca in Unisalento o a Milano. E, se è un valore in quanto tale, deve essere resa accessibile a tutti e non vincolata al mercato.

L’Italia sperimenta da anni il paradosso di avere le tasse di iscrizione più alte dell’Eurozona e la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro è fra le più basse (27% a fronte di una media OCSE del 40%). L’aumento delle tasse di iscrizione – nell’ordine del 60% dal 2005 al 2015 – è imputabile alle politiche di continuo definanziamento dell’Istituzione, peraltro più intenso per le sedi meridionali.

In termini più generali, le politiche formative in Italia nel corso dell’ultimo decennio sono state declinate esclusivamente per la possibile soluzione di problemi economici: dai tagli del Ministro Tremonti, finalizzati alla riduzione della spesa pubblica e all’obiettivo di generare avanzi primari, alle proposte (tutte da verificare) per una ripresa della spesa per il settore della formazione questa volta finalizzati all’aumento delle esportazioni. Il primo tentativo è almeno parzialmente fallito. Le misure di austerità adottate a partire soprattutto dallo scoppio della prima crisi greca del 2010 hanno sì generato risparmi del settore pubblico ma anche crescita del debito pubblico in rapporto al Pil, per effetto della contrazione di quest’ultimo. Oggi, la formazione è finalizzata alla occupabilità – ovvero alla ‘produzione’ di potenziali lavoratori che hanno competenze adeguate a quelle richieste dalle imprese – e l’occupabilità, a sua volta, è finalizzata alla competitività.

Nel contesto delle politiche formative, il richiamo ossessivo alla competitività è del tutto fuorviante, sia se riferito al contributo che i neo-laureati possono dare per accrescerla, sia se riferito alla ricerca scientifica.

Nel primo caso, non vi è alcun nesso, anzi. La competitività su scala internazionale si gioca oggi prevalentemente sulla qualità delle produzioni e dunque sulle innovazioni. Le competenze riguardano il saper fare qualcosa che già esiste. L’avanzamento tecnico le rende rapidamente vecchie. Ciò che conta (proprio ai fini della competitività) è semmai il saper apprendere e il saper apprendere deriva, a sua volta, dalle conoscenze di carattere generale che un ragazzo ha acquisito.

La ricerca scientifica produce risultati di lungo periodo e, come è ben noto, assolutamente non certi. Non a caso, le principali innovazioni nella storia del capitalismo del Novecento sono state rese possibili attraverso un preventivo investimento pubblico in ricerca e sviluppo, a ragione del fatto che le invenzioni possono solo in alcune condizioni (dunque, non sempre) tradursi in innovazioni utilizzabili da imprese private (il c.d. capitale paziente). Cosa che spiega perché le imprese private trovano al più conveniente utilizzare invenzioni già realizzate tramite finanziamenti pubblici, laddove sussistano le condizioni per renderle innovazioni tali da generare profitti. Ciò vale a maggior ragione per la ricerca c.d. di base (p.e. la ricerca in ambito matematico o in area umanistica) dove, ancor più della ricerca applicata (tipicamente quella ingegneristica) i risultati sono incerti e di lungo periodo.

L’obiettivo di accrescere la competitività delle nostre imprese è da perseguire mediante appunto misure che agiscono nel breve periodo. Ciò non significa che la formazione non possa servire per rendere più competitive le nostre esportazioni ed eventualmente per attrarre capitali dall’estero, ma ciò può avvenire per canali indiretti: p.e. perché una diffusa scolarizzazione è associata a bassa propensione al crimine, che, di per sé, a parità di altre condizioni, è un fattore di incentivo agli investimenti.

Infine, si può osservare che gli studenti, soprattutto nelle sedi meridionali, hanno bisogno di maggiori servizi – p.e. più personale amministrativo nelle Segreterie dei corsi di laurea. Si tratterebbe non solo di potenziare il finanziamento statale alle Università (intervento che tutti invocano, in primis i Ministri, ma che si è fin qui visto in senso contrario – sottrazione continua di risorse, selettiva a danno delle sedi del Sud), ma soprattutto di eliminare ogni elemento di premialità, distorsivo per definizione e penalizzante per le sedi periferiche e di norma meridionali.  Non ha alcun senso porre gli Atenei in concorrenza per l’attrazione di studenti e sono molto discutibili, sul piano metodologico, le classifiche degli Atenei: gli studenti (almeno alcuni) potrebbero essere attratti da corsi di laurea ‘facili’ per ottenere il titolo di dottore. La concorrenza fra Atenei per l’attrazione di studenti può generare l’esito esattamente opposto rispetto a quello desiderato, ovvero ridurre la qualità di ricerca e insegnamento, e spingere le Università a investire sul marketing.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 15 giugno 2018]

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